Umanizzazione della Medicina e demedicalizzazione dell’Uomo di fronte alla morte
Francesco Campione
Il potere della Medicina sulla morte è direttamente proporzionale al suo potere di
migliorare la qualità della vita allungandone la durata . Infatti, man mano che le
malattie si cronicizzano (il vero successo della Medicina moderna)ci si sente vecchi
sempre più tardi,la durata della vita aumenta e la morte si allontana. Il valore
dell’allungamento della vita dipende quindi dalla migliore qualità del vivere,dato che
senza il miglioramento della qualità della vita che ci si fa sentire vecchi sempre più
tardi l’allungamento della vita media non sarebbe considerato così positivo. Come
dire che la distinzione aristotelica(1) di vita(Zoe) e buona vita(eu zoe) si è mantenuta
nei secoli della civiltà classica, ma dal seicento in poi, con la nascita della clinica
moderna, la conoscenza medica delle cause delle malattie e della loro cura ha
acquistato un’importanza sempre maggiore nel determinare una buona vita anche per
i vecchi, influenzando sempre più il fattore che già per Aristotele era decisivo nella
ricerca della felicità: la gestione della vita associata degli uomini nella Polis, cioè la
politica come promotrice di “prassi” in grado di migliorare le condizioni materiali e
sociali della qualità della vita(trasformando la pura vita,zoe,in vita politica,bios).
Fino alla contemporaneità caratterizzata da una prevalenza netta della concezione
biologica della vita che ha finito per identificare la “buona vita” non più con la
felicità (come era per Aristotele) bensì col benessere , un benessere psicofisico , una
buona qualità di vita definita(e misurata) in termini di prestazioni biologiche e di
performance status,più eu zoe che eu bios.Con la conseguenza di accrescere sempre
di più il significato “politico” della Medicina.
Come ha mostrato l’opera di Foucault(2),la politica è così sempre più diventata
biopolitica( o forse si dovrebbe dire più correttamente zoopolitica,essendo già il
bios,come abbiamo detto,vita politica), e lo sviluppo dello Stato moderno è stato
sempre più dominato dalla tentazione di dirimere i conflitti tra i diversi modelli di
vita individuale e sociale che si sono succeduti sulla scena della Storia con le relative
concezioni della “buona vita”, definendo la “dignità o indegnità del vivere” in termini
biologici e affidando questo sforzo definitorio alla Medicina.
Uno di questi tentativi,il più folle e il più tragico fino a questo momento,è stato quello
del Nazismo,espressione della vittoria di un modello di vita totalitario,razzista ed
ecologista, teorizzato,tra gli altri, dal filosofo e giurista Schmitt(3), e caratterizzato
dall’identificazione dell’unità e uguaglianza del popolo tedesco con la persona del
Fuhrer, il quale ha finito per diventare “una legge vivente” ,una specie di sovrano
legittimato a sospendere qualsiasi legge instaurando uno “stato di eccezione” senza il
quale nessuna trasformazione della vita umana sarebbe possibile secondo questa
prospettiva.Un modello di vita che ha di conseguenza tentato di organizzare un’intera
cultura e un’intera società per eliminare fisicamente i modelli inevitabilmente
antagonisti della follia(solo un pazzo con la stessa follia poteva prendere sul serio
Hitler nel suo “credersi” il popolo tedesco,e con due o tre Furher il gioco sarebbe
saltato) ,dell’ebraismo(per gli ebrei la legge promana da un unico Dio e Hitler non
poteva pretendere di incarnare la legge a sua volta) e del nomadismo libero o
coatto(i nomadi tendono ad essere ontologicamente insofferenti a qualsiasi legge).
Per vincere anche il futuro purificando la razza non restava infatti che eliminare
matti,ebrei e zingari;ma come giustificarlo?Il Nazismo ha tentato di farlo affidando ai
medici la giustificazione biologica(starei per dire zoologica) di quanto sia indegno
vivere per un malato di mente,un ebreo o uno zingaro in modo da organizzarne
“legittimamente” l’eliminazione( 4)(G.Agamben)
Ma per fortuna l’astuzia della Storia ci ha preparato un esempio di segno opposto.
