Lutto e animali
di Laura Liberale
Nell’immane, irredimibile “torto senza fine che infliggiamo agli animali” (Derrida), è incluso quello perpetrato dalla filosofia: l’animale è il grande ignorato o distorto della speculazione filosofica. Animale: l’indistinzione, la genericità di una parola che esilia qualsiasi statuto di soggettività; animale-macchina, animale-cosa; animale privo di accesso all’essere; animale senza linguaggio, senza risposta, senza cultura, senza tecnica, senza libertà; animale sempre manchevole, povero di mondo, prigioniero deterministicamente del suo ambiente; animale che non muore ma crepa, animale che non conosce lutto né sepoltura.
Ecco, proprio circa quest’ultimo pregiudizio vorrei spendere qualche parola, chiamando in causa le più recenti osservazioni etologiche.
C’è un gran bel libro: Il lupo e il filosofo, di Mark Rowlands[1], docente di filosofia, appunto. Il rapporto col suo lupo, Brenin, è l’occasione per toccare svariate tematiche, fra cui quella al capitolo VIII: La freccia del tempo, che, com’è intuibile, articola un discorso intorno alla morte. Non sarà inutile riassumerne i passaggi.
Si parte dalla domanda: perché la morte può dirsi un male? Tra le prime risposte date leggiamo che essa è male perché ci priva di un futuro: “Non è chiaro se gli altri animali dedichino molto tempo — semmai ne dedicano — a modellare il proprio comportamento in base alla concezione di quello che vorrebbero che fosse il loro futuro […] Gli uomini, poiché hanno un concetto del futuro e quindi possono disciplinare, organizzare e orientare il loro comportamento in base alla concezione del futuro che vorrebbero, investono nella loro vita molto più degli altri animali. La morte è peggio per un uomo che per qualsiasi altro animale. La vita di un uomo, dunque, è più importante di quella di qualsiasi altro animale” (pp. 191-192). Rowlands, ovviamente, non si ferma a questo primo ragionamento, altrimenti il suo libro andrebbe ad aggiungersi alla solita solfa antropocentrica che il postumanesimo ha ormai messo in discussione. Aggiunge subito, facendo ammenda: “Una volta credevo anch’io a questa storia […] Oggi mi vergogno della mia mancanza di profondità di giudizio”. Torna dunque alla freccia del tempo e dice: “Il presente scivola sempre via: nel suo volo la freccia del tempo non fa che passare attraverso una tappa del suo percorso e puntare alla successiva. Perciò, se il significato della vita è legato a momenti, anch’esso non fa che scivolare continuamente via. Noi pensiamo che il significato della vita debba essere legato ai nostri desideri, obiettivi e progetti, dei quali deve essere un elemento dipendente. Il significato della vita è qualcosa verso cui possiamo progredire, qualcosa da realizzare. E, come tutte le realizzazioni importanti, non è qualcosa che può accadere adesso, ma solo in seguito, più avanti. Tuttavia noi sappiamo anche che più avanti lungo la linea si troverà non il significato, ma la sua assenza. Se proseguiamo abbastanza, troviamo non il significato, ma la morte e la decomposizione. Arriviamo al punto in cui il volo di tutte le nostre frecce si interrompe […] Quella linea, perciò, ci affascina e, al tempo stesso, ci fa inorridire […] Non riusciamo mai a goderci il momento per quello che è di per sé perché per noi il momento non è mai quello che è di per sé. Il momento è continuamente ‘spostato’ sia in avanti sia all’indietro. Quello che per noi è l’adesso è costituito dai nostri ricordi di ciò che è avvenuto prima e dalle nostre aspettative di ciò che verrà […] Il momento ci sfugge sempre” (pp. 194-196). E Rowlands qui ci mostra in cosa sono diversi da noi i cani: “Per loro, il momento era completo in se stesso, non contaminato da qualsiasi altro momento disseminato nel tempo. Non poteva essere né accresciuto, né sminuito da ciò che era successo prima e da ciò che doveva ancora succedere. Per noi, invece, nessun momento è completo in se stesso. Ogni momento è adulterato, inquinato da ciò che ricordiamo e da ciò che ci aspettiamo. In ogni momento della nostra vita la freccia del tempo ci mantiene ‘verdi e morenti’. È questa la ragione per cui crediamo di essere superiori a tutti gli altri animali […] Di volta in volta affascinati e disgustati dalla freccia del tempo, il nostro disgusto ci spinge a cercare la felicità in ciò che è nuovo e diverso, in qualsiasi deviazione dalla freccia del tempo. Ma la nostra passione per la freccia significa che qualsiasi deviazione dalla sua linea semplicemente crea una nuova linea, e la nostra felicità adesso pretende che anche noi deviamo da quella linea. La ricerca umana della felicità è di conseguenza regressiva e vana. E alla fine di ogni traiettoria c’è solo il mai più” (pp. 196-201).
