SUL TERRORE DELLA MORTE

di Giovanni Sgrò

“Dalla morte, dal timore della morte prende
inizio e si eleva ogni conoscenza circa il Tutto”
(Franz Rosenzweig, La Stella della Redenzione)

LA PAURA DELLA MORTE
La riflessione dell’uomo sulla paura della propria morte e della morte in sé ha origini immemorabili.
Si può congetturare che sia antica quanto la scoperta della coscienza stessa, talmente stretto è il
legame che connette l’una all’altra. Per secoli, intere epoche dell’epopea umana, ha animato le storie
dei miti, le rappresentazioni tragiche, i trattati filosofici, le pagine vergate da asceti e poeti di ogni
luogo. In decenni a noi più prossimi è diventata oggetto d’indagine “scientifica”, quale fattore nella
evoluzione culturale e psicologica dell’individuo, come della specie umana.
Avere premura circa la disposizione dell’animo umano verso ciò che è tanto insondabile quanto
inevitabile sembra pertanto essere caratteristica non trascurabile sulla strada che conduce alla piena
consapevolezza, all’integrazione mentale e spirituale. Se il concetto della morte è tale, quindi
soltanto un’incognita che può essere specificata con livelli di astrazione più o meno sofisticati, la
paura della morte nostra e della morte di chi ci sta a cuore è un’esperienza personale e viscerale. Il
confrontarla necessita la disponibilità a varcare le profondità della psiche e dell’essenza stessa che ci
fa uomini. Trasformarla e sublimarla necessita invece di coraggio e fede, tracce su un cammino che
rifugge, per forza di cose, dall’analisi tecnica e dalla speculazione filosofica, e che invita piuttosto il
silenzio ed il mistero.

LA PSICOLOGIA ESISTENZIALISTA
Alla fine della prima metà del secolo scorso, teatro di epidemie, guerre, genocidi, il tema della
paura della morte proruppe nelle elaborazioni della relativamente giovane disciplina delle
psicoterapia. In quel contesto storico il terreno fu fertile allo sviluppo di una serie di contributi, tutti
accomunati da una visione di fondo che si allontanava da quella dell’uomo neurotico che aveva
condizionato il campo della psicologia da Freud in poi. Se la preoccupazione principale della
disciplina psicologica fino ad allora era stato il represso, l’isteria, le pulsioni (su tutte, sessuali)
inconsce, già a partire da Otto Rank, allievo e contemporaneo a Freud, lo sguardo si sposta verso un
malessere che più che sintomo di particolari condizioni patologiche sembrava affliggere in maniera
generale il carattere dei pazienti.
Fu allora che quella che venne definita ansia o angoscia iniziò ad occupare uno spazio di rilievo
nelle pubblicazioni e durante i convegni dell’epoca. Riscoprendo intuizioni di filosofi quali
Kierkegaard e Schopenauer, i terapisti affrontano disagi che narrano di crisi esistenziali, incapacità
di provare emozioni, dolorosa ricerca di senso della vita. Emerge la necessità di costruire strutture
psicologiche che possano sorreggere con consapevolezza lo spaesamento dei pazienti dinnazi alla
spaventosa possibilità di annichilimento che la morte rappresenta, fosse essa incombente sotto la
minaccia del disastro nucleare o, ugualmente terribile, fantasticata distante alla fine della vita.
Fu Rollo May a fornire una riflessione penetrante su un paradosso all’apparenza inesplicabile
rispetto al rapporto dell’uomo con la morte: quanto essere pienamente consapevoli della morte porti
con sé un’accentuata capacità di amore e compassione e, d’inverso, come fare esperienza di amore
profondo intensifichi la nostra percezione della morte. Abbandonarsi all’amore richiede d’essere
disponibili ad un annichilimento del proprio sé precedente ed a mettere la propria individualità a
servizio di un’unione con l’amato che soppianta il mondo come lo conoscevamo. Tale esperienza è
resa quanto mai vivida, e forse possibile solamente, dalla minaccia che la morte possa interromperla
in men che non si dica.
Maslow, psicologo umanista, si chiedeva se fosse possibile per gli uomini amare con passione e fare
esperienza d’estasi se questi sapessero per certo che la morte li rispiarmerà. Gli amori fra le divinità
dell’Olimpo greco sono futili e insipidi, ricorda similmente May: essi acquistano significato e
potenza solamente quando incrociano le sorti di un mortale. Amore e morte sono pertanto intrecciati
da trame fittissime, e non soltanto collegati in maniera “idraulica” come Freud aveva proposto,
laddove la soddisfazione dell’istinto sessuale tramite la copulazione lascia un vuoto che l’istinto di
morte va a colmare.