Mi riferisco all’esempio della Medicina Palliativa che tenta di giustificare, misurando
la qualità di vita dei morenti, il desiderio di veder riconosciuti dallo Stato e dalle sue
leggi il diritto di alcuni di loro di ritenere indegna di essere vissuta una vita sconvolta
dai dolori e senza speranza di salvezza. Nel Nazismo la Medicina su base biologica(o
zoologica) giustifica l’eliminazione dei matti, degli ebrei e degli zingari schierandosi
dalla parte di una Stato che persegue una biopolitica(o zoopolitica) razzista,ora
appoggia tramite la Medicina palliativa una riforma individualista dello
Stato(perfettamente in linea con il liberalismo) volta a riconoscere a ciascun
individuo il diritto di ritenere indegna di essere vissuta la sua vita purchè riconosca
nei parametri della misurazione quantitativa della qualità della vita che fondano la
cultura della palliazione, l’unico metodo per fondare oggettivamente questo diritto.
La qualità della morte diventa così un aspetto della qualità della vita, la cui
valutazione spetta pur sempre alla Medicina nonostante che si tratti di una
Medicina(la Medicina Palliativa,appunto) in conflitto con un’altra parte della
Medicina(La Medicina Guaritiva):la Medicina è diventata,in altri termini, talmente
potente e decisiva nel determinare la politica contemporanea (trasformandola così in
biopolitica o zoopolitica) che è in grado di rappresentare in sé le opposte istanze che
corrispondono alle due diverse concezioni del rapporto vita-morte che si contendono
la contemporaneità. Se,come sosteneva Bichat(5) ,proprio agli albori della Clinica
moderna, dal punto di vista biologico( o zoologico), la vita è -l’insieme delle funzioni
che resistono alla morte-,la Medicina contemporanea è scissa in due rispetto a questa
resistenza: la Medicina Guaritiva che mira a rafforzare queste funzioni di resistenza
alla morte finendo così per definire la vita in relazione alla morte(tanto più è vitale un
essere vivente quanto più resiste alla morte e combattere la morte è il più potente
mezzo per vivere); la Medicina Palliativa che mira ad indebolire le funzioni di
resistenza alla morte(o perfino ad eliminarle nell’eutanasia attiva) per consentire
all’individuo di rifiutare il peso di un’esistenza che ritiene invivibile perché indegna
di essere vissuta, definendo,in altri termini, la morte in relazione alla vita( la morte è
la fine non desiderabile della vita,il fine che la vita non può e non deve perseguire
oppure è un mezzo per migliorare la vita individuale sottrarendola alla sofferenza
senza speranza di superamento).
Sono le due soluzioni che la Medicina prospetta al morente di fronte al morire:
I.Vai dal medico e chiedigli che ti aiuti a combattere la minaccia della morte senza
arrenderti mai, perchè la forza di questa lotta deriva proprio dall’incombere della
minaccia a cui la vita non può cedere: la vita stessa è conatus essendi,sforzo di essere,
attività volta a conservare l’essere di fronte al non-essere che incombe fin dalla
nascita attraverso la possibilità di ammalarsi , e che de-finisce la vita come la sua
inevitabile e necessaria conclusione;
II. Vai dal medico perché valuti se non c’è più niente da fare per scongiurare le
minacce di morte, ti aiuti a capire se consideri la tua vita insopportabile ,e a morire,in
tal caso, il più presto e il più dolcemente possibile in modo da non soffrire una vita
ormai indegna di essere vissuta.
