
La morte nella concezione buddhista
La morte rappresenta un momento fondamentale nella vita di un buddhista più importante della nascita; da un lato è positivo perché permette di avere la possibilità della liberazione in questa vita, dall’altro è segno che non la si è ancora raggiunta. La nascita non viene particolarmente onorata; i padri difficilmente assistono in sala parto. Dopo la nascita il bambino viene essere presentato alla comunità che lo accoglie con cerimonie di augurio. In alcune tradizioni vengono anche richiesti oroscopi ai monaci per prevedere il futuro del piccolo e riconoscerne delle qualità specifiche. Nella sola tradizione vajrayana è presente l’idea del “tulku” ovvero della possibilità per alcuni esseri di notevole grandezza spirituale di rinascere in una forma prestabilita, che in seguito viene riconosciuta in base ad alcuni elementi specifici, ricordi e divinazioni. La figura di tulku più conosciuta è indubbiamente quella del Dalai Lama, che rappresenta l’incarnazione del bodhisattva Cenresig o Avalokitesvara, il Bodhisattva della Grande Compassione, ma ne esistono molte altre.
Nella tradizione buddhista la morte è l’atto fondamentale della vita, si attende con serenità in quanto presuppone l’inizio di una esistenza successiva, che viene fortemente condizionata dal momento del trapasso. La serenità nella morte predispone ad una rinascita positiva. Solo chi ha conseguito il Risveglio, al momento della morte si estinguerà e non darà origine ad altre forme di esistenza. La morte nel buddhismo è vissuta come un evento naturale e non si hanno manifestazioni drammatiche, quasi incomprensibili per persone di altre religioni; non c’è l’idea di un giudizio divino dopo la morte e della retribuzione dei meriti o della dannazione eterna. Per i buddhisti non esiste un resoconto con la morte: ogni azione compiuta volontariamente (Karma) ha una conseguenza positiva o negativa, a seconda dei casi, in questa vita o successivamente; si tratta di una legge prestabilita a cui non si può sfuggire ma che non implica un giudice esterno alla fine della vita. L’unica possibilità di cambiamento è data da un buon comportamento. Il morente, consapevole di un Karma stabilito dal suo comportamento, viene invitato a prepararsi alla morte per favorire una buona rinascita e permettere a colui o colei che seguiranno di poter nascere in condizioni favorevoli alla liberazione.
Per il buddhismo non esiste un’anima personale che trasmigri di corpo in corpo, L’ultima coscienza di un uomo perde infatti ogni individualità e lascia un’eredità indifferenziata che dà lo slancio per un’altra forma di vita, che non è né la stessa ma neanche è completamente differente dalla precedente. Ne è l’erede ed è con questa eredità che deve operare per lasciare, alla fine del suo corso, un’eredità migliore per chi verrà dopo.
Testo provvisorio, tratto da:
“G. A. Carru, M. Chiaretti: Vivere la morte nelle varie religioni. Un momento di mediazione interculturale, Edizione Nuova Cultura, Roma 2009.”