Gesualdo Bufalino, Diceria dell’untore
di Giuseppe Costanzo
Non è facile parlare di malattia, morte e lutto. Diventa più difficile se lo si fa approfondendo tali tematiche nel capolavoro di Gesualdo Bufalino, Diceria dell’untore.
Bufalino è un autore difficile. Il suo linguaggio è quello della Sicilia barocca, dove, tra una chiesa maestosa e lucente e un vicolo malfamato e oscuro, si incrociano continuamente vita e morte, dando origine a manifestazioni collettive di inalterata attrattiva e complessità.
Il barocco siciliano è bellezza eccessiva che racconta del tentativo ultimo dell’uomo che aspira alla perfezione, del limite non accettato, della storia che, inevitabilmente, si fa sconfitta. In Bufalino, nel solco della tradizione siciliana che va da Verga a Tomasi di Lampedusa, prosegue la contemplazione della morte. Usiamo le parole dello scrittore comisano per descrivere questo dissidio: “ogni siciliano è, di fatti, una irripetibile ambiguità psicologica e morale. Così come l’isola tutta è una mischia di lutto e di luce. Dove è più nero il lutto, ivi è più flagrante la luce, e fa sembrare incredibile, inaccettabile la morte. Altrove la morte può forse giustificarsi come l’esito naturale d’ogni processo biologico; qui appare come uno scandalo, un’invidia degli dei”.
Tenendo a mente questa considerazione è possibile procedere nella descrizione del romanzo e delle parti che più esplicitamente trattano il tema di nostro interesse. Si narra la storia, ambientata nell’estate del 1946, di un giovane reduce dalla Seconda Guerra mondiale, ammalato di tubercolosi, confinato nella Rocca, un sanatorio posto nella Conca d’Oro. Molti sono i personaggi che animano il lazzaretto, figure tragiche che attendono la fine. Il Gran Mago, così è sopranominato il medico della Rocca, simile a un demiurgo, governa con sadica voluttà le vite finite dei suoi pazienti.
Ogni personaggio rappresenta un modo di concepire la vita e l’attesa della morte.
Angelo, considera la memoria lo strumento per rimanere in vita nell’altro, Padre Vittorio impiega gli ultimi momenti della sua esistenza in un serrato colloquio con un Dio che ama e che fatica a riconoscere, Marta soffre l’approssimarsi della morte e prova a seguitare a vivere attraverso la sensualità, ancora non assopita del suo corpo, il Gran Mago osserva cinicamente le piccolezze peculiari all’uomo e cede alla morte sogghignando, il protagonista, infine, aspetta il suo turno con lucida consapevolezza e quando guarirà, avvertirà un disagio interiore, cagionato dalla sensazione di tradimento del patto tra morenti stabilito con i compagni della Rocca. Molteplici visioni della vita e della morte che si scontrano, duellano e cedono di fronte all’inesorabilità dei loro destini.
Il sopravvissuto è colui che educato alla morte (“’l’in pace, le quattro mura di ventre dove nessuno mi cerca”), esce dalla giovinezza e va incontro alla vita. È colui che ricorda, perché la memoria è l’antidoto che salva tutti. Lo sa bene Angelo, compagno di sventura del protagonista, che prova a vivere nelle lettere immaginarie scritte per la madre.
“Angelo diceva che la morte è un paravento di fumo tra i vivi e gli altri. Basta affondarci la mano per passare dall’altra parte e trovare le solidali dita di chi ci ama. Purché si lascino péste, uste, minuzie che conservano il nostro odore. Fu forse questo pensiero che lo spinse ad affidare a una suora una filza di lettere con date fittizie, da spedire una alla volta due volte l’anno. In esse narrava il romanzo futuro di sé, vantava paternità, impieghi, successi; annunziava indisposizioni da nulla che nella puntata dopo erano già guarite e remote. Sua madre – ci spiegava – sarebbe vissuta più a lungo, aspettando a ogni scadenza il posticcio messaggio in cui si prolungava indefinitamente l’eco della cara voce scomparsa. Sarebbe stato per lei come avere un figlio oltremare, a San Paolo, a Little Italy. Lei morì subito dopo di lui, tuttavia, e suor Tarcisa, se non l’ha saputo, continua certo ancora oggi a impostare queste inferie da un morto a una morta, che nessun postino potrà mai restituire al mittente”.
Alla morte, nella Rocca, si giunge attraverso il calvario della malattia. Questa, però, assurge a strumento che nobilita, quasi un sostitutivo degno di rispetto alla vita comune, mediocre. Per il protagonista, “la malattia conferisce ai volti un presentimento, una luce che manca sulle guance dei sani, un malato non è meno bello di un santo”.