Appare evidente allora che l’ossessione con la sessualità, l’ubiquità della stessa nel contesto sociale
contemporaneo, siano in realtà un maldestro tentativo di placare l’ansia che l’uomo tecnologico,
potente e secolare non riesce a confrontare: l’ansia della morte. Ossessione con il sesso diventa
allora repressione dell’ansia di morte. A parere di May, l’ansia, fra cui quella della morte è prototipo
di tutte le altre, sottintende la maggior parte delle problematiche sia individuali che a livello di
società. Quand’essa è repressa, occultata, resa impersonale, si tramuta quasi sempre in apatia,
insensibilità, mancanza di motivazione: quando poi l’apatia viene lasciata crescere inascoltata,
inevitabilmente sfocia in violenza e distruzione. D’altro canto, l’ansia della morte può invece
rappresentare un invito alla creatività ed al coraggio, in quanto è nell’integrazione ad un livello
sempre superiore di coscienza che l’uomo trova la sua ragion d’essere: in difetto di sofferenza ed
ansia, tale processo creativo ed integrativo non potrebbe avere luogo.
All’inizio della sua carriera accademica May contrasse la tubercolosi, un’infezione che allora
lasciava ben poche speranze di sopravviverle: la malattia lo costrinse per quasi due anni in un
sanatorio dove assistette alla morte di molti altri pazienti e dove lui, con la sua fine quanto mai
probabile e vicina, fece esperienza intima di ciò che, da lì in poi, divenne il nucleo principale della
sua visione filosofica.
Il contributo di Viktor Frankl all’approccio psicologico esistenzialista fu il prodotto di incontri con
la morte ancora più straordinari. Deportato nei campi di concentramento nazisti assieme ai genitori,
la moglie ed il fratello, unico ad uscirne vivo, soffrì oltre alle atrocità inenarrabili dei lager anche la
virulenza quasi letale del tifo che lo colpì durante la lunga prigionia. In quelle circostanze, in quei
luoghi, su frammenti di carta racimolati come poteva, Frankl elaborò una visione dell’uomo e della
vita che si fondava su una convinzione: che il significato ultimo, il logos dell’esistenza, fosse assai
più profondo delle leggi della logica. Frankl osserva che ciò che è richiesto ad un uomo non è di
resistere sotto al peso straziante di un’esistenza senza significato, bensì di accettare la propria
incapacità di cogliere con gli strumenti della razionalità la siginificanza incondizionata della vita in
ogni suo istante. In contrapposizione alla psicologia “profonda” di Freud, Frankl definisce una
psicologia “alta”, all’interno della quale il principio di volontà-di-significato agisce da motore
primario, e dove valori e significati sono molto più che potenziali “meccanismi di difesa”, se è vero
che per essi una vita può anche essere sacrificata.
La frustrazione esistenziale sorge quando la volontà di significato è decrepita, ed è allora che
l’intento di una terapia dovrebbe essere assistere la ricerca di senso esistenziale, anzichè
concentrarsi sulla gratificazione di forze istintuali o verso l’adattamento funzionale nell’ambiente di
riferimento. La morte, assieme alla sofferenza ed al senso di colpa, può apparire come una minaccia
all’impresa di onorare il significato della vita; in realtà, la transitorietà di cui facciamo esperienza è
legata alle potenzialità che ogni momento, ogni decisione ci offre davanti agli occhi: ma
ogniqualvolta un’opportunità di valore è colta, un atto significativo di volontà reso attuale, esso è
necessariamente immortalato, custodito in quello che diventa passato, dove mai potrà essere perso o
modificato. Nel granaio del passato è conservato tutto il raccolto di una vita, le imprese compiute, le
persone amate, i dolori affrontati con dignità e coraggio: neanche la morte può intaccarlo.

IL RIFIUTO DELLA MORTE
“Diventare consci di tutto quello in cui ci si adopera per potersi guadagnare la sensazione di essere
eroi, è questo il principale problema di auto-analisi della vita” scriveva l’antropologo culturale
Ernest Becker nel 1972, due anni prima della sua morte per cancro all’età di 49 anni. E
nell’accezione intesa da Becker, l’eroismo è precipuamente un riflesso del nostro terrore della morte.
La società, ai suoi occhi, non è che una rete di azioni simboliche, dove valori, identità, ranghi,
consuetudini e comportamenti rappresentano veicoli all’eroismo individuale. Un sistema codificato
di eroismi, un mito vivente e vissuto che esprime il significato della vita, ne crea il senso. In ogni
mito, l’eroe sfida l’oscurità e l’ignoto, accede all’aldilà per ritornare nell’aldiquà, vivificato. Quello
che l’uomo-eroe ricerca nell’aldilà sono il proprio valore, la sua rilevanza cosmica, il suo posto
nell’universo delle cose, la sua funzione ultima: ciò che, più aridamente, verrà poi definita
autostima.
