Accompagnare una persona nella fase ultima della vita
di Michele Galgani
L’accompagnamento come quel tratto di strada, quell’istante o successione di momenti che
due o più esseri umani affrontano assieme in modo per lo più intenzionale e reciprocamente
interessante, sensato e ricco di significati. E’ l’insieme dei gesti, delle emozioni, dei desideri, delle
comunicazioni e delle reciproche intenzioni che intercorrono fra due individui che per un qualche
motivo si trovano a condividere una parte della loro vita, rivestendo ruoli diversi ma in qualche
modo e per qualche tempo complementari.
In questa cornice, l’accompagnamento del morente potrebbe essere definito anche come lo stare
accanto di un essere uman11o nei confronti di un altro essere umano che sta attraversando il
momento più importante della propria vita dopo la nascita, ovvero, l’avvicinarsi della propria
morte. L’accompagnamento del morente è una pratica che aiuta il morente nel difficile passaggio,
facendo dell’accompagnatore un compagno e una guida e dell’ammalato un essere umano che
percorre, con meno timore e più forza, il proprio cammino esistenziale. L’accompagnamento è un
gesto sacro che nasce e si realizza in un momento sacro quale è il termine della vita di una persona.
I genitori accompagnano i figli nella loro crescita. I mariti accompagnano le mogli, e quest’ultime
accompagnano i mariti. Un amico di banco accompagna il compagno disabile, un altro l’amichetto
straniero, mentre il bidello accompagna i ragazzi quando fanno ricreazione. Il conducente di un
autobus accompagna le persone al lavoro, e il cassiere di un supermercato accompagna i clienti nel
momento più doloroso: quello del conto. Un ristoratore accompagna i clienti per le vie del palato,
una guida alpina accompagna una gita di scalatori, mentre un passante casuale accompagna una
coppia in auto in cerca di una via dandogli le indicazioni che sa. L’infermiere accompagna gli ospiti
del reparto in cui lavora, il medico fa la stessa cosa, forse in maniera un po’ diversa. La signora
delle pulizie accompagna i malati di un reparto quando li incontra, al mattino presto, magari
svegliandoli bruscamente; il famigliare accompagna il proprio caro nel suo percorso di malattia
e…l’ammalato accompagna chi si prende cura di lui.
Ogni essere umano affianca nella propria vita altri esseri umani, è la cosa più normale, più scontata
forse, ma anche la più importante e necessaria per la crescita, lo sviluppo, l’individuazione di
ognuno come persona, come essere umano dotato di una personalità, di abilità sociali, di autonomia,
di indipendenza, di scambi affettivi significativi. Parlare di accompagnamento è parlare della
relazione fra gli esseri umani da un angolatura particolare, in certi casi, o di un vero e proprio
sottoinsieme delle normali relazioni intercorrenti fra gli individui in altri casi.
Così definito si può parlare di accompagnamento in qualsiasi relazione educativa e/o di aiuto, ma
anche in molte delle relazioni che normalmente intercorrono fra gli individui all’interno di una
coppia, di una famiglia, di un’amicizia. Al contempo si specifica l’importanza solenne che
l’accompagnamento di una persona in fin di vita ha e non può non avere.
I gesti e la predisposizione d’animo verso un bambino appena nato o verso una persona negli ultimi
giorni di vita possono anche somigliarsi e sono entrambi di grande importanza, ma mentre verso un
bambino la gioia e la novità di questa nuova presenza nel mondo fanno da guida a chi guida,
animano e rendono più semplice e spontaneo lo stare accanto, nell’accompagnamento del morente
tutto sembra più difficile e tutto è permeato da tragicità, da impotenza, da non comprensibilità verso
quello che sta accadendo.
E’ indubbiamente difficile accompagnare un proprio caro, o un ammalato a noi estraneo, verso la
morte, ma tale difficoltà spesso offusca le menti e i gesti rendendoli cechi di fronte all’importanza
del momento che viene così semplificato, banalizzato, nascosto, cosificato. Ci dimentichiamo
troppo spesso di una parte, solenne e celebrativa che lo stare accanto a un nostro simile in momenti
di grande sofferenza ha, per quanto brutta e tragica essa sia.
