Nâzim Hikmet – Della morte

 di Massimiliano Bardotti

Si dice che i poeti abbiano vita difficile nel mondo, quasi non fossero del mondo. E forse davvero non lo sono. E magari è per questo che sembrano avere sguardo capace di vedere ciò che non si vede, e sensi per sentire la vita d’altrove. Nâzim Hikmet è certamente un poeta che ha visto, sentito. Ha avuto una vita difficile, naturalmente: passò più di dieci anni in prigione ed altrettanti in esilio per via delle sue idee comuniste e le sue critiche al nazionalismo del suo paese, venendo tra l’altro scarcerato grazie alle pressioni internazionali esercitate da un gruppo di intellettuali tra i quali figuravano anche Pablo Neruda, Tristan Tzara, Pablo Picasso e Jean-Paul Sartre.

Della morte, così come la celebre Alla vita, fu composta proprio in carcere, dove Hikmet ebbe il primo grave infarto.

La prima volta che ho letto questi versi, mi è sembrato di essere lì, con lui, stupito davanti alla visione dei suoi morti che lo vanno a trovare, lui che dice di non credere né in Dio né nell’aldilà, sopraffatto da un bene più grande che non conosce ostacoli, né tempo…

 

Della morte, Nâzim Hikmet

 

Entrate, amici miei, accomodatevi
siate i benvenuti
mi date molta gioia.
Lo so, siete entrati per la finestra della mia cella
mentre dormivo.
Non avete rovesciato la brocca
né la scatola rossa delle medicine.
I visi nella luce delle stelle
state mano in mano al mio capezzale.

Com’è strano
vi credevo morti
e siccome non credo né in Dio né all’aldilà
mi rammaricavo di non aver potuto
offrirvi ancora un pizzico di tabacco.

Com’è strano
vi credevo morti
e voi siete venuti per la finestra della mia cella
entrate, amici miei, sedetevi
siate i benvenuti
mi date molta gioia.

Hascìm, figlio di Osmàn,
perché mi guardi a quel modo?
Hascìm figlio di Osmàn
è strano
non eri morto, fratello,
a Istanbul, nel porto
caricando il carbone su una nave straniera?

Eri caduto col secchio in fondo alla stiva
la gru ti ha tirato su
e prima di andare a riposare
definitivamente
il tuo sangue rosso aveva lavato
la tua testa nera.
Chi sa quanto avevi sofferto.

Non restate in piedi, sedetevi.
Vi credevo morti.
Siete entrati per la finestra della mia cella
i visi nella luce delle stelle
siate i benvenuti
mi date molta gioia.

Yakùp, del villaggio di Kayalar
salve, caro compagno,
non eri morto anche tu?
Non eri andato nel cimitero senz’alberi
lasciando ai tuoi bambini la malaria e la fame?
Faceva terribilmente caldo, quel giorno
e allora, non eri morto?

E tu, Ahmet Gemìl, lo scrittore?
Ho visto coi miei occhi
la tua bara scendere nella fossa.
Credo anche di ricordarmi
che la tua bara fosse un po’ corta per la tua statura.
Lascia stare, Gemìl
vedo che ce l’hai sempre, la vecchia abitudine
ma è una bottiglia di medicina, non di rakì.
Ne bevevi tanto
per poter guadagnare cinquanta piastre al giorno
e dimenticare il mondo nella tua solitudine.

Vi credevo morti, amici miei
state al mio capezzale la mano in mano
sedete, amici miei, accomodatevi.
Benvenuti, mi date molta gioia.
La morte è giusta, dice un poeta persiano,
ha la stessa maestà colpendo il povero e lo scià.
Hascìm, perché ti stupisci?
Non hai mai sentito parlare di uno scià
morto in una stiva con un secchio di carbone?
La morte è giusta, dice un poeta persiano.
Yakùp
mi piaci quando ridi, caro compagno
non ti ho mai visto ridere così
quando eri vivo …

Ma lasciatemi finire
la morte è giusta dice un poeta persiano …
Lascia quella bottiglia, Ahmer Gemìl,
non t’arrabbiare, so quel che vuol dire
affinché la morte sia giusta
bisogna che la vita sia giusta.
Il poeta persiano …

Amici miei, perché mi lasciate solo?
Dove andate?

L’autore

Massimiliano Bardotti, poeta, ideatore e conduttore del corso di scrittura: La Poesia è di Tutti. Autore del libro “Il Dio che ho incontrato” (Ed. Nerbini). Cofondatore del progetto P.O.A. (Progetto Ospitalità Artisti): progettoospitalitaartisti.wordpress.com