Prospettive religiose davanti al problema del dolore e del morire
di Arnaldo Pangrazzi
L’impatto con una malattia grave o l’approssimarsi della fine non è solo un “disagio” organico o biologico, ma un travaglio che attraversa i pensieri, i sentimenti e il credo delle persone. Il dolore, specie se intenso e prolungato, è un momento di “crisi spirituale”. L’uomo nel suo patire si interroga: “Perché” e “Fino a quando?”.E’ chiaro che non si possono placare le paure, i bisogni e le domande dei sofferenti solo ricorrendo all’aiuto della scienza e della tecnica, ignorando la complessità della persona.Il compito di lottare contro il dolore evitabile e di mitigare quello inevitabile invoca l’arte di prendersi cura della persona nella globalità delle sue dimensioni onorando non solo l’intervento medico e tecnico, ma prestando attenzione ai risvolti umani, etici e religiosi di chi soffre. Un aspetto particolare della cura riguarda l’attenzione spirituale, nel contesto del pluralismo culturale e religioso che caratterizza la società odierna.
Il dolore nelle religioni
Da sempre le religioni1 hanno privilegiato l’attenzione ai “perché” del dolore, al suo messaggio e alle sue funzioni, più che non alla sua cura, che è uno spazio privilegiato della medicina.L’esperienza della sofferenza tocca il mistero dell’uomo, ma tocca anche il mistero di Dio.Ce lo ricorda da vicino il dramma di Giobbe, uomo giusto colpito da un’infinità di dolori che lo portano a mettere Dio sul banco degli imputati; ce lo conferma più drammaticamente Gesù nel suo patire le notti più oscure: la morte corporale e la notte della fede. Nel suo grido: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” alberga il lacerante gemito del dolore umano e l’immensa sensazione del silenzio di Dio.La preoccupazione costante delle religioni è la salvezza dell’uomo, che si realizza attraverso la sofferenza; la sfida quindi è di trovare un senso al dolore, decodificandone il messaggio e proponendo atteggiamenti e comportamenti costruttivi nei suoi confronti.Le diverse tradizioni religiose hanno letto il dolore come un appello all’uomo a rendersi consapevole di alcune verità ineludibili, quali:la condizione di limite e precarietà del corpo;la transitorietà della vita;la consapevolezza della creaturalità e della dipendenza da Dio;la caduta dell’illusione di immortalità;il legame con e la dipendenza dagli altri;la necessità di una più profonda visione di sé e della vita;una via necessaria per passare a forme di vita diverse o più elevate;un invito a praticare le virtù (es. coraggio, pazienza, compassione, fede, autocontrollo, perseveranza…);un luogo di significato e di speranza;un appello all’essenzialità e all’autenticità. Illustriamo con rapide pennellate la prospettiva delle grandi religioni sul tema del dolore e del morire, considerati nell’ottica più vasta di un’esperienza dell’homo viator verso il suo destino.
Prospettiva Islamica
La fede Islamica si basa sul convincimento che la vita fa parte del piano dì Dio, per cui il dovere di ogni uomo è di accettarla completamente, anche nelle sofferenze, adattandosi alla volontà divina. Al cuore dell’Islam c’è la sottomissione assoluta alla volontà di Allah, conosciuta attraverso la lettura del Corano. Il dolore e la morte sono inseriti nel piano provvidenziale di Allah che il credente è chiamato ad accettare, anche se non ne comprende il perché. Anche dinanzi al dolore innocente l’invito è di porre la fiducia in Dio “misericordioso e compassionevole”. La virtù che ogni mussulmano è chiamato a coltivare nelle avversità è la pazienza. La sofferenza è vista, talvolta, come occasione di espiazione dei peccati e delle colpe o come prova per prepararsi alla ricompensa futura. Per coloro che nella vita presente sono stati fedeli, la morte apre la strada all’incontro eterno con Dio nella vita futura. Nell’Islam la cura del corpo è funzionale alla cura dello spirito, per cui la fede in Dio è preferibile alla guarigione fisica.