Non tutte le relazioni, per fortuna, si trasformano in quel tipo di accompagnamento che è oggetto di
questo libro, ovvero lo stare accanto ad un malato terminale, ma intendo proporre quest’ultimo
come un tipo di accompagnamento, uno dei tanti fra quelli possibili nell’arco di una vita. A molti di
questi simile per diverse caratteristiche, ma non per questo uguale a tutti quelli possibili.
Accompagnare un ammalato a volte può somigliare ad una relazione padre figlio, a volte ad una
relazione amicale, a volte richiede che noi siamo il traino o che semplicemente ci lasciamo guidare.
Sarà importante osservare le specificità di questo tipo di relazione per non confonderla con altre o
per non trattarla solo come se fosse altro, ma anche per non spaventarsi qualora, in alcuni tratti,
dovesse somigliarvi.
Accompagnare una persona al termine della sua vita
La definizione offerta poco sopra intende ascrivere l’accompagnamento che si può attuare con un
malato grave ad un più vasto insieme di relazioni, come se ogni relazione che per me individuo ha
un senso e che comunemente chiamiamo “amicizia”, “fratellanza”, “relazione coniugale”,
“relazione genitoriale”, avesse in sè il seme dell’accompagnamento al morente e viceversa.
Nell’accompagnamento al morente possono essere presenti tutte le componenti derivanti dalle altre
relazioni possibili, pur possedendo questa relazione una sua specificità. Se immaginiamo ogni
relazione per noi dotata di un minimo di peso come una forma di accompagnamento, anzi, di
reciproco accompagnamento, sarà più facile per noi, potenziali accompagnatori di qualcuno in fin di
vita, comprendere i confini e le possibilità che questa specifica relazione, talvolta così difficile e
ricca di interrogativi, ci offre.
Ogni relazione umana è un accompagnarsi, è un “procedere verso”, condiviso con qualcuno.
Approfondendo la definizione su esposta possiamo quindi dedurre che accompagnare è:
– condivisione: di parti di sè e della propria storia con qualcun altro, attraverso parole o gesti;
– casualità: a volte siamo accompagnatori senza volerlo, senza saperlo. Capitiamo in un posto
per fare una cosa e ce ne succede un’altra oppure ci troviamo accanto a qualcuno che soffre o
che ha un accidente qualsiasi mentre siamo presenti noi (prendo un autobus per andare al
lavoro e mi siedo nell’unico posto libero, acanto ad una signora che per mezz’ora si sfoga con
me di una sua preoccupazione. Alla fine ci salutiamo e mi ringrazia per la mano che le ho dato,
perchè ora si sente meglio).
– intenzionalità: gli accompagnamenti più impegnativi sono anche quelli che durano più di un
incontro del tipo “mordi e fuggi”, di solito hanno una certa durata nel tempo, pertanto, oltre la
casualità del primo incontro è interrogata la nostra intenzione di rimanere in contatto con
quella persona e a frequentarla così come si trova, lì dove si trova;
– reciprocità: non si tratta mai di una comunicazione monodirezionale, non esiste il dare o il
ricevere soltanto. Un accompagnamento implica una reciprocità di scambi e di aiuti:
l’ammalato è colui che chiede aiuto o che comunque è al centro dell’attenzione di più persone
che cercano di dargli sostegno, ma questo “dare attenzione” non può e non deve prescindere da
un ricevere attenzione e consenso affinchè il mio stare lì possa proseguire, magari secondo i
suoi desideri. Reciprocità significa che pur nella diversità dei ruoli ci renderemo conto di aver
dato, come accompagnatori, ma anche di aver ricevuto, dal nostro accompagnato, alcune cose
che, senza quello scambio, non avremmo mai e poi mai avuto modo di conoscere o di
accogliere.
– diversità di ruoli: l’esperienza mi ha insegnato che chi per definizione veste i panni della
persona da accompagnare può a volte trasformarsi nell’accompagnatore e viceversa.
Nell’accompagnamento infatti esiste una reciprocità che in certi casi è inevitabile per non dire
necessaria, ai fini di un fisiologico svolgimento del processo del morire. Eppure è importante
ricordare la diversità iniziale e finale dei ruoli: chi accompagna vive emozioni ed agisce la
relazione da una posizione qualitativamente diversa da chi si trova nel letto a combattere con
una malattia gravissima. Chi accompagna ha responsabilità che lo rendono diverso, nè
migliore nè peggiore, ma qualitativamente differente da chi affronta gli ultimi giorni.