E quando la morte arriva, si compie lo scandalo supremo, lo strappo che tradisce il sentimento di divinità insito nell’uomo. Nella Sicilia colorata (così come nelle mediterranee Spagna e Grecia), la morte è racchiusa nello strano binomio luce-lutto. A differenza dei paesaggi nebbiosi, dove il morire appare quasi un perdersi nel crepuscolo, nei paesaggi luminosi, dove la luce trionfa, la morte è più sentita, più dolorosa, più intensa.
Così, quasi a voler rimarcare tale differenza, la morte di Marta, donna amata del nord, si consuma a causa di una violenta emorragia, nel silenzio, interrotto solo da una tosse selvaggia, mentre quello del Gran Mago, assume i contorni di una commedia, di una sfida da teatro dei pupi. Nell’agonia, infatti, consegna al protagonista un plico per la bellissima moglie che anni addietro lo aveva abbandonato, contenente bestemmie ed insulti e con un ultimo sospiro cita la Chanson de Roland “«Già sente Orlando che la vista ha perduto» e provò con labbra incapaci un sorriso, che si interruppe a metà, (…), e il supremo gong della morte gli risonava nel petto. Rimase così con una sorta di ghigno, non perverso ma lieto, dipinto sul viso, un ghignetto che gli conoscevo, così vivido che mi ci volle tempo per capire che era finita, e che ogni minuto, a partire da quello, sarebbe stato uguale per lui: una catena uguale di neri minuti, un fiume senza sponde di identici, eterni, inaccaduti minuti”.
Cadono tutti prima o dopo, eccetto il nostro eroe che non può far altro che conservare le stimmate interiori della sua malattia e continuare il suo incedere nei giorni. Non una sofferenza inutile, sia perché ogni dolore chiarisce la propria percezione della realtà, sia perché come ripeteva Bufalino: “il dolore dei poeti non è mai inutile”.
“Un dramma non era, me ne convinsi. Anche se non potevo esimermi di titubare di fronte all’impegno nuovo che mi attendeva e mi imponeva di recidere il mio comodo cordone ombelicale col sublime: non sarebbe stato facile, d’ora innanzi, trasgredire i precetti di questo recente apprendistato di morte e al posto di una parte di prim’attore, già scritta, improvvisare le battute di una comparsa. (…) Così sulle soglie dell’improrogabile epilogo, il mio spirito dubitava, in altalena fra delusione e speranza, senza che mai cessasse di considerare, nel medesimo tempo, la guarigione una caduta e la morte uno scandalo”.
La malattia e la morte in Diceria dell’Untore, sono raffigurate come elementi caratteristici della condizione umana. La malattia sembra quasi essere testimonianza visibile di una differenza interiore. Non stigma ma stemma, come ebbe a dire Bufalino in un convegno universitario. La morte, pur concepita come scandalo che interrompe il cammino, Mistero che affascina ma che insospettisce per via della sua impenetrabile oscurità, offre all’uomo la possibilità di un confronto che lo coinvolge in tutta la sua complessità. È un confronto che non ammette riduzioni, totalitario e dispotico. Eppure, non ammette scorrettezze, è onesto fino all’eccesso e pur mantenendo il riserbo finché l’ultimo respiro non è stato emesso, offre garanzia di risposta. Con l’ironia dell’intellettuale, Bufalino riconosce, in un aforisma del Malpensante, l’inadeguatezza di ogni opinione umana sull’argomento e l’incapacità di prendere una posizione definitiva in vita: “È un bluff? Non è un bluff? Fra poco muoio e lo vedo”.
Malattia e morte, in fondo, non sono altro che strumenti necessari per raggiungere l’obiettivo vero, perché, come amava ripetere Miguel de Unamuno: “il fine della vita è di farsi un’anima”.
L’autore
Giuseppe Costanzo, nato a Catania il 6 maggio 1986, laureato presso la Luiss in Scienze Politiche, ha lavorato come ricercatore presso il Centro Studi e Formazione della Fondazione Vidas e opera attualmente presso la Cooperativa Sociale Pinocchio Onlus in qualità di responsabile della formazione continua in medicina (ECM), della comunicazione e dello sviluppo.
Ha pubblicato su temi inerenti gli aspetti umanistici delle cure palliative, le medical humanities e l’etica sociale, con particolare attenzione agli aspetti filosofici, culturali e sociali della fine vita.
Ha concentrato i suoi studi sulla ricerca di senso nella fine della vita e sulla responsabilità nei confronti dell’altro, approfondendo rispettivamente il pensiero di Vicktor Frankl e Emmanuel Lévinas.
È in pubblicazione il volume “Tracce per una narrativa delle cure palliative. Incontrare la letteratura per affrontare la malattia, il dolore, il lutto e la morte”.
E’ autore di una silloge di poesie (La tentazione dell’altro, Ladolfi Editore) e ha preso parte a convegni e seminari in qualità di relatore.