L’uomo da sempre è incagliato nel paradosso esistenziale della sua “individualità nella finitudine”:
egli si pone al di fuori del mondo naturale ed ugualmente ne è vittima designata, è creatore di miti e
simboli ma rimane cibo per vermi, egli ha un nome, una storia, ma allo stesso tempo annaspa in un
corpo fisico che milioni e milioni di anni fa era quello di un pesce. Tutto ciò che egli compie nella
sua realtà simbolica è un tentativo di negare e superare questo grottesco destino. Al confronto con la
maestosità sbalorditiva della creazione, con il miracolo stesso della vita, l’essere umano si scopre
incapace di sopportare il peso incommensurabile di tale meraviglia. Lo si scopre da bambini, la
meraviglia di tutte le cose, di ogni istante, rischia di distruggerci, allora impariamo presto a
minimizzare lo stupore, a difenderci dal terrore di vivere la totalità dell’esperienza, “abbandondare
l’estasi”. Paura della vita per paura della morte. Tale consapevolezza della morte rappresenta la
prima forma di repressione psicologica, prima ancora di qualsiasi impulso sessuale .
Riproponendo contributi dai lavori dello psicanalista austriaco Otto Rank, Becker caratterizza la
repressione della morte quale pietra angolare sulla quale la cultura si fonda, una repressione che è
quanto di più unicamente umano si possa concepire, nel senso che è fondante della specie umana, e
ne è parimenti tratto esclusivo fra tutte le creature. La domanda centrale, secondo Becker, diventa
allora: a quale livello di illusione vivere? Quale, fra tutte le illusioni costruite per proteggerci dalla
paura terribile, è la migliore? L’idiozia più legittima? D’altronde, il peso esistenziale che
l’evoluzione ha scaricato sull’uomo quando egli ha preso coscienza della propria natura è il prezzo
da pagare per la continua espansione umana verso i margini del progesso e della consapevolezza.
Sebbene la psicologia tenti di individuare la causa del malessere personale all’interno della
dimensione dell’individualità, semmai in relazione con la comunità, invero la ragione ultima del
senso di disagio, colpa ed inferiorità con cui l’uomo si affligge va ricercata nel tentativo di questo
“animale simbolico” di trovare un spazio sicuro nella natura brutale e terrificante che egli abita.

LA GESTIONE DEL TERRORE
Circa un decennio dopo la pubblicazione del seminale lavoro di Becker sul rifiuto della morte, tre
ricercatori americani svillupano quella che coniarono col nome di terror management theory. In
essa le idee di Becker sono sviluppate in un’ottica psicologica e socio-evolutiva, con l’intento di
fornire un’interpretazione costruita sull’evidenza empirica di una serie piuttosto vasta di attitudini e
comportamenti. Secondo la TMT, il terrore è la naturale risposta adattiva all’imminente minaccia
che la morte rappresenta.
Quando, con lo sviluppo progressivo delle capacità cerebrali, l’essere umano è giunto ad avere un
senso di sé ed un senso della temporalità (passato-presente-futuro), egli ha iniziato a percepire la
minaccia mortale anche quando essa non fosse imminente. Il terrore si cronicizza. In modo da
gestirlo, l’ingegno darwinista dell’essere umano ha nel tempo utilizzato e raffinato due strumenti: il
primo è quello di abbracciare una visione culturale universale, il secondo è l’esperienza di
autostima. È quest’ultima a svilupparsi per prima, quando, infanti, iniziamo a esperire la
connessione che esiste tra la cura che riceviamo dai genitori e la nostra capacità di agire in modo da
non arrecare danno al nostro benessere: impariamo un po’ per volta a seguire delle regole basilari,
ad adeguarci sempre più alle richieste dell’ambiente, in quanto da esso dipendiamo per la nostra
sopravvivenza. Col passare del tempo e dello sviluppo psicologico, comprendiamo come alcuni
segnali della realtà intorno a noi tendano a rafforzare concetti quali l’ammirabile, il giusto, il buono,
in opposizione ad altri segnali che invece sembrano caratterizzare il deplorevole, l’ingiusto, il
cattivo: in questa dicotomia sperimentiamo la prima forma di visione del mondo.
Ciò che ricerchiamo continuamente è la sensazione di essere partecipi e meritevoli all’interno di un
universo significativo. Adoperiamo l’autostima a livello fisiologico, come rimedio allo stress, ed a
livello simbolico, come protezione dal terrore originario, quello della morte. Dal punto di vista di
evoluzione della specie, la manifestazione della consapevolezza circa la nostra finitudine avrebbe
potuto rappresentare una barriera insormontabile per la specie umana, se non fosse intervenuta
l’innata tendenza all’adattamento che ci caratterizza e che è responsabile della creazione di miti,
religioni, pratiche ritualistiche e spirituali: hanno tutti in comune la funzione di tenere a freno il
terrrore, rafforzando l’illusione che l’uomo possa esercitare controllo sui fenomeni cosmici.