Lo scrittore fa l’esempio di Nina, un altro dei suoi cani (insieme a Brenin e a Tess), Nina che, alla vista del cadavere di Brenin, dopo una veloce annusata, torna a giocare con Tess, come se niente fosse accaduto: “Il tempo dei lupi, suppongo, è un cerchio, non una linea. Ogni momento della loro vita è completo in se stesso. E la felicità, per loro, si trova sempre nell’eterno ritorno dell’uguale. Se il tempo è un cerchio, non esiste il mai più. E, di conseguenza, l’esistenza di ogni individuo non è organizzata intorno alla visione della vita come un processo di perdita […] Dove non c’è un senso del mai più, non c’è alcun senso di perdita. E per questa ragione ‘la morte non avrà dominio su di loro’. Adesso capisco perché Nina si limitò a dare solo un’annusata superficiale a Brenin, anche se l’aveva amato forse più di qualsiasi altra cosa al mondo. Di tutti noi Nina era quella che comprendeva meglio il tempo. Era la custode del tempo, la zelante guardiana dell’eterno ritorno dell’uguale […] Preservare e garantire l’eterno ritorno dell’uguale era la sua missione della vita. Per Nina niente poteva cambiare, niente poteva essere diverso. Capiva che l’autentica felicità si trova solo in ciò che è uguale, in ciò che non cambia, in ciò che è eterno e immutabile” (pp. 201-201).
Ma siamo sicuri che sia davvero così, mi chiedo, o non si sta applicando ancora una visione antropocentrica?
Veniamo allora a un altro libro, un libro essenziale per il nostro tema: Al di là delle parole, dell’etologo Carl Safina[2]. Che consapevolezza ha della morte un elefante? Intanto Safina parte dall’assunto che per gli elefanti “è importante l’identità di chi è morto: sono animali per i quali conta il chi“. Il naturalista riporta la storia della matriarca Big Tuskless, morta di morte naturale: la sua famiglia si recò dove la ricercatrice ne aveva deposto la mandibola per studiarla, insieme a decine di altre; gli elefanti puntarono dritti a quella, ignorando le altre, e la toccarono. Il figlio di Big Tuskless si fermò più a lungo e la accarezzò e rivoltò con la proboscide. Ricordo, dolore, nostalgia? E che dire di questa forma di esequie: “A volte gli elefanti coprono i compagni morti con terra e vegetazione (…) Durante una battuta di caccia grossa un grande elefante maschio venne ucciso e i suoi compagni si radunarono intorno alla carcassa. I cacciatori tornarono ore dopo e scoprirono che gli altri non solo avevano coperto l’amico morto con terriccio e foglie, ma avevano chiuso con del fango la grande ferita sulla sua testa” (p. 113).
Un elefante vive la condizione di lutto? “Una matriarca di nome Eleanor, che era malata, crollò a terra: un’altra matriarca, Grace, le si avvicinò immediatamente, con le ghiandole temporali secernenti per l’emozione. Grace rimise in piedi l’amica, che però ricadde subito. Grace sembrava molto stressata, e continuò a cercare di sollevare Eleanor: invano. Quando scese l’oscurità rimase con l’amica, che morì durante la notte. Il giorno dopo un’elefantessa di nome Maui cominciò a cullare il corpo con una zampa; il terzo giorno i resti di Eleanor furono vegliati dai suoi familiari, dai membri di un’altra famiglia e da Maya, la sua amica più stretta; Grace era ancora lì. Il quinto giorno Maya trascorse un’ora e mezza accanto al corpo. A una settimana dalla morte di Eleanor la sua famiglia fece ritorno da lei e passò lì vicino una mezz’ora” (pp. 113-114). Viene anche raccontata la storia di una madre, Tonie, che partorì un cucciolo morto e lo vegliò da sola per quattro giorni, tenendo lontani i leoni.
E che dire dei lupi?
