Introduzione

La struttura del ricordo è l’espediente di cui ci serviremo per introdurre il tema in analisi. Tratteremo il ricordo come una metafora dalla quale ci congederemo in fretta per sostituirla con concetti teorici, validi a offrire al lettore un tratteggio del sistema di rilevanza cui afferiscono.

Cominciamo riportando alla memoria un’esperienza  che può essere comune, vale a dire incontrare difficoltà nel farsi capire da un’altra persona. Nella situazione tipo cui ci stiamo riferendo, l’interlocutore, non avendo modo di interpretare il contenuto di ciò che stiamo cercando di trasmettere, si persuade ad un certo punto che questa difficoltà vanifichi la capacità di interazione ed fa ricorso un’espressione del genere: “se non sai dire ciò che pensi, allora non pensi niente”.

Una affermazione così semplice e di uso comune esprime in verità uno dei capisaldi del pensiero filosofico, così espresso recentemente anche dal filosofo italiano Emanuele Severino.

c’è filosofia soltanto dove c’è la fondazione. Anche quando uno dice di non essere d’accordo con una certa posizione, dovrebbe essere invitato a mostrare perché non è d’accordo, poiché fintanto che non lo mostra è come se non dicesse niente”. (conferenza “Severino-Reale, Dialogo su Dio).

Affermazioni perentorie di questo tipo possono immediatamente urtare, poiché stabiliscono in forma di principio delle competenze che si reputano immediatamente acquisite e disponibili all’individuo e necessarie all’interno della vita del gruppo di riferimento. 

Le grandi correnti del nostro tempo sono persuase di muoversi nell’evidente, senza troppo avvedersi del fatto che il terreno su cui poggiano i piedi si sviluppa all’interno delle categorie che sono state espresse per la prima volta dal pensiero greco. Secondo Testoni (Testoni 2015) l’uomo greco, e così l’uomo occidentale, deve render conto della propria esperienza al resto del cosmo e della comunità, all’interno delle specifiche recinzioni costituite dai contesti in cui questa viene di volta in volta incardinata, «re-ligata» per non essere confusa con altro. Logos normalmente viene tradotto con linguaggio: leghein in greco vuol dire parlare; così in tedesco legen vuole dire parlare. Ma in ambedue le lingue vuol dire anche qualche cosa di più: vuol dire porre ma non nel senso di “costruire” ma nel senso di “raccogliere lasciando esposto”. Allora il significato originario è dato non tanto dal parlare in senso fonetico-fisico, quanto da quel porre che ci riporta alla cosa che viene posta (Severino 2020). Ma perché si debba mostrare una fondazione, cosa significhi fondazione e su quale terreno sia possibile fondare un pensiero, anche questo deve essere oggetto di riflessione. Se ciò non avviene, se non facciamo questo ulteriore passo verso la comprensione del mondo antico e in continuità con la sua radicale profondità, l’osservazione “se non sai dire ciò che pensi, allora non pensi niente”, è un dogma con cui si esibisce niente più che il fastidio verso un qualcosa che non si capisce (o che non vuole essere capito) e dal quale si prendono le distanze.

La trattazione si muove in questo senso: in primo luogo si comincerà ad osservare da vicino questa affermazione per portarne alla luce le implicazioni teoriche fondative in riferimento ad una comprensione più essenziale del linguaggio. Una volta identificate queste condizioni le si adotteranno per dare una lettura di quello che viene  identificato dalle scienze psicologiche come un meccanismo riconducibile ad un bias cognitivo chiamato effetto Zeigarnik. In seguito si proporrà una diagnosi alternativa a quella comunemente proposta, e maggiormente coerente con lo sfondo epistemologico di riferimento in vista di una dimensione ontologica.

I. Le cose e le parole

Cominciamo con il rilevare che per la filosofia antica l’oggetto proprio dell’intelletto è l’essenza della cosa, la quidditas rei, ovvero ciò che rende una cosa quello che è e non un’altra cosa. Per questo lato l’idea è l’id quo cognoscitur, il mezzo diafano attraverso cui si conosce la realtà stessa, pensata come ciò che esiste indipendentemente dal pensiero che la conosce (G. Goggi 2021).