Quest’ultimo, a sua volta ha impellenze di altro genere, sue proprie, vissuti e responsabilità di
cui nessuno può farsi carico e a cui nessuno può sostituirsi.
– gesti, pensieri, emozioni. Potrebbe sembrare una sottolineatura ridondante, visto che ogni
relazione ed ogni atteggiamento umano sono composte di queste stesse cose. Ma nel caso di un
legame che sta per finire, i gesti, i pensieri, le emozioni, assumono un senso particolare, spesso
di maggiore intensità, e può essere più difficile rapportarsi ad essi, esprimerli, tollerarli. Ogni
gesto dell’ammalato potrebbe essere recepito come un segnale, piuttosto che come un rifiuto, o
un voler dire qualcosa. I comportamenti del “care giver”, ovvero di colui o colei che se ne
prende cura, possono vivere momenti di grande incertezza, poichè si è alla ricerca del gesto
più appropriato, dell’atto giusto al momento giusto, che possa soddisfare l’altro e magari
placarne i tormenti. Le emozioni sono tante, spesso contrastanti, se non addirittura
contraddittorie, amplificate dalla gravità della situazione, magari confuse o sepolte da giudizi
che diamo a noi stessi o che provengono da chi intorno a noi crede di avere la bacchetta
magica o di sapere come le cose “andrebbero fatte”. L’accompagnamento è insomma un
evento che mette a dura prova tutta la persona, la coinvolge in ogni sua forma di
manifestazione, a causa di una crescente certezza che la fine si avvicina e che oltre non
sappiamo cosa vi sia, sia che siamo nei panni dell’ammalato, sia che vestiamo quelli di chi
accompagna. Sarà interessante approfondire questi aspetti nei racconti e nelle esplicazioni dei
prossimi capitoli.
– partecipare al grande passaggio: accompagnare una persona nell’ultima fase della sua vita è
anche questo. E’ partecipare ad un momento, ad un tratto di cammino importantissimo della
vita di un Altro, cioè di un membro della mia stessa specie, se non addirittura della mia stessa
comunità di appartenenza o della mia stessa famiglia. Il “Grande Passaggio” porta da questa
vita altrove, un Altrove con la “A” maiuscola, oggi quanto mai sconosciuto e lontano dai
desideri di conoscenza di molte persone. Un altrove che sempre più spesso non è meta nè
strumento di conoscenza, non è via di perfezionamento nè luogo del ristoro, ma un buio
dell’anima e della speranza, di cui spaventarsi e da cui stare ben lontani, cessazione di tutto
quello che riusciamo a vedere e per questo, ahimè, cessazione anche di ciò che possiamo
immaginare. L’accompagnamento può aiutarci a recuperare il senso dell’aldilà nel mentre che
ci occupiamo con solenne impegno dell’al di qua, se ci rendiamo conto e siamo disponibili ad
accettare che accompagnare alla morte non è spingere verso il baratro, ma è la
compartecipazione al cammino di qualcuno nel secondo momento di Grande Passaggio della
sua vita (il primo è stato la nascita). La morte delle persone è sacra, così come è sacro il
processo del morire che la precede, così come è sacro il passaggio che esso determina e che
prepara ad altro, un altro di cui non ho le competenze per parlare, ma del quale si sente
terribilmente la mancanza. Tale sacralità richiede rispetto, richiede onestà, richiede impegno
ma anche molta sobrietà.
– riconoscere la sacralità della vita: ci sono momenti nella vita di ogni essere umano che sono
sacri, sono troppo importanti per essere banalizzati o peggio ancora non presi in
considerazione. Ci sono momenti, come l’approssimarsi della morte, che richiedono rispetto
da parte di ogni essere umano che vi si avvicina, poichè lì si tocca il mistero, lì si tocca
l’essenza di tutto quello che è stato, di tutto il buono che si è fatto con quel corpo e con questo
mondo che abbiamo nutrito e che ci ha accolti. Ogni vita quando si manifesta merita di essere
celebrata, tanto quanto merita di esserlo quando essa cessa di manifestarsi in questo mondo e
nelle forme che conosciamo.