La Medicina nella sua “schizofrenia” si fa dunque si fa portatrice di due istanze
opposte, attraverso,rispettivamente, l’educazione a non arrendersi mai di fronte alla
morte e l’educazione a rendere la vita degna di essere vissuta fino all’ultimo
istante(cioè a prescindere dalla sua durata), favorendone all’occorrenza l’avvento col
trasformarla in un passaggio biologico(meglio zoologico) il più dolce
possibile(l’eutanasia attiva o passiva che ha sempre come scopo la preservazione di
una vita degna di essere vissuta perché di buona o accettabile qualità).
Chi assiste i morenti sa però che si tratta di due modalità del morire in perenne
scacco: coloro che scelgono di resistere ad oltranza alla morte, ad un certo momento
saranno costretti in qualche modo ad arrendersi; coloro che vogliono morire con
dignità, dovranno assaggiare inevitabilmente qualche “bruttura” del morire.
Il desiderio di non morire mai e quello di morire con dignità, sono desideri
impossibili e inattuabili svelando l’impotenza e i limiti della Medicina di fronte alla
morte.
Appare così il carattere alienante della concezione biologica( zoologica) della vita e
della morte di cui la Medicina moderna è espressione massima,alienante a causa della
riduzione antropologica che opera, defininendo l’uomo solo in base ad una sua
dimensione (quella biologica o zoologica, appunto) .Ed è proprio questo che
significa affidarsi nel morire esclusivamente al medico e alle istituzioni
sanitarie,come è sempre più abituale :morire come un animale evoluto(evoluto perché
ha affinato le sue tecniche per resistere alla morte, o evoluto perché ha affinato le sue
tecniche per morire conservando una qualità di vita che la rende ancora degna di
essere vissuta) .Un modo di morire “oggettivo” che può appartenere e riguardare
chiunque lo scelga e che si realizza solo nella misura in cui se ne realizzano le
condizioni oggettive di possibilità.
Cosa accade quando qualcuno che voglia morire in uno di questi due modi suggeriti
dalla Medicina non si accontenta della misura in cui è possibile di volta in volta
attuarli e voglia riuscire “davvero” a non morire mai o realizzare una morte davvero
dignitosa? Accade quello che sempre accade quando si vuole realizzare un desiderio
impossibile:si rischia o si persegue la follia. Non è capitato a tutti coloro che
assistono i morenti di incontrare qualcuno che era convinto che non sarebbe mai
morto smarrendo il senso della realtà, o qualcuno che deve nutrirsi anche quando non
ingoia più niente e godere la vita anche quando è ormai impossibile ,e la sua salute
mentale vacilla?
In questi casi si rischia di impazzire e non è ovviamente alla Medicina e alla sua
antropologia biologica che bisogna rivolgersi(anche se c’è chi tende a farlo
supponendo che un’altra specialità medica,la psichiatria biologica, abbia il sapere e le
tecniche per prevenire la follia). Ci vogliono in realtà ,per non cadere nella follia
quando si vuole a tutti costi non morire o godere la vita quando essa ci sta
abbandonando, una”teoria della verità”,cioè una fede o una filosofia che dimostrino
che la morte annulla solo una parte di noi e che quindi c’è una parte di noi che è
eterna(per coloro che non vogliono morire mai);oppure una droga,chimica o magica,
più potente di qualsiasi morfina(per coloro che devono a tutti costi ripristinare nel
morire la loro qualità di vita).
Si tratta di due vie oggi minoritarie ma sempre presenti che si basano su
un’antropologia diversa da quella biologica, dato che le fedi, le convinzioni
filosofiche o l’efficacia delle “magie” , derivano dai vissuti particolari di chi le nutre
in sé e possono essere solo in frutto di una “ricerca” e di un’elaborazione individuale
dei significati della vita e della morte che si può giovare più efficacemente di un
supporto religioso , psicologico o filosofico più che del supporto sanitario.Tutte le
fedi, tutte le tecniche psicologiche,tutte le filosofie e le magie devono fare appello
alla persona del singolo morente che nella sua unicità e irripetibilità ha l’ultima
parola sulle proposte che gli arrivano e le “assimila” efficacemente solo se ne è
convinto.
