LA DIMENSIONE SPIRITUALE ACCANTO AI MORENTI E AI LORO FAMILIARI
di Arnaldo Pangrazzi, camilliano
“C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per tacere e un tempo per parlare” (Eccl 3, 1-8).
Tre fattori hanno contribuito a valorizzare la dimensione della spiritualità nell’ambito delle cure palliative:
- l’approccio olistico alla persona;
- la qualità della vita;
- le sfide e le domande sollevate dall’esperienza della morte.
Il bisogno di spiritualità si avverte particolarmente urgente nel contesto culturale odierno, caratterizzato dall’edonismo, dall’esteriorità, dalla ricerca dell’effimero, dalla tecnologia.
A questo clima di edonismo e superficialità si contrappone l’esigenza di maggiore autenticità, il bisogno di interiorità, un anelito verso il trascendente e l’Assoluto; come scriveva lo scienziato Luis Vincente Thomas “Il fallimento di un mondo ipertecnicizzato genera un immenso bisogno di spiritualità”.
Attualmente anche se, da una parte, si registra un crescente numero di persone che non si riconoscono più nelle religioni tradizionali, dall’altra, si nota una ricerca diversificata di esperienze, linguaggi e percorsi per alimentare la sete di spiritualità.
Ma cosa si intende per “spiritualità” o “dimensione spirituale?Le interpretazioni sul significato di che cosa inglobi questo termine sono tante, a seconda dell’orizzonte biografico di ogni persona.C’è chi considera “spiritualità” la condivisione di un credo o l’appartenenza a una fede religiosa; chi la percepisce come l’apertura al trascendente e ai valori ultimi; chi la identifica come espressione della propria vita interiore e creatività. In un certo senso, si potrebbe parlare di persone che sono “religiose”, ma non “spirituali”; di altre che sono “spirituali”, ma non religiose; di altre ancora che sono sia “religiose” che “spirituali” ed, infine, di alcuni che non sono né “religiosi”, né “spirituali”.
Chi muore ha bisogno di raccontare ciò che ha visto e sperimentato nella vita ed invoca la presenza di buoni ascoltatori, che siano capaci di accogliere e valorizzare il suo racconto e la sua sintesi esistenziale. Seneca scriveva: “Ci vuole tutta la vita per imparare a vivere e ci vuole tutta la vita per imparare a morire”.
Le persone muoiono una volta sola, è importante aiutarle a farlo bene.
L’accompagnamento spirituale deve adattarsi ai diversi paesaggi interiori di chi è al tramonto della vita e rispettarne le credenze e i valori.
Quanto segue è il messaggio accorato indirizzato da un’allieva infermiera alle amiche, alla luce di comportamenti che simulavano il loro disagio dinanzi al suo morire, accrescendone la solitudine.
“SONO IO CHE MUOIO: DI CHE COSA AVETE PAURA?”
“Sono un’allieva infermiera e sto per morire… Mi rimane da vivere per un periodo di tempo che va da sei mesi a un anno. Ma è un argomento che a nessuno piace affrontare. Mi trovo dunque di fronte a un muro compatto e deserto: è tutto quello che mi resta. Il personale non vuole considerare il malato che sta per morire nella sua dimensione di persona; di conseguenza non può comunicare con me.
Sono diventata il simbolo della vostra paura, qualunque essa sia. Paura di ciò che tutti, comunque, dovremo affrontare un giorno.
Vi infilate nella mia stanza per portarmi le medicine o per provarmi la pressione, e vi eclissate non appena avete compiuto ciò che dovevate fare… Avverto la vostra paura, e questo non fa che accrescere la mia.
Di che cosa avete paura? Sono io che muoio.
Mi rendo conto del vostro imbarazzo, ma… se vi interessate un pochino a me, non potete farmi del male. Fatemi capire soltanto che la mia situazione vi sta a cuore: non ho bisogno di altro…
Non scappate via. Fermatevi un momento…
Tutto quello che ho bisogno di sapere, è che qualcuno mi terrà la mano quando ne avrò bisogno. Ho paura.
Forse voi siete abituati ad aver a che fare con la morte. Per me è una cosa nuova. Non mi è mai capitato di morire.
Parlate della mia giovane età, ma quando si sta per morire non si è più tanto giovani.
Ci sono tante cose di cui mi piacerebbe parlare. Non vi ruberei troppo tempo… Se soltanto avessimo il coraggio di confessare quello che abbiamo dentro e di riconoscere, voi e io, le nostre paure… È davvero impossibile che noi comunichiamo come persone, di modo che quando verrà il mio turno di morire in ospedale, io abbia accanto a me delle amiche?[1]”.
È di vitale importanza che quanti scelgono di farsi prossimi ai morenti si siano riconciliati con la morte, quale naturale epilogo dell’esistenza, e risultino presenze serene e benefiche.
L’arte della prossimità e della cura spirituale si adatta alle diverse circostanze degli interlocutori (credenti, praticanti e non, atei..) e sa versare il balsamo della consolazione sulle loro ferite.
DIVERSE REAZIONI E PAESAGGI INTERIORI
Paul Claudel scriveva che “La vita è una grande avventura verso la luce”. Cosa significhi questa luce dipende dalla storia e dalle credenze di ogni singolo soggetto. Il preludio al fine vita è caratterizzato da un processo chiamato “cordoglio anticipatorio” che accomuna il morente e i familiari”, processo che si manifesta sotto forma di reazioni fisiche (logorio, spossatezza, vomito…), mentali (domande, preoccupazioni, pensieri…), psicologiche (ansia, sconforto, frustrazione, depressione…), comportamentali (ribellione, chiusura, regressione…), spirituali (crisi di fede, ricerca di Dio, invocazioni…).