“Non dico che i lupi abbiano una comprensione della morte, o che conoscano l’inevitabilità della propria condizione mortale. Dopo tutto, perché dovremmo aspettarci che comprendano più di noi? La maggior parte degli esseri umani non riesce a concepire la propria fine. Moltissimi credono che esisteranno per sempre, in un luogo chiamato paradiso, o in una ruota del karma o delle reincarnazioni. Questo costituisce, al tempo stesso, la grandezza e il limite dell’immaginazione umana. Noi esistiamo, e non riusciamo a immaginare che un giorno non esisteremo” (p. 280).
Cosa può fare un lupo dinanzi all’evidenza della morte di un compagno?
“Old Blue aveva raggiunto l’età veneranda di 11,9 anni, qualcosa di quasi soprannaturale […] Era stato visto faticare per tenere il passo del branco e poi un giorno morì. L’indomani la sua compagna — Fourteen — fece qualcosa che nessuno studioso di lupi aveva mai visto prima. Se ne andò. Lasciò il suo territorio, lasciò i figli che costituivano il suo branco — e lasciò i suoi cuccioli di nove mesi. Una cosa inaudita. Vagabondò nella neve, dirigendosi verso ovest, attraversando territori così inospitali che non c’erano tracce di altri animali. Molti chilometri dopo, si fermò, da sola, su un pendio battuto dal vento del Pitchstone Plateau. Proseguì poi sempre verso ovest per altri ventiquattro chilometri. Una settimana dopo si riunì alla sua famiglia […] Anche gli altri animali, come noi, sentono chiaramente la mancanza di un caro amico che è morto. Quando sono vivi, si chiamano a vicenda, si cercano, e tornano allo stesso nido o alla stessa tana. Il loro comportamento mostra chiaramente che immaginano i loro compagni, le loro tane, la loro casa. Anticipano il ritorno del compagno. Quando quello scompare, il sopravvissuto continua a cercarlo. Sanno bene cosa stanno cercando. In altre parole, ne sentono la mancanza” (pp. 280-281).
Se può risultare facile ai più comprendere tali atteggiamenti in lupi, elefanti, primati e delfinidi, lo è meno nel caso degli uccelli. Eppure.
Jennifer Ackerman, ne Il genio degli uccelli[3], ci parla del funerale di una ghiandaia occidentale: “L’équipe di ricerca sistemò una ghiandaia morta in un punto di un quartiere residenziale dove le ghiandaie solitamente andavano per cercare del cibo, e registrò quel che accadde dopo. La prima ghiandaia a imbattersi nell’uccello morto reagì chiamando le altre ghiandaie con un agghiacciante verso d’allarme. Le ghiandaie nelle vicinanze smisero di dedicarsi al foraggiamento e volarono sul posto, unendosi alla prima in uno strepitante e cacofonico gruppo, che si fece via via più grosso e rumoroso. Stavano piangendo un caduto della loro tribù? Protestavano indignate? Si stavano scambiando pareri su cosa potesse averlo ucciso o come portarlo lontano da quel posto? Gli uccelli rimasero riuniti attorno al cadavere per mezz’ora prima di volare nuovamente via; e in seguito, per un giorno o due, evitarono di bazzicare la zona” (pp. 236-237). Il secondo caso riportato riguarda un corvo: “Mentre si trovava in visita a casa di un amico, Hagel guardò fuori dalla finestra della cucina e vide un corvo morto a pochissimi metri di distanza Altri dodici corvi stavano saltellando in circolo attorno al cadavere. Dopo uno o due minuti, un corvo si allontanò per alcuni secondi, poi ritornò con un piccolo rametto o forse era uno stelo di erba secca. Lasciò cadere il rametto sul cadavere e volò via. Poi, a uno a uno, gli altri corvi sparirono brevemente, dopodiché ritornarono per lasciare dell’erba o un ramoscello sul corpo, e poi volarono via, fino a quando non se ne furono andati tutti, e rimase solo il cadavere ricoperto dai rametti” (pp. 239-240).
[1] Mondadori, Milano 2011.
[2] Adelphi, Milano 2018.
[3] La nave di Teseo, Milano 2018.
L’autrice
Laura Liberale, laureata in Filosofia (Università di Torino), è dottore di Ricerca in Studi Indologici (Università La Sapienza di Roma) e ha conseguito il Master in Death Studies & the End of Life (Università di Padova).