Il ciò che esiste indipendentemente dal pensiero che la conosce, e quindi indipendentemente dalla riflessione umana sulle cose, è per il pensiero antico il come stanno le cose di per sé, ed è quindi il vero l’indubitabile. Questa impostazione continua in San Tommaso e nella scolastica, dove, in continuità con il pensiero di Aristotele si  parla di conoscenza come «adaequatio rei et intellectus». L’adaequatio è la corrispondenza che si deve realizzare tra il pensiero e la cosa in sé, affinché sia data la possibilità di conoscere il vero delle cose, l’essenza, la quidditas rei. Vi è perciò una dialettica come illustra Severino (Severino 2010) che si dispiega nel linguaggio, tra come stanno le cose e il conoscere come stanno le cose. Tale dialettica si dispiega nell’uso organizzato delle parole le quali appunto devono mettere in risalto l’essenza autentica delle cose secondo le indicazioni di un ordine logico astratto. Ma è ancora Goggi (G. Goggi 2021) a ricordarci che già Platone distingue tra diánoia e lógos: diánoia è il dialogo interiore dell’anima, dove i significati appaiono allo stato puro, al di là di ogni lingua determinata, mentre il lógos è l’espressione linguistica di quei significati. Tale Regola del mondo è pensata come inclusa nella realtà stessa delle cose e rispetto alla quale si configurano tanto le situazioni e i campi dell’agire, le opere dell’individuo e della comunità, quanto il pensiero e il linguaggio che la dovrebbe realizzare. Ma questo implica che per sapere se c’è effettiva corrispondenza tra la conoscenza e le cose è necessario che, a un certo momento, si conosca il come stanno le cose, e si conosca il nostro conoscere le cose. Il passo è fatto coerentemente da Cartesio (Cartesio 2008): se c’è una differenza tra l’intelletto che conosce e la cosa conosciuta che esiste indipendentemente da esso, come possiamo essere sicuri che ciò che conosciamo sia la verità? Se per verità intendiamo il come stanno le cose in se stesse, indipendentemente dalla conoscenza che ne abbiamo, la conclusione coerente di Cartesio è che il mondo in quanto conosciuto è un cogitatum, un pensato. Noi non conosceremmo il mondo vero ma il mondo certoche rientra nelle nostre rappresentazioni soggettive. La conseguenza di questo slittamento è ben espressa ancora una volta dalla riflessione del filosofo Goggi il quale ci mette al corrente che nello sviluppo del pensiero occidentale ad un certo punto l‘idea da id quo cognoscitur diventa l’id quod cognoscitur: da ciò attraverso cui (“quo”) si conosce diventa ciò che (“quod”) si conosce. Di qui il problema della corrispondenza delle nostre rappresentazioni con la realtà esterna che porta alla conclusione che un puro apparire dei significati non esiste (Goggi 2021).

Proprio per questo slittamento dobbiamo dire che, in questo stadio della comprensione, prima di poter mettere in risalto una qualsiasi essenza per come appare, indipendentemente dalla nostra riflessione che la pensa, sono le parole stesse e il pensiero che le pensa, che devono essere ordinate per poter rispecchiare fedelmente la verità ed adeguarvisi. Ci si comincia cioè a rendere conto che la stessa parola utilizzata per costruire i linguaggi con cui indicare le cose, è un “qualcosa”, è un che di storicamente e soggettivamente condizionato per mezzo del quale il soggetto avvolge quelle altre cose che sono gli oggetti cui fa riferimento. Come tale la parola si offre come quel composto di esistenza e di essenza oggetto della conoscenza dell’intelletto. Di conseguenza il linguaggio, e la comunicazione come scopo della sua produzione, diventano possibili e utili al significato che regola la vita dell’uomo antico, solo se è primariamente realizzato un allineamento tra le parti, necessario a tenere insieme le due entità pensate come originariamente separate ed indipendenti del segno e del significato. A questo punto è necessario confrontarsi con una differenza decisiva tra il pensiero antico e il pensiero moderno rispetto al rapporto tra segno e significato.

Per l’antico greco c’è una scienza che è l’epistème la quale conosce l’ente in quanto in quanto ente, ovvero conosce la cosa di per sé a prescindere da qualsiasi determinazione specifica. Il piano del significato della verità, lo avevamo già accennato, è visto come incluso nella realtà stessa delle cose ed appartiene perciò di diritto alla manifestazione “naturale” del mondo come segno immediatamente presente alla conoscenza. Per il pensiero antico vi è una identità tra il come stanno le cose e il pensiero dell’uomo che le conosce. Tuttavia esiste un sapere, una certa forma di conoscenza che conosce il significato come contenuto incontrovertibile ed immutabile della realtà e lo testimonia in una forma che sta al di là di qualsiasi mutamento, di tempi, di uomini e di dei.