Questi rimedi al terrore della morte condividono un sostrato che la TMT individua nel bisogno di
immortalità, sia essa intesa in maniera letterale, come nella creazione di teorie sulla vita dopo la
morte, l’anima, ed anche la ricerca di elisir, antichi e moderni, per l’eterna giovinezza, sia invece
un’immortalità simbolica, cioè il lascito in senso lato alla nostra progenie ed il ricordo che i posteri
custodiranno di noi. Tutta la storia dell’uomo può essere descritta come una successione di ideologie
sull’immortalità. A livello individuale invece, l’ideologia può essere immaginata come il tetto sotto
cui prendiamo riparo durante una tempesta. L’analogia che gli autori della TMT propongono è
appunto quella di una casa, che rappresenta la nostra sicurezza psicologica: il tetto è formato da
quelle che vengono definite difese “distali” (a livello più inconscio); eventuali crepe nel tetto ci
costringono a rimedi più o meno efficaci, come secchielli posizionati a catturare le perdite d’acqua,
tali sono le cosidette difese “prossimali”, e cioè i tentativi di razionalizzare a livello conscio una
protezione contro l’impeto della tempesta di pioggia, il terrore della morte.
Nella prospettiva della TMT esistono due opzioni per co-esistere al meglio con l’angoscia della fine:
la prima opzione è aumentare sempre più la nostra consapevolezza, rendere conscio l’inconscio, fare
luce sulle parti più recondite della nostra personalità, integrare ciò che è occultato. La seconda
opzione è consolidare la nostra necessità di trascendere la morte attraverso ideologie e stili di vita
che non siano distruttivi e che tengano in considerazione la comunione alla quale tutti gli esseri
viventi partecipano.

EDUCARE ALLA MORTE
Una contraddizione di fondo emerge nella visione del mondo che sott’intende lo schema concettuale
della TMT: se le cosidette ideologie di immortalità sono illusioni create dalla mente umana per
occultare la paura della morte, come può l’essere umano vedere attraverso il velo dell’illusione e,
nonostante ciò, credere all’illusione? Sarebbe come mantenere la meraviglia di fronte ad un mago
malaccorto, o come riporre fiducia nelle proprietà di cura di un farmaco pur sapendo trattarsi di un
placebo. Come possono spiritualità e religione placare l’angoscia esistenziale, ora che l’uomo è
divenuto consapevole di come esse non siano altro che menzogne, neanche più disponibili dentro
alla teca di vetro, da rompere nei momenti di panico? Cosa ne è allora della loro potenza in chiave
evolutiva? Ben poco, verrebbe da concludere. Ed in effetti, se l’uomo moderno sente pressante il
problema della gestione del terrore della morte, molto lo si deve al processo di dissoluzione
dell’elemento religioso in atto da ormai diverse generazioni.
Come Viktor Frankl ha spiegato, all’inizio della sua storia l’uomo ha rinunciato alla guida degli
istinti, si è differenziato per sempre dal regno animale, avventurandosi nella vastità della
conoscenza. Più recentemente, l’uomo ha subito un’altra rinuncia parimenti decisiva, la rinuncia alla
tradizione, principalmente ma non solo la tradizione religiosa, striminzita sempre più dalla foga del
progresso. Così, l’uomo non ha più l’istinto ad indicargli cosa fare, né la tradizione ad indicargli
cosa è giusto fare. A volte neanche sa più cosa vorrebbe fare, allora finisce a conformarsi e
sottomettersi. In una tale vacuità esistenziale, la morte e la paura ad essa associata vengono
scongiurate in dozzine di modi diversi. Da decenni, la morte viene segnatamente presentata come
spettacolare dalle industrie dell’intrattenimento; l’evanescenza ed anonimicità del modo di
relazionarsi col mondo dell’uomo tecnologico hanno reso la morte sempre più impersonale; la
medicina, nel suo continuo espandersi e parcellizzarsi, l’ha ridotta a contingenza statistica; la
psicologia ha considerato il senso di morte come un disadattamento fra i tanti.
Sono tutti effetti di una progressiva profanazione del morire, per utilizzare un’espressione designata
dalla psicologa Ines Testoni. L’etimilogia latina del termine sacro, spiega Testoni, riporta ad un
qualcosa che appartiene alla dimensione divina, in contrasto a ciò che invece era associato allo
spazio sociale, quindi pubblico. Quello che invece afferiva alla sfera strettamente privata era
definito profano. In origine, ciò che era sacro doveva essere reso tale, quindi sacri-ficato, attraverso
rituali arcani e cruenti, che nell’epoca imperiale romana vennero in qualche modo semplificati e
canonizzati, per esigenze di pragmatismo e buon governo delle assai diverse tradizioni sacre
coabitanti sul vasto territorio amministrato da Roma.
In quest’ottica, la funzione della religione fu quella d’incardinare l’esperienza del sacro su un piano
codificato e accessibile, e pertanto atto a promuovere effetti sulla morale collettiva e sulla sfera
pubblica. Col progressivo affievolimento nel mondo moderno del messaggio religioso, si assiste
all’inabissarsi di tale funzione sociale della fede, in particolare nel contesto della sofferenza e nel
morire, esperienze inesorabilmente consegnate all’isolamento nello spazio angusto vigilato dalla
tecnica medica.
