RECENSIONE

Una solitudine troppo rumorosa, di Hrabal Bohumil, Einaudi, Torino, 1981

“Da trentacinque anni lavoro alla carta vecchia ed è la mia love story”. È questo l’incipit di Una solitudine troppo rumorosa, libro dello scrittore ceco Bohumil Hrabal, pubblicato nel 1987, opera che inizia con una frase apparentemente priva di senso ma il cui profondo significato si coglie solo nelle ultime pagine, un’espressione superficialmente ironica ma in realtà profondamente dolorosa, capace per questa sua ambiguità di spiazzare il lettore introducendolo gradualmente in una sorta di viaggio onirico in cui l’autore trascrive il proprio vedere immaginario. Ne deriva che Una solitudine troppo rumorosa sfugga a ogni logica classificatoria sia contenutistica che formale: è romanzo e nello stesso tempo è un libro di poesia in prosa, è racconto autobiografico ed è nel contempo un flusso continuo di riflessioni letterarie e filosofiche. È un testo che ripercorre una vicenda sorprendente, mai prevedibile, che è un inno all’arte, alla bellezza, alla poesia e che insieme è esattamente il contrario: una storia cupa, dominata dalle immagini di marcio, di oscurità, di sangue. Quello di Bohumil Hrabal è dunque un capolavoro letterario la cui grandezza è in questo essere tutto e il contrario di tutto, in questo essere una storia unica e nello contempo un insieme di quadri, ognuno dotato di proprio autonomo significato. Non è dunque un’operazione avventata il voler commentare Una solitudine troppo rumorosa partendo da uno qualsiasi dei suddetti quadri; né tanto meno è azzardato, benché possa sembrare improbabile, pensare di interpretare il libro scegliendo una breve sezione centrale che tratta di cremazione.

Quello dello scrittore ceco è un testo sugli opposti: sulla vita e sulla morte, sulla solitudine e sulle troppe presenze e i troppi pensieri che la abitano, sul dolore nemico che rimane sul fondo della cenere e sulle ceneri disperse che alleviano il dolore. “Quando la mamma mi morì, piansi in qualche modo dentro ma non versai neppure una lacrima” dichiara Hanta uscendo dal crematorio, mentre osserva il fumo del camino e riflette sul fatto che in quel fumo che sale verso il cielo vi sia la madre: “come una stella in fiamme, la luce della vita proviene dal fuoco”. Con tono poetico, lieve, quasi astraendosi dalla realtà e rifugiandosi nel silenzio della sua solitudine, Hanta ripercorre i passaggi fondamentali del rito crematorio: il cerimoniere che ripone gli ultimi resti della madre in un scatola di metallo, la consegna delle ceneri dopo un mese, la condivisione del dolore sordo dei dolenti, la decisione di disperdere le ceneri sul campo di rape che la madre tanto amava, il cibarsi delle rape, il momento dell’accettazione della morte. E poi il ricordo, narrato in poche righe che meriterebbero di essere un romanzo a parte per la loro potenza evocativa, il ricordo dunque del suono delle ossa tritate della madre, un rumore famigliare, quello che Hanta quotidianamente sente sul luogo di lavoro.

Da trentacinque anni, infatti, il protagonista lavora in un magazzino seminterrato di Praga come addetto a una pressa meccanica che macera libri per ottenere carta compatta da bruciare, in un incessante simbolico susseguirsi di atto creativo e distruttivo, di vita e di morte. È intorno alla pressa infatti che si sviluppano gli episodi più significativi dell’intero libro: il suicidio evocato da Hanta come unica soluzione dinanzi all’avanzare del progresso e della tecnologia che sostituisce la sua pressa macera-libri con una idraulica che lo costringerà a occuparsi solo di carta bianca per lui priva di immagini, di parole, di vita, un dramma che lo porta ad avvinghiarsi disperatamente al suo strumento meccanico desiderando di farsi tritare con i suoi stessi libri; la decisione drammaticamente romantica del protagonista di infilare nascostamente un capolavoro della letteratura mondiale nel cuore di ogni blocco di carta compatta, atto estremo di potenza artistica e emotiva in una vita aberrante. La scena della cremazione della madre, il suicidio onirico, la pressa che rende bella la morte creando forme sempre nuove: sono i luoghi simbolici in cui vita, morte, rinascita appaiono indissolubilmente uniti.

In questi spazi ogni cosa torna al proprio primigenio principio per rinascere dopo aver compiuto il proprio percorso e per compierlo poi nuovamente: Hanta torna alla sua pressa con il desiderio di entrarvi, le ceneri della madre tornano alla terra, i libri all’interno dei blocchi di carta. Un sentimento di sereno ritorno pervade lo scritto di Bohumil Hrabal, un ritorno in cui è contenuto il senso della vita e il mistero della morte. “Sono stanco da morire, ma felice. E amen”: sono le parole finali di Una solitudine troppo rumorosa.

L’autrice

Simona Pedicini, laureata presso l’Università degli Studi di Roma «La Sapienza» in Letteratura cristiana antica greca e latina si è successiva­mente diplomata presso la Scuola Vaticana di Biblioteconomia. Si è occupata di riordino e di inventariazione dei fondi antichi di archivi ecclesiastici del territorio laziale e di conservazione e valorizzazione del libro di pregio e raro in biblioteche di università pontificie. Esperta in scienza bibliologica e bibliografica del XVI-XVII secolo, attualmente svolge attività di gestione dell’editoria cartacea e digitale. Già specializzata tanatoesteta e cerimoniere funebre è diplomata in Studi sulla Sacra Sindone presso l’ Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, e ricercatrice in Storia della mistica femminile di epoca barocca e Storia della tanatologia, con particolare riguardo alla storia della dissezione su corpo sacro e al rapporto tra Chiesa, storia della medicina e fine vita in epoca Controriformistica.

 

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Recensione Hrabal Bohumil