Per il pensiero moderno il piano del significato è un qualcosa che avvolge la verità della cosa. A partire da Cartesio il significato è, non ciò su cui la coscienza non ha potenza, ma ciò che è prodotto dalla coscienza: in questo modo l’orizzonte si problematizza e non riguarda soltanto il contenuto della coscienza come manifestazione del mondo, quel che i greci chiamavano phainestai, ma anche il rapporto tra la coscienza e il proprio contenuto. In questa dimensione il significato è ricondotto alla dimensione accidentale del divenire della vita dell’uomo, ed è per questo parziale e mutevole, oltre che storicamente e poi biologicamente condizionato. Questo tratto decisivo mette definitivamente il pensiero moderno nelle condizioni di cominciare ad avvertire che la ragione umana, intesa come conoscenza di verità oggettive e incontrovertibili è uno strumento nelle mani di una creatura limitata ed effimera. Questa precisazione era necessaria per capire le diverse modalità secondo le quali si è decisa la relazione tra il segno e il significato.Tuttavia malgrado l’apparente differenza vi è un tratto comune non visibile ad un’osservazione superficiale. Per il pensiero antico e il pensiero moderno se il significato non si rende veramente visibile nel risultato “linguaggio”, e non è cioè esibito nell’esperienza intesa come campo di prova ultimo di ogni sapere così inteso,  la conclusione è che non si sta pensando niente di sensato: un segno è qualcosa di significante solo se realizza un valore osservabile nella organizzazione della realtà estesa. Per il pensiero epistemico antico il valore è tale se in esso vi si riconosce il riflesso della Verità, dell’essenza immutabile delle cose: nessun riconoscimento pubblico senza adeguamento alla Verità. Per il pensiero moderno il valore del significato è riconoscibile a partire dagli effetti che esso produce nell’organizzazione razionale della potenza, cioè nella maggiore capacità di trasformare il mondo secondo i bisogni propri della evoluzione storica, e perciò contingente, dell’uomo: niente riconoscimento senza consenso sociale. Ci ricorda Emanuele Severino (Severino 2008) che la scienza moderna tiene costantemente uniti i concetti di osservabilità e di inter-soggettività (o carattere sociale dell’osservazione): il fatto è l’osservabile, ma un fatto ha carattere scientifico solo se, in linea di principio, può venire osservato da tutti. La verità di una affermazione viene a coincidere con la potenza della prassi.

In questo quadro la nostra attenzione può venire catturata dall’opposizione del valore dei significati. L’antico che considera significante e perciò capace di realizzare una serie ordinata (gesti, parole, fatti) solamente il valore che riflette la Verità rivelata dal sapere incontrovertibile; dall’altro lato il moderno che invece è portato a considerare significante tutto ciò che è capace di produrre nella realtà ciò che intende realizzare a prescindere dal suo contenuto. Potremmo allora essere tentati di seguire le “ragioni” di uno dei due contendenti, prendere una posizione su uno dei due fronti contrapposti e cominciare a “far fuoco”. Dobbiamo però portare l’attenzione più a fondo. Se ci lasciassimo  travolgere dalla furia del conflitto, l’essenziale passerebbe inosservato. 