Prospettiva Induista Al cuore della religione induista c’è la legge di causa ed effetto del Karma, per cui ogni persona è artefice del proprio destino attraverso i suoi pensieri, parole ed azioni. In pratica, il presente è il frutto del proprio passato e il futuro è il risultato di ciò che si è seminato nel presente. Nell’induismo la malattia e il dolore sono la conseguenza di azioni cattive compiute nella vita precedente, che possono essere rettificate attraverso un comportamento responsabile nel presente, per cambiare il proprio futuro. A seconda del comportamento assunto, l’anima si può incarnare in un essere superiore o inferiore in un ciclo di nascite e rinascite il cui fine ultimo è la liberazione dal bisogno di trasmigrazioni. In questa visione la malattia e il dolore sono visti come mezzi di purificazione per promuovere la crescita morale e spirituale e favorire un’evoluzione positiva del Karma. L’induista non considera tragica la morte perché non è definitiva, è una transizione in un altro essere vivente, finché non sono state apprese le lezioni della vita. “Per un indù è auspicabile affrontare la morte in uno stato cosciente e lucido, rifiutando perfino un eccesso di somministrazione di droghe che annebbiano e offuscano la mente”2.
Prospettiva Buddista
Il testo fondante del buddismo è il discorso pronunciato da Buddha, dopo aver conseguito il risveglio ed aver ricevuto da due divinità il pressante invito a trasmettere il suo insegnamento, per aiutare gli uomini a liberarsi dallo stato dì sofferenza in cui vivevano. La centralità del tema del dolore nel Buddhismo è espressa nelle quattro nobili verità che illustrano;1. la natura della sofferenza;2. la causa della sofferenza;3. le condizioni per eliminare la sofferenza;4. il cammino di realizzazione per superare la sofferenza.
Le quattro nobili verità
“O monaci, la nascita è sofferenza, la vecchiaia è sofferenza, la malattia è sofferenza, la morte è sofferenza, la presenza di ciò che si odia è sofferenza, la separazione da chi si ama è sofferenza, l’insuccesso nel conseguire quanto si desidera è sofferenza. In breve, l’attaccamento a ogni apparenza fisica o mentale che ci circonda è sofferenza. Questa è la nobile verità relativa alla sofferenza.
“O monaci, origine della sofferenza è la brama di piaceri fisici, di esistenza, di non esistenza che conduce alla rinascita nel ciclo della trasmigrazione e si accompagna alla concupiscenza e alla costante ricerca del piacere. Questa è la nobile verità relativa all’origine della sofferenza.
“O monaci, la mèta ideale è la totale eliminazione e l’abbandono di questa brama e la liberazione da tutti gli attaccamenti. Questa è la nobile verità relativa all’eliminazione della sofferenza.
“O monaci, la via per raggiungere questo ideale è seguire l’Ottuplice Sentiero: retta visione, retto pensiero, retta parola, retta azione, retto sostentamento, retto sforzo, retta attenzione, retta meditazione. Questa è la nobile verità relativa ai mezzi con i quali viene eliminata la sofferenza”3.
Anche il buddhismo, come l’induismo, gravita attorno alla legge inevitabile del Karma: ogni azione compiuta ha una sua conseguenza, positiva o negativa, in questa vita e nell’esistenza successiva. C’è un cammino di espiazione e di purificazione da fare, che si realizza attraverso il superamento dei desideri, la pratica della meditazione e la compassione. Il buddhismo invita ad accettare in modo dignitoso la sofferenza e a prepararsi bene alla morte, momento chiave della vita, per favorire una buona rinascita, dato che l’esistenza è fortemente condizionata dal momento del trapasso.
