Raymond Carver, Chi ha usato questo letto

di Giuseppe Costanzo

Interno notte. In un letto matrimoniale un uomo e una donna condividono l’intimità del sonno. Improvvisamente squilla il telefono. L’uomo si alza, impaurito dallo strillo delle telefonate notturne, spesso premessa di notizie infauste. Dall’altra parte dell’apparecchio una donna, probabilmente ubriaca, chiede di parlare con un uomo. Ha sbagliato numero, ma cocciutamente chiede di potergli parlare. L’uomo interrompe la conversazione e, alla terza chiamata, decide di staccare la spina.
Torna a letto dalla sua compagna, ma ormai il sonno è svanito. Tra una sigaretta, il desiderio di un caffè e il racconto di un sogno, si snoda una conversazione estemporanea ed onesta tra i due amanti. Le paure che il sole allontana, riemergono prepotenti nella notte e i due nottambuli provano, per la prima volta, a parlare della malattia e della morte. Vanno oltre, decidendo di affidare all’altro il compito di rendere effettiva la scelta di resistenza o interruzione in presenza di malattie che causano lo stato vegetativo dell’essere umano.
Iris racconta a Bud di una vena che le pulsa sulla fronte. Teme sia l’approssimarsi di un colpo, che in passato è stato letale per la nonna e la madre. Lui soffre di palpitazioni al cuore e delle volte teme che voglia saltare fuori, tanta è la violenza con cui batte.
Solo l’intrusione di una donna ubriaca ed abbandonata, permette a due compagni, due esseri umani che si amano e che hanno nel limite e nella temporaneità i loro tratti distintivi, di affrontare questioni che, pur sommerse da false rassicurazioni annebbianti, non scompaiono dall’orizzonte dell’uomo.

Iris racconta di casi di persone “obbligate” a vivere in condizioni a suo parere inumane. Bud, invece, ribatte raccontando di un’infermiera arrestata perché colpevole di aver staccato la spina a decine di pazienti, un gesto a suo parere ingiusto e omicida. Iniziano a prendere posizione, raccontando le storie degli altri e ammettendo i propri acciacchi, segni di quel limite che si fa fatica a riconoscere.
La premessa di un dolore che può diventare malattia, provoca il riemergere di ricordi, di persone care annullate e annichilite da un male inesorabile. A parlare è Iris.
“«Mio nonno dovette andare in un ospizio. La mamma andò a fargli visita e quando tornò disse una cosa. Non me lo scorderò mai quello che disse». Iris mi guarda come se neanche io me lo scorderò mai. E ha ragione. «Disse: “mio padre non mi riconosce più. Non sa più neanche chi sono io. Mio padre è diventato un vegetale”. Queste sono le parole esatte che disse mia madre». (…) «Non voglio che accada una cosa del genere anche a me», «né a te». Si asciuga il viso con un angolo della coperta e tira un respiro profondo, che però viene fuori come un singhiozzo.”

Il ricordo di un parente amato e della sua sofferenza (consapevole o meno) è spesso utilizzata come esperienza negativa di ciò che non vogliamo. Il ricordo dell’amato produce una ferita che ci induce a crederci traduttori del dolore altrui e a trasportare un’esperienza non direttamente vissuta in azione subita. Da spettatori a protagonisti. Non è, però, il nostro dolore, la nostra malattia. È quella di un altro e può essere fuorviante programmare il nostro futuro, sull’interpretazione, di certo approssimativa, di una condizione a noi sconosciuta.
Iris chiede a Bud di staccarle la spina, qualora dovesse trovarsi in una situazione drammatica: “Non rispondo subito. Che posso dirle? Non hanno ancora scritto un libro su questa cosa. Ho bisogno di rifletterci un attimo. So bene che non mi costa niente dirle che farò qualsiasi cosa lei voglia. Sono solo parole, dopotutto, no? Che ci vuole a dirle? Ma è un pochino più complicato di così; lei da me si aspetta una risposta sincera. Non voglio dirle niente di avventato. Non posso mica dirle una cosa senza pensare a quello che dico, alle conseguenze, a quello che proverà lei quando le dirò… qualsiasi cosa le dirò”.