Ma in cosa consiste questo essenziale? Ci si riferisce al concetto che abbiamo indicato con la parola, nostra, allineamentoe con l’implicito ad essa connesso. Si rifletta su questo: si può allineare qualcosa a condizione che la relazione che lo unisce con le altre parti sia il risultato di un processo rispetto al quale i termini che entrano in relazione siano pensati come originariamente separati. I pensieri, le emozioni, le ore, i gesti, le parole, i giorni sono tutti pensati all’interno di un significato più ampio che le interpreta come un accadimento disponibile all’azione umana, dal latino accidere che esprime ciò che avviene senza essere preparato da altro, ciò che capita. Ci pare interessante portare l’attenzione del lettore a riflettere sul fatto che la parola italiana cadavere con cui si indica il corpo umano morto vuol dire “che è caduto giù”. E inoltre ancora più inquietante è la parentela tra il latino accidere e l’italiano uccidere. Ma ciò che è di passaggio non è radicato all’essenza dell’essere che è, ma è interpretato come ciò che è capitato, come ciò che è di passaggio nell’esperienza individuale che è intesa tanto dall’antico quanto dal moderno, come un fatto che è capitato ma che sarebbe potuto anche non capitare. Si pensa comunemente che anche chi sta scrivendo queste stesse parole, può proporsi di allineare, cioè in un senso più vasto e più profondo di catturare, l’attenzione di chi legge e rivolgerla verso questi contenuti esposti, a condizione che pensi che la relazione tra questo linguaggio, il suo significare e il lettore sia un che di possibile, cioè che sarebbe potuto non essere e che tra qualche tempo non sarà più. La forza con cui le parole vengono tenute insieme corrisponderebbe al messaggio, kerigma, che sarebbe appunto il significato esibito di cui il lettore, privo, si vuole impadronire dalle mani di chi scrive. Inoltre in questo quadro è necessario credere, sia da parte di chi scrive che da parte di chi legge, che queste cose non siano solo dei segni grafici, ma siano il segno di un significato simbolico da cui chi legge è separato ma cui può (o si crede che possa) accedere con l’ausilio del linguaggio. Di conseguenza appare che per dominare qualcosa è necessario pensare che questa non sia un monolite compatto: è necessario che sia franta, spezzata, divisa, uccisa affinché si offra come disponibilità all’azione dell’uomo. Solo a partire da questa convinzione il linguaggio può cominciare a dispiegare la propria volontà di raccogliere e riunire i segni linguistici e organizzarli per celebrare una riconciliazione tra i divisi. Questa convinzione che poteva apparire come un’impostazione originaria e “naturale” emerge ora come l’esito di una convinzione sotterranea necessaria al suo stesso sviluppo. L’essenza dell’uomo è nel pensiero del destino della verità (Severino 2003) questa convinzione, la persuasione di essere una coscienza capace di volontà, una volontà cosciente. Nella prospettiva di un filosofo come Galimberti (Galimberti 2003) la parola è niente più che l’eccedere della nostra esistenza nel linguaggio, il trasfigurarsi del nostro corpo che nel gesto verbale tradisce il modo in cui ha recepito il suo mondo, ma questa impostazione di stampo naturalistico lascia da parte questo aspetto fondamentale, ovvero che il linguaggio è il primo “non nulla”, il primo “qualcosa” ad essere un voluto di per sé. Non solo cioè il linguaggio è la volontà che vuole che un certo evento grafico, visivo, acustico sia parola e cioè sia immagine, rispecchiamento di un senso ma per essere riconosciuto come linguaggio deve anche apparire la convinzione che al di là della volontà, storicamente condizionata, risieda un qualcosa che è appunto pensato primariamente come “qualcosa” cioè come un “che” di disponibile alla propria e alla altrui trasformazione. Così certi eventi sono linguaggio sul fondamento di una decisione che fa di qualcosa il segno designante e di qualcos’altro il significato designato (G. Goggi 2021), e in secondo luogo ciò che vuole la volontà ovvero la coscienza, il sé, il soggetto, è pensata come ciò che non ha come contenuto se stessa ma come un qualcosa di vuoto, di per sé privo di sensi poiché slegata da qualsiasi necessità con la manifestazione del mondo in cui viene a collocarsi. Il volere inteso come ciò che è il primo ad esser voluto non può non crescere se non su una coscienza che è intesa come il prodotto di una sintesi con la potenza, sia essa naturale, divina o artificiale, e non come l’originaria manifestazione del mondo piena di significato originariamente, cioè piena di se stessa.

Nella nostra cultura ogni gemma, pensiero, germoglio, ogni nuovo evento divora spazi, forme, colori, silenzi; intacca i profili del volto di ciò che già esiste e cioè ogni cosa vive la morte e muore la vita di altre cose.