In questo senso la morte è profanata, cioè relegata al privato, estirpata dal tessuto della comunità.
Ecco che allora nasce un’esigenza nuova, quella di ridisegnare nella società secolare e tecnologica
percorsi attraverso i quali poter dare rilevanza sociale alla riflessione sul significato del morire e
sulle implicazioni che possono derivare da una più o meno consapevole rimozione collettiva
dell’angoscia di mortalità.
Con death education si vuole descrivere un compendio assai variegato di attività ed intereventi volti
a creare e fortificare la comprensione profonda di tutti i processi legati al morire, siano essi
psicologici, fisiologici o sociali, così come delle modalità per affrontare la malattia, la perdita ed il
lutto. Pur servendosi di strumenti legati alle scienze pedagogiche e psicologiche, e pur agendo in
stretta collaborazione con la professione sanitaria, l’approccio di death education dovrebbe garantire
risalto alle elaborazioni di natura esistenziale e spirituale, nella piena accettazione che l’enigma
sconcertante della mortalità non può essere sciolto dal linguaggio tecnico, né rivelato per decreto
dalla dottrina religiosa: esso richiede di essere contemplato, esperito in tutta la sua contraddizione,
trasformato in strumento di redenzione.

L’ESSERE NUMINOSO
Scrive Ernerst Becker in chiusura alla sua opera The Denial of Death:
“C’è un impeto dietro questo mistero che non possiamo comprendere, ed include molto più che la
sola razionalità. L’urgenza all’eroismo cosmico allora, è sacra e misteriosa e non dovrebbe essere
categorizzata e razionalizzata dalla scienza e dal secolarismo. Dopotutto la scienza è un credo che
ha tentato di assorbire al suo interno e di negare la paura della vita e della morte; diventa soltanto un
altro pretendente nella schiera per il ruolo di eroe cosmico”.
Poco prima nel libro, ancora riflettendo criticamente sull’approccio “scientista”, Becker afferma che
per prendere la vita davvero sul serio è necessario che tutto ciò che mettiamo in atto sia “fatto nella
verità vissuta del terrore della creazione e del grottesco, del rumore del panico che brontola da sotto
tutte le cose”.
Vivere è onorare l’insondabile che pulsa dentro ogni organismo, riconoscerne la natura più
misteriosa. Si può anche accreditare l’ipotesi che la coscienza, il linguaggio, l’identità siano il frutto
dell’evoluzione e delle strutture sociali che abitiamo: rimane inspiegabile però, anche in quest’ottica,
quali siano le forze insite a questa evoluzione, cosa è che ha spinto l’essere umano alla
consapevolezza del sé, quale energia sostenga la materia nel suo manifestarsi. Un’osservazione
degli organismi più elementari parrebbe suggerire che la vita lavori costantemente verso
l’espansione e verso il proprio perpetuarsi, non può far altro. Di fronte alla caducità dell’esistenza,
l’organismo anziché ritirarsi anela a più vita. Rimane comunque, a questo livello di comprensione,
impossibile accedere al significato ultimo della creazione.
Da questa incapacità di senso nasce la necessità all’eroismo cosmico illustrata da Becker e qui già in
precedenza accennata. Seguendo la scia della filosofia di Kierkegaard, è in questa ricerca di
significato esistenziale che si sostanzia l’eroismo cosmico e la vera libertà. Con questa missione
l’esistenza acquista un senso che trascende la valenza storica, culturale e sociale del vivere. Così,
l’essere umano stabilisce una connessione tra la sua dimensione più intima e sconosciuta ed il piano
stesso della creazione, anch’esso sconosciuto. Il mistero ineffabile che alberga nel cuore dell’uomo
acquista valore cosmico nella relazione con il mistero, altrettanto ineffabile, che si cela dietro la
creazione tutta.
Questa, per Kierkegaard, era la definizione di fede, che egli riconosceva come la più ardua delle
imprese.
Il filosofo danese, osserva Becker, non fu in grado di compiere il salto nel buio dal credo alla fede, e
d’altronde il salto non dipende dalla volontà umana: la fede è una questione di grazia. Otto Rank
indica qualcosa di simile: la salvezza per l’uomo può venire esclusivamente da ciò che sta oltre
l’individuo, il cerchio della creazione può essere riconciliato nell’abbandono della propria
individualità, nell’ammissione della propria impotenza dinnanzi all’angoscia del sentimento di
essere creatura.
Fu il teologo tedesco Rudolf Otto a presentare questa idea: tale è il sentimento “della creatura che
s’affonda nella propria nullità, che scompare al cospetto di ciò che sovrasta ogni creatura”.