La relazione io – tu
Ogni individuo ha bisogno di altri individui. Per venire al mondo, innanzitutto, poi per crescere e
imparare il necessario per orientarsi fra gli altri esseri umani. Ogni essere umano ha bisogno di altri
individui con cui confrontarsi, con cui costantemente interfacciarsi, con cui scambiarsi di posto, di
idee, di emozioni, di affetti, per diventare un giorno adulto, responsabile delle proprie azioni,
consapevole dei propri valori, sentimenti, desideri, per continuare a evolversi e scoprire chi è.
Non c’è alcun “io” senza un “tu” in cui riflettersi, trovarsi, immergersi e differenziarsi. Non
possiamo essere figli senza dei genitori o senza qualcuno che ne vesta i panni. Non si scoprono le
innumerevoli sfaccettature dell’amicizia se non si è amici di un amico, se non si è oggetto e
soggetto di affetto e di ricerca, se prima o poi non si è immersi nel desiderio di condividere un
pezzo di me e della mia storia con qualcun altro che abbia un bisogno simile. Non sarò mai un
datore di lavoro senza dei dipendenti nè un dipendente senza datore di lavoro.
Nella relazione con l’altro scopro le possibilità del mio io, scopro com’è fatto, scopro che esso “si
fa” ogni volta che sta con l’altro in modo più o meno intenso e in modo più o meno consapevole. Io
mi realizzo come individuo e scopro, anzi, formo, curve del mio essere anche quando in riva al
mare osservo i gabbiani che volano, piuttosto che quando in autobus ascolto la musica in mezzo a
tanta gente accalcata, o quando faccio l’amore con la persona che amo.
Non siamo “cose” che una volta realizzate, definite, inquadrate in un certo modo, in un certo stile,
in certi abiti e certe idee, non cambiano più e tale rimaniamo fino alla fine dei nostri giorni.
Molti di noi prima o poi credono di poter rinunciare alla propria natura di esseri perennemente
cangianti per diventare oggetti perennemente stabili. Persone che si immaginano come dei totem
che resistono al tempo e all’usura, che rinunciano ai propri bisogni e non esprimono desideri se non
quello di rimanere così come sono e di essere accettati a tutti i costi come sono senza nemmeno
osservare lo sguardo della persona a cui stanno insistentemente chiedendo questo. Ogni individuo
ha, prima o poi, nella propria esistenza quotidiana, di questi momenti. Credersi soli e solidi, fingersi
isola e fare ogni cosa per isolarsi come fosse la natura intrinseca che ci anima, raggomitolarsi in un
bisogno di statuaria stabilità caratteriale e sociale, relazionale e affettiva, è un’esigenza che si
presenta e che a volte non può non essere soddisfatta. Soprattutto quando il mondo ci sta troppo
stretto, appiccicato addosso, o troppo largo, in grado di farci sentire a rischio di dispersione. Ma non
crediamoci troppo. Anche quando ci crediamo isola, anche quando facciamo di tutto, perchè ne
sentiamo un profondo bisogno, o perchè costretti, come un piccolo atollo solitario e immerso
nell’oceano più profondo, non dimentichiamoci che senza quell’oceano intorno io non sarei atollo e
che l’oceano ha bisogno di terre spezzate per creare isole disperse e lontane. Qualsiasi “cosa” siamo
o ci sentiamo di essere non possiamo correre il rischio di immaginarla come distaccata da qualsiasi
filo dell’esistenza. Siamo nel tempo, siamo nello spazio, sempre inevitabilmente parte di un mondo
e di un intreccio di relazioni, con le cose, fra le cose, con gli uomini e fra gli uomini, di cui siamo
attori e agiti, di cui siamo solo un momento di apparente prestabilita forma. E’ come se ogni essere
umano fosse una barca di ghiaccio che naviga nel mare. La materia è la medesima, è solo
diversamente e temporaneamente condensata, è solo visibile ad occhio nudo più delle correnti che
nel mare, a diversi metri di profondità, scorrono, eppure la materia che ci compone è la medesima.
Vivere è trasformazione, vivere è perenne cambiamento, vivere è relazione. Senza una relazione
non saremmo nati e senza una relazione non possiamo morire.