E tuttavia, anche in questa temperie antropologica, le strategie di fronte alla morte
posssono essere alienanti e riduttive al punto da farci considerare che forse anche con
la fede, la psicologia, la filosofia e la magia, il desiderio di non morire mai e quello di
smettere di soffrire godendo la vita fino all’ultimo istante restano desideri inattuabili
(o atttuabili solo in parte, cioè nella misura in cui: o la fede e la psicologia convivono
con la “follia” di volersi illudere; o la filosofia convive con la “folle pretesa” di
raggiungere la verità; o la magia convive con la “follia” dell’onnipotenza del
pensiero). Quante volte, in altri termini, abbiamo incontrato morenti che avrebbero
voluto avere una fede nella vita eterna e non l’avevano o l’avevano persa, non
potendo così attuare il desiderio di non morire mai ? Quante volte abbiamo
incontrato filosofi che di fronte alla morte hanno scorto il limite della loro filosofia?
Quante volte abbiamo incontrato morenti delusi perchè avrebbero voluto , che una
qualche magia gli consentisse,come dice il poeta Sandro Penna( 5), di vivere
“addormentati dentro il dolce rumore della vita” ,fino all’ultimo istante, senza curarsi
di dover morire?
L’antropologia biologica(zoologica) e quella personalistica che abbiamo analizzato
fin qui concepiscono la vita e la morte come dimensioni individuali: biologicamente
perchè vive e muore sempre un corpo “separato” da altri corpi ; personalmente perché
si sente vivere e si sente morire sempre un’intetiorità(un “interno corporale” che
appartiene in esclusiva ad un corpo,che lo “rispecchia” ma non si identifica del tutto
con esso)
Ma l’uomo è,per seguire ancora una volta Aristotele(6), un animale sociale, e la
buona vita può basarsi non solo sull’oggettività del suo corpo o sulla soggettività
della sua persona bensì anche sulla intersoggettività della sua vita di relazione. Per
avere una buona vita ed essere felici bisognerà allora avere una buona organizzazione
della vita sociale,cioè una buona organizzazione della Polis ,una buona politica.
Credo significhi se riferiamo questo modello alla morte nella sua essenzialità,che
oltre a poter morire bene oggettivamente,come esseri biologici(o zoologici), come
muoiono gli animali in base alla loro evoluzione e alle condizioni oggettive, e oltre a
poter morire bene soggettivamente, come persone,ognuno a modo suo; si può morire
bene intersoggettivamente,cioè non solo come “muoiono tutti”od “ognuno a suo
modo” ma anche “ per sé e per gli altri”.
Una madre che morendo lascia un figlio la cui vita dipende da lei, può morire bene
biologicamente( resistendo fino alla fine alla morte o garantendosi la qualità di vita
che le condizioni oggettive consentono) e per se stessa( perseguendo l’eternità con
una fede o una filosofia, e il benessere con una “magia”) ma può morire anche male
per quanto della sua morte riguarda il figlio, per le conseguenze che la sua propria
morte ha sul figlio.E nessun medico, nessuna religione,nessuna filosofia, nessuna
psicologia, nessuna magia,possono soddisfare il suo desiderio di continuare a
proteggere suo figlio anche dopo che sarà morta.Sarà necessario qualcuno che si offra
o senta la responsabilità di “sostituirsi” a questa madre perchè ella possa morire bene
non solo per sé ma anche per il figlio che lascia.
E’ uno dei casi in cui si rivela in modo esplicito che sarebbe necessario al morente
,per realizzare il più posssibile un tale desiderio, qualcosa di più che un aiuto
individuale(biologico o personale): avrà bisogno (sul piano relazionale) di sapere che
morendo lascia qualcuno che lo ama , qualcuno che per questo ama i suoi figli e si
“sostituirà” a chi è morto nel proteggerli.