L’elemento da rilevare rimane questo ciò, alla cui presenza l’individuo s’eclissa e di cui il sentimento
creaturale è soltanto un riflesso. Otto conia per esso il termine numinoso, il “completamente altro”
che per la sua assoluta alterità e inaccessibilità suscita terrore, sottomissione e fascinazione.
Che l’uomo possa percepire il numinoso dimostra come questo sia innato in lui, Otto lo definisce un
“momento conoscitivo a priori” e lo colloca alla base di qualsiasi esperienza religiosa, quale
elemento irrazionale che incontra la ragione e la moralità nella dimensione del sacro. Il paradosso è
grande: che l’essere umano riesca a riconoscere il totalmente altro e che da questo sconvolgimento
si produca in lui la “coscienza della esiguità” dinnanzi a ciò che lo soverchia. Si ritrova affine nelle
parole di Sant’Agostino, quando scriveva: “Cos’è che con la sua luce mi trapassa il cuore e lo
colpisce senza ferirlo? Da un lato ne sono agghiacciato, dall’altro infiammato: io gelo in quanto gli
sono dissimile e mi infiammo in quanto gli assomiglio”.
Nel sentimento di creaturalità generato dall’incontro col numinoso coesistono sbigottimento e
attrazione, terrore ed ebbrezza, in un processo di purificazione e sublimazione, secondo Otto, che
trasforma il brivido iniziale in un brivido mistico: lo sconcerto lascia spazio al rapimento dei sensi.
Le testimonianze dei mistici di ogni tempo e luogo sono impregnate di questa ambivalenza,
contraddizione. Il linguaggio che tenta di approssimarne una descrizione si muove tra l’ossimoro ed
il paradosso. Scriveva Giovanni della Croce:
“…un tocco di somma conoscenza della divinità, il non so che… : questo tocco non è continuo né
intenso, perché l’anima altrimenti si scioglierebbe dal corpo, ma passa, è breve, e così ella resta
moribonda d’amore, e più muore vedendo che non finisce di morire d’amore”
Il non so che è l’ineffabile, il terribile, la causa dell’annichilimento, è ciò che rivela la nostra
inconsistenza al suo cospetto. In egual misura esso è fonte di incommensurabile incanto. Ancora
nelle parole del mistico carmelitano:
“Per tutta la bellezza
Io mai mi perderò
Ma per un non so che
Che si trova per ventura.”
Nell’esperienza del non-so-che di Giovanni della Croce, l’assoluta creaturalità schiude l’Assoluto, la
notte buia dell’anima è incontro con la luce, la morte è vita. Non vi può essere modalità di accedervi
per mezzo del linguaggio e del ragionamento. Solo in una dimensione dove tempo e spazio sono
dissolti, e pertanto la logica diviene inutile, può un siffatto miracolo accadere.
Che il terrore mortale verso ciò che ci sovrasta possa essere invero la testimonianza della nostra
immortalità rimane incomprensibile. D’altronde, osserva il mistico tedesco Teerstegen, “Un Dio
compreso, non è piu Dio”. Un’ulteriore considerazione emerge evidente: che l’incontro con il
terrificante non-so-che non possa essere sostenuto dall’essere umano per più di un lampo di tempo,
troppo enorme l’orrore, troppo reale l’abisso. Bisogna allora chiedersi cosa ne sia del sentimento di
essere creatura generato dall’incontro col numinoso. Esiste la possibilità di affermare la propria
esistenza dinnanzi alla consapevolezza della nullità della creatura?
È la domanda alla quale il teologo Paul Tillich ha provato a dar risposta. La minaccia del nonessere,
per usare la terminologia di Tillich, rappresenta ciò che consente all’essere di manifestarsi
pienamente: senza l’opposizione del non-essere, l’essere non sarebbe in grado di crescere. Il nonessere
attenta all’essere sul piano ontologico, sul piano spirituale e su quello morale. La
consapevolezza di questa triplice minaccia costituisce l’angoscia, quest’anche triplice nelle sue
manifestazioni, e fra di esse l’angoscia della morte è quella che determina la natura ansiogena di
ogni paura.
L’essere umano cerca invano di oggettivizzare l’angoscia in una serie di paure definibili e
affrontabili, per giungere invece alla conclusione che essa è parte essenziale della condizione umana
in sé e da essa è indistinguibile. Il caso limite è lo stato della disperazione, quando tutto sembra
perduto, finanche la speranza stessa. Nella disperazione, il non-essere è percepito come assoluto
vincitore, ma in quell’essere percepito si arresta la sua avanzata, in quanto essere percepito
presuppone l’essere, e cioè la disperazione della consapevolezza di essere disperato. Questa
affermazione (per quanto minuscola nel caso limite) dell’essere nonostante il non-essere è ciò che
Tillich chiama coraggio. Esso rappresenta l’atto dell’individuo che carica sulle sue spalle il peso
dell’angoscia, assorbendo dentro sé stesso la massima quantità possibile di non-essere.