Per molti il dolore più grande non è il graduale sgretolarsi del proprio corpo, quanto il morire in solitudine.
Talvolta, il moribondo ha fatto pace con il suo destino, ma è la famiglia che non accetta il distacco e non si dà pace. In questi casi la priorità degli aiutanti è di spostare l’attenzione dal malato a chi manifesta maggiore travaglio (genitore, coniuge, figlio), per offrirgli l’opportuno sostegno, consapevoli che aiutando il familiare si aiuta l’agonizzante.
C’è chi ha bisogno di liberare i sentimenti, chi di piangere, chi di protestare, chi di invocare l’aiuto divino.
Quanti assistono i morenti sono chiamati ad essere presenze sananti nell’accompagnamento di coloro che stanno per dire addio alla vita, in particolare nell’elaborazione di alcuni vissuti, tra cui:
- La riconciliazione con i limiti e l’impotenza: “Non guarirò più… sento la vita che se ne va”; “Non ce la faccio più, Basta! Ho sofferto abbastanza”.
- L’accoglienza dei loro pensieri e stati d’animo: “Quando vengono a visitarmi i parenti parlano di tutto, tranne di quello che interessa a me. Credono di farmi del bene, invece mi fanno venire solo rabbia”; “Piango tutte le notti…non posso credere che a 32 anni devo morire!”.
- L’accompagnamento nella ricerca dei perché: “Mi sono chiesto tante volte “perché proprio a me? C’è gente di 90 anni che chiede di morire e vegeta all’infinito. Io voglio vivere, ho due bambini piccoli, perché Dio mi castiga così?”.
- La riconciliazione con il passato: “Ho fatto tanti sbagli nella mia vita, spero di essere perdonato”; “Ho dentro di me un senso di rammarico per tante opportunità perdute e un grande dispiacere perché non ho più tempo per rimediare”.
- L’ascolto dei sogni interrotti: “Ho studiato tanto per diventare architetto, ora questa malattia mi ruba il futuro”; “Sono fidanzata da sette anni, avevamo intenzione di sposarci in ottobre…Con le mie condizioni, non credo che si farà niente”.
- L’opportunità di dire addio: “Prima di chiudere gli occhi per sempre, vorrei rivedere mio figlia che vive in Brasile”; “Ho un figlio in carcere, vorrei chiedergli scusa se non sono stata una brava mamma”.
La cura spirituale nel contesto della cura globale
Chi ascolta le voci, i lamenti e le confidenze dei morenti è chiamato a discernere i modi più opportuni di porsi, per offrire comprensione e consolazione.
L’arte del prendersi cura della salute spirituale delle diverse persone (credenti, praticanti e non, atei..), si esprime a tre livelli: conforto umano, spirituale e religioso
Il conforto umano si basa sulla relazione e sulla comunicazione verbale e gestuale indirizzata a quanti non aderiscono ad una specifica tradizione di fede né manifestano interesse per forme di spiritualità che aprono al trascendente. Si onora la persona offrendo il dono della propria presenza, anche silenziosa, rispettandone i desideri, rendendosi disponibile al dialogo su temi di interesse dell’interlocutore.
Il conforto spirituale
L`orizzonte spirituale abbraccia un ventaglio di vissuti che includono la riflessione e la rappacificazione con il passato, l’ambito fondamentale delle relazioni (la relazione con Dio e/o con il trascendente, la relazione con il prossimo, la relazione con se stessi, la relazione con il creato), la ricerca di significato del patire e dello sperare, l’apertura al mistero, l’atteggiamento di gratitudine verso quanto ricevuto, l’esperienza di perdono, la riconciliazione con la propria impotenza e fragilità, la capacità di sorridere, l’esperienza di preghiera, la testimonianza di valori e virtù nel tempo della malattia, il mosaico delle proprie credenze e speranze.
La migliore medicina, nei momenti bui dell’esistenza, è la presenza di persone che consolano, come sottolinea W. Shakespeare: “Quando nel dolore si hanno compagni che lo condividono, l’animo può superare molte sofferenze”.
Il conforto religioso: per molti il confine tra lo spirituale e il religioso è ben definito, per altri i due orizzonti si intrecciano.
Per quanti appartengono a diverse tradizioni religiose (Cristianesimo, Ebraismo, Induismo, Islamismo, Buddismo…) il poter attingere al proprio bagaglio di fede fatto di credenze, simboli, preghiere, forme di culto, letture di libri sacri, senso di appartenenza ad una comunità rappresenta una risorsa significativa e consolante.
Nella tradizione cattolica un posto di rilievo nel conforto religioso dei malati e morenti rivestono la preghiera e i tre sacramenti: l’Eucaristia e il Viatico, il sacramento della Riconciliazione e l’Unzione dei malati.
In sintesi, la vicinanza e sensibilità di operatori sanitari, volontari e agenti pastorali, vestiti di umiltà e umanità, che sanno porsi con discrezione e delicatezza al capezzale di chi sta scrivendo l’ultimo capitolo della vita, può favorire che il tramonto si trasformi in un viaggio interiore, ricco di fecondità umana e spirituale.
[1] AA.VV., Presenza nella sofferenza, Ed. Camilliane, Torino 1987, p. 105 – 106.
L’autore
Prof. Arnaldo Pangrazzi, Professore Straordinario e Docente di Pastorale sanitaria e di Clinical Pastoral Education (CPE) presso l’Istituto Internazionale di Teologia Pastorale -Camillianum – di Roma