Ma forse, quando abbiamo bisogno che altri ci sostituisca dopo morti nei ruoli e
nelle responsabilità riguardanti altri che non possiamo abbandonare per non morire
disperati, siamo nuovamente di fronte ad un desiderio impossibile:quante volte
abbiamo assistito bambini che dopo la morte di un genitore sono stati affidati ad un
altro genitore o ad un parente o amico che non sono riusciti a sostituirsi a chi non
c’era più, o perché non lo amavano abbastanza o perché è sempre diffficilissimo
sostituirsi ad un altro?
Sembra dunque che l’esperienza ci dica che la morte è irreparabile e che dobbiamo
accontentarci di attuare i desideri che ci suscita(non morire mai, avere una morte
dignitosa,lasciare bene coloro che restano in modo che ci “sostituiscano”) in una
misura parziale,ogni volta pagando il prezzo di un’alienazione da una parte di noi
(identificandoci cioè di volta in volta come esseri biologici, personali o sociali e non
come esseri umani totali,cioè biologici, personali e sociali insieme).
Sarà per questo che la nostra cultura ci suggerisce di non pensare alla morte: a che
pro,infatti, pensare a qualcosa che suscita solo desideri irrealizzabili e una
conseguente quota più o meno alta di impotenza?
In realtà, io credo che abbiamo di fronte alla morte ancora una possibilità che non
abbiamo esplorato: l’impotenza di fronte alla morte come una possibilità,cioè come
potenza,potenza di non potere. Sembrerebbe un paradosso e così è stato spesso
(6)(vedi le acute analisi di Giorgio Agamben) pensato il pensiero aristotelico che
pensa per la prima volta “il potere di non potere”. Che possibilità sarebbe la
possibilità dell’impossibilità se tutto il potere di fare o essere qualcosa risiedesse
nell’atto che lo realizza?Ma che ne sarebbe dell’atto senza la potenza che lo sottende?
Scorgo una soluzione di questo eterno problema filosofico in una concezione del
desiderio che riconosca essere il desiderio oltre che da attuare anche solo da
desiderare. Non possiamo forse continuare a desiderare anche ciò che è impossibile
attuare? Non perché, come direbbe Aristotele(7) è in nostro potere sia passare
all’atto(donandoci la realizzazione del desiderio) sia attestarci sul desiderio puro di
qualcosa,ma perché il valore di un desiderio non sta solo nella sua realizzazione ,e
anche quando esso è impossibile possiamo continuare a desiderarlo ,e resta “valido”.
Tornando ora ai desideri impossibili che la morte ci suscita(il desiderio di non morire
mai, di avere una morte davvero dignitosa e di lasciare bene gli altri morendo in
modo che ci “sostituiscano”),tutte le antropologie mostrano il loro limite
precisamente perché condividono tutte la necessità di attuarli dovendo poi
continuamente costatare che si tratta di desideri impossibili ,con la conseguente
impotenza e la tentazione di desiderare solo i desideri attuabili che ne derivano. In
realtà noi possiamo limitarci a desiderare di non morire mai, di morire
dignitosamente e di lasciare bene coloro che restano perché ci “sostituiscano”, e
possiamo desiderarlo in modo puro e disinteressato rinunciando alla realizzazione di
questi desideri ,perché il fatto che siano inattuabili non ne sminuisce il valore. Il
desiderio di essere immortali è un bene che resta tale anche se non si attua,il desiderio
di una morte dignitosa e quello di lasciare bene gli altri che restano e si sostituiscano
a noi, altrettanto.Il valore di un bene particolare desiderato resta tale anche se non si
attua, perché allude al Bene assoluto più di quando si realizza ,e perché quando si
realizza si realizza sempre solo in parte e non è in grado di realizzare il Bene assoluto
ma piuttosto lo nasconde e /o allontana. E non è allora proprio il fatto che sia la morte
a suscitarci tali desideri, desideri che benchè inattuabili alludono al Bene, a rendere la