Non è una scelta individuale, per quanto la malattia, la sofferenza e la morte, non contemplino che una solitudine spesso sconfortante. È un si o un no che pesa una vita. È lo scontro tra un insieme di valori endogeni all’individuo, che esulano dalle credenze religiose, dalle consuetudine sociali, perché invadono totalmente l’esistenza e i suoi significati, aggredendo la coscienza che si depura dagli stereotipi e diventa, come scrive Cioran, “pugnale nella carne”.
La meditazione di Bud è interrotta dalla domanda fatale: cosa vuoi che io faccia per te, in un caso simile?
Bud non riesce a rispondere, teme la leggerezza. L’argomento è troppo delicato per poterlo trattare con frivolezza. Poi si decide: “no, non staccarmi la spina. Non voglio che mi si stacchi la spina. Lasciami attaccato finché è possibile. Chi si opporrebbe? Tu ti opporresti? Darò forse fastidio a qualcuno? Finché la gente potrà sopportare di vedermi, finché proprio non si mettono ad urlare appena mi vedono, non staccare un bel niente. Fammi andare avanti, va bene? Fino in fondo. Magari invita i miei amici a venire a dirmi addio, ma non fare niente di avventato”.

È ormai mattino. Iris e Bud si alzano, si lavano, fanno colazione e si preparano per uscire. Qualche commento sul tempo e un bacio prima di andare via. Nessuno dei due parla dell’argomento, eppure entrambi continuano silenziosamente la loro riflessione. Non è un appesantimento, non sono due paranoici o due annoiati che provano a riempire il tempo. Sono un uomo e una donna che tentano di comprendere il loro destino di esseri umani senza omettere nulla. È una coppia che prova a vivere la promessa di vivere la buona e la cattiva sorte con consapevolezza.
Bud si reca in ufficio. È stanco, una notte in bianco si paga sempre. Non riesce a cancellare dalla sua mente l’immagine di un letto d’ospedale, di una scelta che non può essere rimandata. Solo una risposta definitiva può placare il sentimento di disagio che lo agita.
Torna a casa e con le ultime forze dichiara la sua decisione: “e va bene, se è questo che vuoi ti staccherò la spina. Se è questo che vuoi che faccia, lo farò. Se è una cosa che qui, in questo momento, ti fa piacere sentirti dire, te la dico: se mai sarò convinto che sarà necessario, te la staccherò la spina, o te la farò staccare. Ma per quanto riguarda la mia di spina, quello che ho detto stamattina è ancora valido. E ora non voglio più pensare a questa faccenda. Non ne voglio più neanche parlare”.
Eppure la stanchezza causata dall’inquietudine della malattia e della morte non sono inutili. “Quello che le ho appena detto, quello sui cui ho riflettuto in varie riprese durante tutta la giornata, bè, sento che è come se avessi attraversato una specie di confine invisibile. Sento che è come se fossi arrivato in un posto in cui non avrei mai pensato di dover andare. E neanche so come ho fatto per arrivarci. È un posto strano. Un posto dove un sogno innocente e poi un po’ di assonnata conversazione mattutina mi hanno portato a pensare alla morte e all’annullamento totale”.

Una telefonata, il sonno interrotto, una coppia che inizia a parlare. Un semplice fraintendimento telefonico favorisce l’incontro più profondo, quello che si realizza nell’affidarsi all’altro, nel consegnare alla persona amata il volere più estremo e delicato.
Il breve racconto di Carver proposto (Chi ha usato questo letto), narra delle nostre paure e della necessità di accettare la fine nostra e delle persone amate.
Ne Il Suicidio, Gaber afferma che “siamo così futili, che le distrazioni ci possono impedire di ammazzarci”. Si potrebbe rovesciare il senso della frase e ammettere che siamo futili al punto di necessitare di una distrazione per ricordarci che dobbiamo morire.

Giuseppe Costanzo

L’autore

Giuseppe Costanzo, nato a Catania il 6 maggio 1986, laureato presso la Luiss in Scienze Politiche, ha lavorato come ricercatore presso il Centro Studi e Formazione della Fondazione Vidas e opera attualmente presso la Cooperativa Sociale Pinocchio Onlus in qualità di responsabile della formazione continua in medicina (ECM), della comunicazione e dello sviluppo.
Ha pubblicato su temi inerenti gli aspetti umanistici delle cure palliative, le medical humanities e l’etica sociale, con particolare attenzione agli aspetti filosofici, culturali e sociali della fine vita.
Ha concentrato i suoi studi sulla ricerca di senso nella fine della vita e sulla responsabilità nei confronti dell’altro, approfondendo rispettivamente il pensiero di Vicktor Frankl e Emmanuel Lévinas.
È in pubblicazione il volume “Tracce per una narrativa delle cure palliative. Incontrare la letteratura per affrontare la malattia, il dolore, il lutto e la morte”.
E’ autore di una silloge di poesie (La tentazione dell’altro, Ladolfi Editore) e ha preso parte a convegni e seminari in qualità di relatore.

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