Ma per poter incontrare la triplice minaccia posta dal non-essere, il coraggio deve avere le sue
radici in una forza dell’essere assai più vasta della forza dell’essere individuale e del suo mondo. È
quello che Tillich chiama il terreno dell’essere, che è premessa a qualsiasi affermazione dell’essere
individuale e che è l’oggetto del desiderio nell’esperienza dei mistici. È un’idea di Dio che in esso
include il non-essere, e che grazie alla presenza del non-essere esce dalla sua seclusione e si rivela
nella sua potenza e nel suo amore.
Senza la dinamica del non-essere, la rivelazione del terreno dell’essere non ci sarebbe.
L’affermazione di sé di Dio è la premessa al coraggio dell’essere ed all’affermazione di sé
dell’individuo. Il coraggio di essere è quindi la risposta necessaria al sentimento creaturale, alla
paura della morte che definisce l’esistenza umana. Nel grado più elevato del coraggio di essere dello
uomo, vita e morte, essere e non-essere, sono riflessi della dinamica divina, momenti di uno stesso
movimento, liberati dalle catene dello spazio e del tempo. È forse questa la stessa suggestione che
lambisce la penna di Giuseppe Ungaretti, quando nella sua poesia Sono Una Creatura,
cripticamente dichiara:
“la morte
si sconta
vivendo.”

DAL TERRORE ALLA REDENZIONE
Scrive Franz Rosenzweig: “L’uomo non deve rigettare da sé la paura terrena, nel timore della morte
egli deve rimanere”. Si tratta di un frammento delle riflessioni che l’autore tedesco, impegnato sul
fronte balcanico durante le ultime fasi della prima guerra mondiale e gravemente debilitato da
diversi episodi di polmonite e malaria, invia alla madre su cartoline postali, di modo che il lavoro
filosofico che andava elaborando in quei mesi potesse essere preservato ove egli non fosse uscito
vivo dal conflitto bellico. Rosenzweig riuscì a tornare in Germania e completare la sua opera La
Stella della Redenzione, pochi mesi prima che la sua vita venisse scoinvolta dalla sclerosi laterale
amiotrofica, malattia che lo inibì progressivamente fino alla morte avvenuta pochi anni dopo.
Nelle intenzioni dell’autore, l’opera, a dir poco strabordante e complessa, doveva servire a creare le
fondamenta di un nuovo pensiero, che ribaltasse la logica filosofica che fin dall’antica Grecia si era
affermata, ed al cui interno filosofia e teologia fossero conciliate. Al contempo, Rosenzweig
contava di dimostrare come il significato della liturgia nell’ebraismo e nel cristianesimo fosse la
chiave per la comprensione della verità ultima e del Tutto.
Il punto di partenza è l’accusa che viene mossa alla filosofia di aver preteso di “strappare alla morte
il suo aculeo velenoso”, e cioè aver negato il terrore umano della morte. Lo ha fatto facendo sparire
la paura mortale nella nebbia di un Tutto pensato come assoluto e trascendentale, un inganno che
non regge l’evidenza che la morte è “un inesorabile ineliminabile qualcosa”. Se allora il nulla della
morte è qualcosa, è da lì che bisogna partire, da questo nulla che è un nulla specifico e non
universale, è il nulla di un uomo con nome e cognome, fatto di carne ed ossa, nella sua coscienza
individuale, che si “beffa di ogni totalità e universalità”. Sgretolato il Tutto dalla forza
incontrastabile dell’angoscia di morte, tre sono gli elementi che dal loro perenne non-ancora
emergono in origine: Dio, il mondo e l’uomo. Ognuno di essi si sostanzia dalla danza del proprio
“si”, e cioè l’affermazione di cio che è qualcosa, con il proprio “no”, e cioè la negazione di ciò che
non è nulla: sebbene lontani dall’impostazione di Rosenzweig, si potrebbe azzardare un parallelo
con i concetti di yin e yang dell’antica sapienza cinese, dove il primo rappresenta la forma
malleabile, la potenzialità, ed il secondo l’ordine, l’attività.
Questi tre elementi ipotetici ed astratti si calano nella realtà della temporalità quando, dalla loro
introversione originaria, si aprono alla interazione fra essi stessi: è quindi nella relazione fra Dio,
mondo e uomo che si accede alla condizione dell’esperire. Il movimento che mette in
comunicazione Dio con il mondo è l’evento della creazione, la relazione tra Dio e l’uomo è l’evento
della rivelazione, l’apertura dell’uomo verso il mondo è data dall’evento della redenzione.
La creazione costituisce ciò che nella dimensione temporale percepiamo come passato, la
rivelazione soggiace al continuo, rinnovato tempo presente, mentre la redenzione è ciò che
sostanzia il tempo futuro. Il presente è quindi il tempo del risveglio alla consapevolezza della nostra
natura umana, immersa nella rete di relazioni con l’altro e con l’Alto, nella quale ci muoviamo
custodendo la nostra libertà di individui ed anelando all’integrazione col Tutto. La forma della
nostra esperienza di relazione con Dio, con la comunità e con il mondo è il linguaggio ed è nel
linguaggio pertanto che l’individuo si colloca e coglie il senso dell’esistenza.
