Il biotestamento

Francesco Campione

Il disegno di legge sul biotestamento è stato approvato in via definitiva al Senato il 14 Dicembre 2017. Come tutti i giornali hanno riportato, da ora in poi non sarà possibile derogare al principio dell’autodeterminazione della persona, dato che l’articolo 1 della legge “stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge”. La novità rispetto al passato è che il consenso del paziente sarà necessario sempre e cioè anche nei due casi in cui prima della legge non era previsto o era controverso. Stiamo parlando: I. della  nutrizione e dell’idratazione artificiali in ragione del fatto che esse sono considerate dalla legge trattamenti sanitari somministratili su prescrizione medica e non trattamenti salva-vita; II. della sedazione continua (palliativa o terminale) che prima era oggetto di controversia tra chi la considerava prescrivibile dal medico anche senza consenso del paziente e chi ne riteneva necessario il consenso.

L’esultanza che ha accompagnato l’approvazione della legge come legge di civiltà in grado di dare dignità alla morte è stata quasi corale con l’eccezione della parte più conservatrice dell’opinione pubblica cattolica non disposta ad ammettere deroghe al principio dell’indisponibilità della vita umana per il soggetto di essa.

Possiamo unirci all’esultanza generale senza abbandonare lo spirito critico come tende ad accadere tutte le volte che ci troviamo di fronte ad una novità positiva.

La prima critica che si può fare è relativa allo stato in cui versa nel nostro Paese il consenso informato. Come si sa, il più delle volte il consenso che si richiede al paziente viene “facilitato” dal fornirgli informazioni edulcorate o sdrammatizzanti. Ciò  viene fatto risalire in gran parte ad una carenza di formazione del medico nella comunicazione con il paziente, quando invece corrisponde il più delle volte ad una “intenzionale” semplificazione della comunicazione stessa per evitare di attraversarne la complessità. Quando, ad esempio, il medico scopre che il paziente non gradirebbe un’informazione completa, invece di accettarne empiricamente le ragioni profonde, tende a semplificarsi la vita  “riducendo” la difficoltà del paziente di fronte alla verità ad una sua “preferenza”, e si accerta soltanto se vuole essere informato oppure no. In tal modo, risulta difficile raccogliere il parere del paziente quando egli “non sa” se vuole essere informato oppure no. Lo stesso tipo di semplificazione è contenuto nella legge (capoverso 3 dell’articolo 1) dove si dice che la persona ha due alternative o: I. “Ha il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informato in modo completo sulla diagnosi, sulla prognosi, sui benefici e i rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi”; II. “Può rifiutare in tutto o in parte di ricevere informazioni ovvero indicare i familiari o una persona di fiducia di riceverla e di esprimere il consenso in sua vece”.

Ma come fa una persona reale a sapere se vuole essere informata o no su qualcosa di cui non ha ancora ricevuto informazioni? Come si spiega che alcuni pazienti chiedono che gli si dica tutto e quando hanno ricevuto le informazioni le rifiutano?

In sostanza, esultiamo pure per aver stabilito il diritto di ciascuno a dare un consenso informato al suo medico, sempre e su tutto, ma non nascondiamoci che ottenere un tale consenso è concretamente molto difficile, a meno che non prevalgano modalità più o meno “autoritarie” di semplificare la “comunicazione” riducendola ad “informazione”.

Non sarebbe meglio invece di equiparare l’esercizio del diritto all’autodeterminazione ad una specie di “diritto di voto” (come quello dell’elettore reso informato dalla conoscenza dei programmi elettorali), considerare la libertà di scelta del malato, più che derivante da “ciò che sa” della sua condizione e degli esiti possibili dei trattamenti, una “costruzione” complessa, il punto di arrivo mai del tutto raggiungibile di una relazione empatica di condivisione personale ed umana con i suoi curanti ?

Per la verità il testo della legge al quinto capoverso dell’articolo 1 sembra esprimere un grado di consapevolezza di questa complessità quando dice: “Qualora il paziente esprima la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza, il medico prospetta al paziente e, se questi acconsente ai suoi familiari, le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative e promuove ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica”.

Sembra emergere la consapevolezza che rifiutare trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza possa avere conseguenze suscettibili di mettere in crisi il paziente, con la relativa esigenza di un sostegno psicologico. In altri termini, il legislatore sembra in questo punto consapevole che informare il paziente sulle conseguenze della rinuncia a trattamenti necessari alla sua sopravvivenza, cioè dirgli che potrebbe morire, non è detto che sia un’informazione che tutti possono ricevere senza problemi cioè solo per dare un consenso.

La seconda critica discende dalla precedente osservazione, cioè dal considerare che essere informati  per  dare il consenso ad interrompere trattamenti che allungano la vita può non essere per il paziente così “indolore” anche quando l’interruzione dei trattamenti viene richiesta per smettere di soffrire.

Ho riletto in questi giorni un famoso aforisma di Elias Canetti (Il libro contro la morte, Adelphi, 2017) che dice: “La maledizione del dover morire finirà per diventare una benedizione: che si possa ancora morire quando vivere è insopportabile”.

Nel suo significato “profetico” l’aforisma di Canetti evidenzia proprio la contraddizione che, pur nell’esultanza, credo si possa rilevare leggendo il testo della legge sul biotestamento.

Si tratta di una buona legge perché autorizza la possibilità di far diventare il dover morire una benedizione, dato che morendo  si può decidere di liberarsi di una vita insopportabile. Ma che ne è del sentimento maggioritario nella nostra cultura (come sa chi assiste i malati terminali) per il quale in grande maggioranza le persone continuano a sperare di  vivere e lottano per guarire anche quando è impossibile?

In altri termini, la legge viene incontro alle esigenze di chi vuole autodeterminarsi e pur di non continuare a vivere una vita che non sopporta vuole avere il diritto di rifiutare anche tutto ciò che lo salverebbe sebbene per poco. Ma essa non tiene conto di coloro che continuano a considerare la morte una maledizione anche quando la vita è insopportabile. Sarebbe tutto a posto se ci fosse una separazione netta tra queste due categorie e non ci fosse nessuno che alla fine della vita condivide contemporaneamente il sentimento che la morte sia una maledizione e quello che sia una benedizione, non riuscendo a scegliere.

Se si tenesse conto di questa ambivalenza, si potrebbe tentare di parlarsi tra coloro che difendono il diritto  di autodeterminarsi del soggetto anche di fronte alla morte e coloro che difendono il diritto di vivere anche di fronte alla contrarietà totale o parziale di un soggetto.

L’autore

Francesco Campione 

Tanatologo, Presidente Associazione Rivivere e Docente di Psicologia clinica e Psicologia della perdita e del lutto all’Università di Bologna

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