morte tutt’altra cosa da come solitamente la concepiamo? Da concetto tragico la
morte allora si trasforma in ciò che suscita in noi il desiderio puro e disinteressato
del Bene, e potremmo capovolgere l’indicazione educativa della nostra cultura:invece
di cercare di non pensarci perché suscita desideri vani e disperanti in quanto
irrealizzabili,dovremmo pensarci sempre, in modo da essere sempre in contatto con
la possibilità di desiderare l’impossibile che è una figura del Bene,cioè di un quid che
,proprio perché non si può realizzare mai del tutto o ci vorrebbe un tempo infinito per
realizzarlo nella sua totalità, può essere solo desiderato in modo puro e
disinteressato,appunto all’infinito. Percepiremmo più spesso,se pensassimo sempre
alla morte, l’Infinito e le possibilità che desideriamo(il Bene assoluto) quando
desideriamo i desideri impossibili che appunto la morte ci suscita : più che il
desiderio di non morire il desiderio di non smettere mai di morire( perché il Bene
assoluto è non morire e contemporaneamente morire); più che il desiderio di una
morte dignitosa il desiderio di una vita perfetta,sempre degna di essere
vissuta(perché una morte dignitosa diventa un bene quando è impossibile il Bene
della vita perfetta);più che il desiderio di lasciare bene gli altri che restano perchè si
sostituiscano a noi il desiderio che comunque li lasciamo non cancellino mai le
tracce del nostro passaggio(Il Bene assoluto è che continuino ad amarci anche se
siamo ridotti ai nostri simulacri e non possiamo più ricambiarli)(8).
Pensando alla morte,desidereremmo desideri impossibili da realizzare ma anche
impossibili da smettere di desiderare ,e con essi apparirebbe il desiderio più autentico
di tutti, il desiderio di un Bene tanto grande da essere indefinibile e perseguibile solo
all’infinito. E’ a partire da queste considerazioni che ho concepito il compito che mi
sono prefisso per gli anni o giorni o istanti che mi restano da vivere: pensare sempre
alla morte non come alla tragedia della vita umana ma come il tramite per aprirmi
alla ricerca del Bene ,per il maggior tempo possibile, finchè non smetterò di morire( o
non mi faranno smettere coloro che vivendo dopo di me non vorranno o non potranno
sostituirsi a me o cancelleranno le mie tracce perché la mia vita è ridotta a niente o
non mi amano abbastanza disinteressatamente).
Farò,ho già cominciato a farlo, un diario di questi pensieri:non so cosa questa ricerca
produrrà, ma spero di avere altre occasioni per riferirne gli esiti e mi
auguro,modestamente, che possa contribuire a rendere la morte meno tragica per tutti.
Spero inoltre di aver contribuito alla consapevolezza che non basta rivolgersi al
medico per affrontare la morte,con l’inevitabile conseguenza di ridimensionare il
potere della Medicina e far sì che essa si umanizzi sempre di più e che l’uomo si
medicalizzi sempre di meno senza per questo fare a meno della Medicina.
Bibliografia
1. Aristotele,Politica, Laterza,Bari-Roma,1996
2. Foucault,M.,La volonté de savoir,Paris 1976
3. Schmitt,C. Furhertum als Grundbegriff des nationalsozialistischen Recht,in
“Europaiche Revue”,IX,1933
4. Agamben,G., Homo Sacer(Il potere sovrano e la nuda
vita),Einaudi,Torino,2005
5. Bichat,X.,Recherches physiolodiques sur la vie et la mort,Flammarion,
Paris,1994
6. Aristotele,Politica,op.cit.
7. Agamben,G., La Potenza del pensiero,Neri Pozza, Vicenza,2005
8. Levinas,E. Totalité et Infini(Essai sul l’exteriorité), Martinus,Nijhoff,The
Hague,1971.
(Zeta Online, Rivista di documentazione e ricerca sulla morte e sul morire, N°39)
L’autore
Francesco Campione
Tanatologo, Presidente Associazione Rivivere e Docente di Psicologia clinica e Psicologia della perdita e del lutto all’Università di Bologna