Siamo il risultati di milioni e milioni di anni di relazioni intercorrenti fra chissà quanti atomi, chissà
quanti pianeti, e chissà quanti animali e poi quanti individui. E siamo quello che siamo grazie alla
relazione fra noi e il mondo che c’è stata fin qui, anzi, che c’è ancora e che sta essendo mentre
leggete.
In realtà ognuno di noi è solo un punto di congiunzione fra una fittissima rete di relazioni, come
fossero fili di una trama, che contengono e realizzano il mondo. Tali relazioni non sono fisse, si
muovono, l’una muove l’altra, ogni istante, e via via che tale movimento avanza noi avanziamo, ci
modifichiamo, diventiamo persone sempre uguali, ma in realtà sempre diverse.
Che c’entra l’accompagnamento in tutto questo?
C’entra e come: per identificarci, cioè per realizzare ed esprimere la nostra identità, per essere
persone necessitiamo di relazioni con altri esseri umani. Se è vero che chi ci gira intorno ci aiuta a
capire chi siamo e, soprattutto, come siamo, così la stessa cosa vale nei momenti della nostra vita in
cui soffriamo o, peggio ancora, nei momenti in cui la nostra sopravvivenza è seriamene messa in
discussione. L’altro diventa per me un tramite di fondamentale importanza. Lo diventa in maniera
molto più ampia e profonda di quello che non lasci immaginare il semplice accudire rispondendo a
bisogni più o meno elementari o complessi dell’ammalato.
Le relazione: luogo del nascere e del morire
Chi cerca di aiutare un ammalato in fin di vita è più probabile che si senta utile quando c’è un
bisogno espresso che appare chiaro e risolvibile attraverso una propria azione. L’ammalato chiede,
io rispondo, lui sembra chiaramente soddisfatto, e il circolo si chiude. Questa dimensione, che
approfondiremo meglio nel corso del libro, ha una sua validità, è importante e ben venga che questo
tipo di circolarità possa manifestarsi e concludersi ogni volta positivamente.
La mia proposta però è che la mia presenza accanto all’ammalato è importante sia che egli faccia
una richiesta esplicita ed esaudibile, sia che ne faccia una a cui non sappiamo dare una risposta.
Il mio stargli vicino e la disponibilità ad accogliere, ascoltare la richiesta esplicita piuttosto che il
silenzio più totale è un “fare” di grande importanza e utilità per la persona ammalata, proprio perchè
in quel mio stare di fronte a lui, con coraggio e paura, con senso di impotenza e disperazione, è uno
stare che da la possibilità alla persona ammalata di proseguire quel che, da persona non ammalata
aveva sempre fatto: stare in mezzo a relazioni per sè significative che permettano di riflettere la
propria immagine o di trasfomarla, di realizzarne una nuova o semplicemente di masticare un poco
quel che gli capita contro la sua volontà e le sue speranze.
La cosa più brutta e degradante che possa accadere in un percorso di malattia grave, oltre alla
malattia in sè e per sè, è infatti quel processo, talvolta molto rapido e irreversibile, di interruzione
sempre più netta della possibilità che l’ammalato ha di potersi esprimere come persona e di potersi
ri-definire con le piaghe e le trasformazioni che la malattia ha provocato. Il percorso di malattia
può diventare, nei casi peggiori, ma non infrequenti, una parziale o totale interruzione del processo
di auto-realizzazione del mio Io: scompaiono i luoghi relazionali all’interno del quale il mio io non
dispone più di un vero tu con il quale poter completare la mia esistenza, per quanto essa rinnovata,
diversa, difficile da accettare. E se scompare un tu di fronte a me è come se scomparissi anche io, o,
per essere più precisi, scompare buona parte della mia possibilità di trasformarmi di giorno in
giorno in un Io diverso, adattato e auto-sostenuto in una situazione di continuo cambiamento e di
grande difficoltà. Senza un Tu non ho relazione e senza relazione non ho il camerino in cui
provarmi abiti nuovi e adatti al nuovo giorno che si prospetta ancora diversamente difficile.
L’assenza di un tu è qualcosa di profondamente drammatico per chi lo vive: l’assenza di relazioni
significative e in qualche modo empatiche è la morte esistenziale prima della morte fisica.