La prospettiva cattolica
Nella visione cristiana, il Dio della gioia è anche il Dio del dolore, e la risposta ultima alla speranza è la croce di Cristo; come scrive Paul Claudel: “Dio non è venuto a sopprimere la sofferenza, non è venuto nemmeno a spiegarla. È venuto per colmarla con la sua presenza”. Nella sua matrice fondamentale l’etica cristiana ha evitato due concezioni estreme: da una parte, quella di evitare ad ogni costo il dolore, dall’altra, quella di glorificare il dolore come qualcosa di per sé stesso positivo. Nella Chiesa ci sono stati movimenti, anche se interpretati da frange limitate di aderenti, che hanno esaltato il dolore come strumento di santificazione. Si tratta di una “deformazione religiosa” che ha portato a idolatrare il dolore in sé (il cosi detto “dolorismo”), staccandolo dalla matrice essenziale dell’amore. In linea di massima, però, la tradizione cristiana ha sempre sottolineato che la sofferenza in sé non è salvifica, ma è la grazia che produce o l’amore con cui la si vive che la rende salvifica. Il dolore, specie se acuto o cronico, può disumanizzare la persona debilitandone le facoltà mentali, ostacolandone la vita di preghiera, interferendo con le sue relazioni, rendendo più difficile la vita di fede. Per impedire al dolore di impadronirsi dell’esistenza, mortificando la vitalità della persona, o di diventare il dio attorno a cui gravita ogni attenzione, la Chiesa, da decenni, è in prima linea nel promuovere il sollievo della sofferenza attraverso l’uso appropriato di analgesici4. Il “prendersi cura” di chi soffre o del morente comporta l’impegno ad alleviarne le sofferenze fisiche, ma anche quello di rispondere alle sue esigenze psicologiche, sociali e spirituali. Molte volte le sofferenze “aggravano lo stato di debolezza e di esaurimento fisico, ostacolano lo slancio dell’anima e logorano le forze morali invece di sostenerle. Invece la soppressione del dolore procura una distensione organica e psichica, facilita la preghiera e rende possibile un più generoso dono di sé”5. Anche i diversi interventi in materia del beato Giovanni Paolo II, come pure i documenti di diverse conferenze episcopali, sottolineano l’importanza di accompagnare i morenti con umanità e competenza6. Il morire nella prospettiva religiosa.
L’incontro con la morte è, forse, la più importante sfida dell’esistenza: è l’occasione per portare a termine la propria missione facendo una sintesi della vita, sperimentando la comunicazione aperta con persone care, riconciliandosi con Dio, sé stessi e gli altri, preparandosi a dire addio e affidandosi alle diverse speranze che abitano la persona. Per alcuni, queste sono legate ai buoni ricordi che uno lascia, per altri agli affetti che rimangono, per altri ancora alla fede in un aldilà e all’incontro con Dio e con i propri cari. L’approssimarsi della morte può aiutare chi ha fede a trovare conforto nelle risorse spirituali rappresentate dai testi sacri della propria tradizione, dalla meditazione e dalla preghiera, dal sostegno della comunità o di figure religiose, dai rituali o dai sacramenti. L’uomo, dinanzi allo sgretolarsi della sua esistenza, ha soprattutto bisogno di vicinanza umana, ma coltiva anche la visione e la speranza che la morte non sia un destino, ma un passaggio che lo guida ad un destino:
Al termine della strada
“Al termine della strada, non c’è la strada, ma il traguardo.
Al termine della scalata, non c’è la scalata, ma la vetta.
Al termine della notte, non c’è la notte, ma l’aurora.
Al termine della disperazione, non c’è la disperazione,ma la speranza.
Al termine della morte, non c’è la morte, ma la vita.
Al termine dell’umanità, non c’è l’uomo, ma Dio”.
(Joseph Folliet)
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1 A. Pangrazzi “Prospettive religiose dinanzi al problema del dolore” in (A cura di Domenico Gioffrè) Il dolore non necessario, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p.136-146
2 AA.VV., Swamini Hamsananda Giri in “Salute, malattia e morte nelle grandi religioni”, Ed. Camilliane, Torino 2002, p. 115.
3 da “I concetti fondamentali del buddhismo”, di K. Mizuno, Cittadella Editrice, Assisi.
4 Cf. Pio Xll, a un’Assemblea internazionale di medici e chirurghi, 24 febbraio 1957, in AAS 49 (1957)
5 Ibidem, 144.
6 Dichiarazioni di Giovanni Paolo II (Veritatis Splendor n. 80; Evangelium Vitae, n. 64-67, Salvifici Doloris). Documenti episcopali: Conferenza Episcopale Tedesca, “Dichiarazione sull’accompagnamento dei malati gravi e dei morenti” 1991; Consiglio Permanente della Conferenza dei Vescovi di Francia, “Rispettare l’uomo prossimo alla morte”, 1991, i vescovi del Belgio, “L’accompagnamento dei malati all’avvicinarsi della morte”, 1994; Conferenza Episcopale della Scandinavia, “Prendersi cura della vita, lettera pastorale dei vescovi nordici sulla cura nella fase finale della vita”, 2002; Vescovi svizzeri, “La dignità del morente”, 2002.
L’autore
Prof. Arnaldo Pangrazzi, Professore Straordinario e Docente di Pastorale sanitaria e di Clinical Pastoral Education (CPE) presso l’Istituto Internazionale di Teologia Pastorale -Camillianum – di Roma