Assistenza durante la malattia

Chi opera nel settore sanitario dovrebbe impegnare le proprie risorse per umanizzare il rapporto con il malato e con i suoi famigliari per capire le sue idee, le sue esigenze e rispettare le sue credenze. Occorre sensibilità, capacità di ascolto e rispetto della dignità della persona.

L’assistenza spirituale durante la degenza è affidata prevalentemente ai famigliari. La presenza dei ministri di culto è richiesta raramente e, in particolare, per l’esecuzione di rituali specifici, nelle fasi che precedono il passaggio della morte e per i rituali post-mortem.

Generalmente, quando è possibile, si preferiscono cure con medicine naturali e soprattutto non di origine animale. Molti diabetici si rifiutano infatti di usare insulina proveniente da fonti animali, anche se questa scelta è piuttosto elitaria. Non vi sono interventi proibiti, per quanto vi siano opinioni discordanti riguardo al trapianto degli organi; alcuni induisti sono contrari e altri invece accettano questo tipo di pratica al fine di proteggere la vita. Lo stesso principio si applica alle trasfusioni di sangue, anche se con un margine maggiore di consenso. Tali prescrizioni non hanno, a ogni modo, carattere dogmatico e si rimandano alla scelta individuale del singolo.

A questo riguardo è bene considerare che per un induista la malattia sia fisica sia mentale è vista alla luce della legge di responsabilità, karma, e può pertanto avere un’origine biologica, emotiva o spirituale. In questa prospettiva, secondo anche la medicina tradizionale dell’ayurveda, gli interventi curativi devono coinvolgere la persona nella sua interezza: fisica, mentale e spirituale. Tra questi rimedi è prevista la preghiera, la recitazione del mantra, una condotta retta.

Il dovere di chi accudisce il malato è quello di alleviargli o mitigargli il più possibile il dolore e la sofferenza. Alcuni non accettano la somministrazione di farmaci perché non vogliono perdere lucidità al momento del passaggio della morte per riuscire a concentrare la loro mente su Dio.

Il momento della morte

Per un induista l’ideale è morire nella propria casa e vivere la morte con grande dignità, come un passaggio inevitabile, cercando di mantenere il più possibile la consapevolezza che il Sé, l’Atman, che dimora nel corpo è eterno ed immortale.

Una delle espressioni per riferirsi alla morte è mahaprasthana, “il grande viaggio”. La morte è vista come un processo che non si deve né voler accelerare né procrastinare con ostinazione, ma piuttosto cercare di seguirne un decorso il più naturale possibile. Per tali ragioni può essere sconsigliato l’accanimento terapeutico.

Il malato di fede induista può prepararsi alla morte recitando dei mantra, praticando la meditazione; se in condizioni di farlo, visitare luoghi sacri come templi e monasteri; può essere aiutato dai familiari o dagli amici più cari attraverso la recitazione o l’ascolto delle Scritture, di canti devozionali che ricordino i nomi di Dio, stando in un ambiente spirituale e di conforto umano.

Potrebbe chiedere la presenza di un sacerdote che compia alcuni rituali tra cui il porre nella bocca alcune gocce di acqua del Gange (ritenuta molto sacra) o delle foglie di tulsi, pianta sacra, o porre il filo sacro intorno al petto o al collo.

Si distinguono vari tipi di rituali: riti di preghiera quando il malato è sul letto di morte; riti che accompagnano la disposizione della salma; riti che accompagnano l’anima nella sua dipartita; riti in onore dei padri (sraddha). Degno di nota può essere il fatto che alcuni di questi riti possono essere svolti anche non alla presenza del corpo.

Riti funebri e trattamento della salma

L’induismo è un insieme di differenti culti e tradizioni che hanno alcune basi comuni, ma che si differenziano moltissimo nella ritualistica e nella prassi religiosa. Fondamentale è la tradizione religiosa della famiglia e molti riti possono essere svolti nell’ambito della famiglia stessa.

Premesso che, nella ritualità legata alla morte, vi sono molte differenze relative al contesto sociale in cui ci si trova, alla tradizione famigliare e così via, si forniscono, di seguito, delle indicazioni di massima.

Quando una persona muore, il suo corpo è lavato e asperso con oli dai familiari più stretti, nella fattispecie dal figlio maggiore. Si può decidere di chiamare un sacerdote, pandit, per celebrare un rituale. Questo può prevedere l’applicazione sul capo di pasta di sandalo, cenere sacra, vibhuti, e curcuma rossa, kumkum e il legare, al polso, un filo di cotone rosso e giallo. È, inoltre, usanza accendere un lume e degli incensi accanto al defunto.

La stanza della veglia dovrebbe consentire di disporre il corpo con il capo rivolto a sud e di accendere lampade e incensi.

La cremazione è preferibile alla sepoltura. Un tempo essa richiedeva una complessità di atti, mentre oggigiorno si è molto semplificata.

Vi sono agenzie addette al rimpatrio della salma nel Paese di origine, dove le ceneri sono disperse preferibilmente in un fiume o in un corso d’acqua. In India, il fiume sacro d’elezione è il Gange. L’autopsia non è generalmente accettata e, qualora, fosse necessaria, è importante consultarsi prima con la famiglia.

Lutto

Il lutto dura un anno. Per i primi 12 giorni si esegue un rituale giornaliero nella casa del defunto. Quindi, nel caso della cremazione, si disperdono le ceneri in un luogo sacro. Si ripetono rituali il 17° e il 45° giorno e poi mensilmente nella data della morte seguendo il calendario lunare. Dopo un anno si ritiene che lo spirito del defunto abbia raggiunto il mondo dei padri e si celebrano particolare funzioni, atti di donazione e opere meritorie.

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