Accompagnare significa pertanto dare un “tu” a quell’ io che si trova in difficoltà, non solo perchè
ammalato, ma perchè da ammalato vive una fisiologica difficoltà a costruire relazioni e scegliere
luoghi all’interno dei quali poter realizzare ed esprimere sè stesso.
Accompagnare è vestire i panni del “tu” che l’altro può attraversare, scegliere o rifiutare, gradire o
non gradire, ma è stare lì a fare contemporaneamente da confine e da contenitore ad una persona
che, altrimenti, senza il velo offerto dalla nostra presenza, non potrà mai disvelarsi giornalmente
come un individuo diverso ma vivo, sfigurato ma dignitoso.
Questo aspetto è forse il più importante in qualsiasi opera di accompagnamento si cerchi di
realizzare. E’ un aspetto che va oltre il semplice rispondere a bisogni concreti e che va oltre l’aiuto
che uno psicologo o una guida spirituale possono dare per risolvere o chiudere certe parentesi della
propria vita. La dimensione io-tu va oltre, anzi, viene prima, di qualsiasi cosa facciamo, diciamo,
progettiamo con una persona ammalata. Quando si dice “è importante non morire da soli, non
lasciare solo chi vive le ultime fasi della propria vita” non si deve intendere come un obbligo a stare
accanto giorno e notte o come un invito a stare sempre in tanti e oltre ogni proprio limite
all’ammalato. La solitudine di cui parlo io, e che a me interessa sconfiggere, è quella della persona,
intesa nella sua accezione di soggetto dotato di un insieme complesso di qualità e modalità
espressive, di atteggiamenti, di pensieri e di desideri, di bisogni e di speranze, di una storia.
La storia di ognuno procede comunque fino alla propria morte, e per certi versi anche
successivamente, ma la possibilità di essere persona a volte termina quando quest’ultima viene
inscatolata e racchiusa nel termine “paziente” e conseguentemente chi sta intorno inizia a fare i
conti con fantasmi, paure e difese che altrimenti non incontrerebbe.
Anche se rimango solo per tanto tempo “io” continuerò ad essere un intrecciato nucleo di storie in
continua evoluzione. Ma di fronte alla fine della vita, di fronte all’atrocità di una grave malattia,
soprattutto quando questa è molto trasfigurante o tende a interrompere precocemente la vita di un
individuo, si profila un’esigenza dell’ammalato che diventa un dovere sociale per chi le sta accanto:
avere occhi, orecchie, carezze e parole intorno nelle quali potersi manifestare come persona nella
malattia, nonostante la malattia, con la malattia. C’è bisogno degli occhi di qualcun altro per poter
dar il coraggio ai propri di guardarsi ancora. C’è bisogno di due orecchie in più per ascoltare le
fesserie che forse dirò, c’è bisogno di due mani forti per sostenere quel modo d’essere che non
posso fare a meno di esprimere, ora, qui, in queste terribili condizioni. Fosse anche, questo mio
modo di essere, il semplice silenzio. C’è bisogno di una parola detta da te, replicata da me, e
trasformata ancora da te, perchè il mio linguaggio esitante possa trovare nuove forme che si adattino
ad una condizione che non conosco, mi spaventa, mi trasforma e mi avvicina ad un traguardo che
non conosco.
Ecco dove nasce l’esigenza imprescindibile e ineluttabile di accompagnamento di ogni essere
umano: poichè siamo figli delle relazioni, oltre che delle stelle, poichè siamo relazioni
concretamente visibili che hanno una forma e muovono passi, necessitiamo di relazioni dense e
attente, includenti e non asfissianti in cui poter morire, in cui poterci lasciare andare all’ultima
espressione di sè, di me con te.
Senza una relazione in cui poter morire si muore comunque, mi pare ovvio, ma non è altrettanto
ovvia la natura della morte che si realizza: una morte in solitudine è una morte che da meno
possibilità di chiudere la propria esperienza su questa terra in modo dignitoso, è un’esperienza che
può rendere molto più difficile esprimere pienamente sè stessi nel momento del grande passaggio.
Liberamente tratto da: Sto con te. Accompagnare sé stessi e gli altri alla fine della vita
di Michele Galgani (ed. L’Età dell’Acquario, Torino, 2010)