Il significato ultimo però può essere esperito soltanto nel futuro della redenzione, in un tempo
eterno: nel qui ed ora può essere colto e personificato nella pratica della contemplazione e della
preghiera e Rosenzweig dedica molte pagine della Stella per dimostrare come ebraismo e
cristianesimo, i due poli fra cui egli stesso ha oscillato nel corso della sua vita, giochino un ruolo
fondamentale e complementare nell’”anticipare” nel tempo finito l’incontro con il volto della Verità,
incontro che può avvenire soltanto in un tempo perenne.
Si giunge infine sulla soglia di ciò che ci è dato conoscere, la Porta è l’ultima parte dell’opera di
Rosenzweig, e le pagine annunciano la visione messianica di quel volto, all’interno di una stella
formata dall’intersecarsi degli elementi Dio-Mondo-Uomo e creazione-rivelazione-redenzione, un
volto che è divino ma che assume i contorni familiari di un volto umano, del nostro volto, perchè,
come Dio dice a Mosè nel libro dell’Esodo, “nessuno può vedere il mio volto e restare vivo”. La
stella riproduce le caratteristiche di un volto umano, con i vertici dei due triangoli incrociati e
sovrapposti ad illuminare gli organi dell’auto-coscienza umana, gli occhi, le orecchie, il naso e la
bocca:
“E come la struttura del viso è dominata dalla fronte, così la sua vita, tutto ciò che si volge intorno
agli occhi e che s’irradia dagli occhi, si concentra in definitiva nella bocca. La bocca è quella che
porta a compimento e perfezione ogni espressione di cui il volto è capace, tanto nel discorso quanto
nel silenzio dietro al quale alla fine il discorrere si è ritratto: nel bacio. Gli occhi sono quelli in cui il
volto eterno risplende sull’uomo, la bocca quella delle cui parole l’uomo vive.”
La Verità è allora uno specchio,”un volto che che mi guarda e da cui io guardo”. La prospettiva
dell’eternità è identica alla prospettiva della finitudine per chi contempla, dalla sua interiorià, il
volto nella stella della Redenzione, per colui che vive le parole della rivelazione presente e pratica
giustizia e bontà d’animo, camminando in semplicità con Dio. Sono queste le parole che
Rosenzweig vede scritte sulla porta, dinnanzi alla quale giunge dopo un eroico percorso che era
iniziato dal terrore della morte, nel perenne non-ancora, attraverso la realizzazione di ciò che
significa essere uomini, fino alla parola che sigilla l’opera e indica l’eterno possibile: Vita.

CONCLUSIONE
C’è una visione di fondo specifica che soggiace alla caratterizzazione dell’essere umano come
soggetto intento a “gestire” il terrore della morte, ed è questa una visione che accomuna molte delle
tendenze del mondo contemporaneo. È l’idea che l’uomo abbia potenzialità pressocché infinite in
quanto a capacità di dominio degli elementi attraverso la tecnica e che pertanto egli possa in
qualche modo programmabile avere controllo, per esempio, dell’andamento delle temperature del
pianeta; oppure che egli possa governare le forze dell’economia innescando o disinnescando a
piacimento questa o quella leva; oppure ancora che egli possa “debellare” i virus, “dichiarare
guerra” a questo o quel problema sociale, “esportare” valori come fossero merce, e gli eccetera in
questa lista sarebbero innumerevoli. È una visione che ignora la creaturalità della nostra esistenza, e
che rinnega, più o meno consapevolmente, la realtà ultima rappresentata dalla morte. Se a livello
globale tale visione risulta difficilmente scalfibile nel breve termine, è a livello individuale e di
comunità che il discorso sull’angoscia legata alla nostra finitudine deve essere allestito e tenuto
vivo, perchè in questo discorso possano essere custoditi e fatti germogliare consapevolezze e
riflessioni che dalle profondità del nostro animo tormentato possona tramutarsi in esempi di
condotta nel vivere e nel morire, sull’esempio dei maestri dell’antichità, camminando sulle loro
stesse tracce e verso la ricerca del significato trascendentale che è all’origine del terrore così come
della beautitudine.

BIBLIOGRAFIA
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Università Degli Studi Di Pisa
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 Testoni, I.; “L’Ultima Nascita”, (2015); Bollati Boringhieri
 Tillich, Paul; “The Courage To Be”, (1952); Yale University Press

L’autrore

Giovanni Sgrò si è diplomato nell’anno 2021 alla Scuola di Alta Formazione TuttoèVita in accompagnamento spirituale nella malattia e nel morire.

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SUL TERRORE DELLA MORTE