In questa prospettiva anche il linguaggio è di per sé violenza, a prescindere dal contenuto del significato che con il linguaggio si vuole esprimere, poiché ogni violenza ha alla propria base la nullificazione di qualcosa che appare. Può adesso sorgere una obiezione la quale dice:  no, non è vero, non c’è alcuna nullificazione ma c’è trasformazione del contenuto del contenuto che appare in qualcosa di altro da sé che è pur sempre vita. Questo tentativo di rendere meno pericoloso il nulla con il concetto di trasformazione, di cambiamento, è il lavoro che ha fatto il pensiero filosofico fin dall’inizio. Secondo Severino (Severino 2010) anche dal punto di vista dell’evoluzione, nel senso scientifico, la trasformazione dell’energia implica che le forme precedenti dell’universo non siano ancora qui davanti esistenti. E allora che ne è di queste forme? La scienza dice «Non sono più». E cosa vuol dire che non sono più? Vuol dire «sono ormai nulla».

Invitiamo a riflettere sull’esito di questo ragionamento: se il linguaggio può avere via libera e sviluppare una capacità di allineamento (potenza) sulle cose del mondo, e quindi sulle parole, a condizione che pensi tali parti come distinte, frante e sciolte da qualsiasi vincolo necessario, allora dobbiamo dire coerentemente che è l’uomo stesso, ovvero il manifestarsi della coscienza dell’essere come pensiero, a doversi poter pensare diviso, a sciogliersi affinché possa produrre in sé l’allineamento per realizzare la potenza del linguaggio. Ma chi è diviso è debole, e solo chi è debole può cominciare a pensarsi non più debole e a organizzarsi per diventare forte o per allearsi con chi è più forte di lui.  Ci si deve pensare morti per poter credere di  essere vivi. 

A questo punto dovremo cominciare a renderci conto, per quanto possa essere non familiare come concetto, che tentare di ricomporre i dissidi dei popoli con il linguaggio è una velleità.

II. I piani dell’agire

Spostiamo ora la nostra attenzione verso quell’ordine logico che costituisce le regole secondo cui i diversi linguaggi prendono forma. Possiamo distinguere due configurazioni diverse, che determinano significati diversi del comunicare: il piano sintattico e il piano semantico.

Il piano sintattico si riferisce alla validità delle relazioni che legano le proposizioni e si occupa della correttezza concreta della forma. In questo piano la comunicazione è ridotta al fatto che chi parla sia in grado o meno di costituire ciò che indichiamo, la definizione è nostra, come una unità funzionante di concetti comunicabili. In questo primo caso l’importanza non è rivolta alla verità del concetto che si comunica quanto al funzionamento di un organismo articolato secondo le sue regole operative, vale a dire ordinare un soggetto e un predicato del soggetto. Lo scopo di tale configurazione del linguaggio è la correttezza della forma: parlare per parlare. Il piano semantico si occupa invece della verità del ragionamento che si rifà al significato delle espressioni usate. In questo piano ulteriore la comunicazione avviene se chi parla è in grado di costituire ciò che indichiamo, la definizione è ancora nostra, come una unità comunicante di concetti funzionali. In questo caso l’importanza è rivolta alla funzionalità dei concetti significanti in riferimento al contesto in cui vengono esibiti: parlare per dire. Si tratta di espressioni dal carattere semantico apofantico, ovvero assertivo cioè che dichiara, nega o afferma qualcosa. Cominciamo con il rilevare che è lo scopo a determinare la configurazione del mezzo con cui raggiungere lo scopo, osservazione offerta dagli studi del prof. Emanuele Severino sugli scritti aristotelici (Severino 2010). Se lo scopo di chi parla è il puro parlare, la configurazione del mezzo, ovvero del linguaggio, sarà differente da chi si serve dello stesso mezzo per esprimere un certo contenuto rispetto ad un altro. C’è un vecchio adagio scolastico che recita nihil volitum quin praecognitum: non si vuole nulla che non stia prima davanti come conosciuto e quindi come noto. Si agisce in relazione allo scopo (télos) e il senso dello scopo è in primo luogo determinato dal significato che l’uomo conferisce al suo agire.

Se teniamo presente quanto sviluppato nel capitolo precedente, dobbiamo ricordare che il linguaggio è un che di voluto. Di conseguenza lo stesso farsi innanzi di qualcosa inteso come linguaggio costituisce uno scopo. C’è quindi un significato primitivo al comunicare al parlare, che sta alle spalle, ancor prima degli scopi che si vogliono realizzare servendosi del linguaggio per dire. La glottologia ci dice che l’etimologia della parola comunicare si riferisce in primo luogo al significato “mettere in comune” ma anche “chi compie il proprio dovere” come parola fondata sul prefisso cum che significa con e munis che significa ufficio e funzione. Chi parla vuole un’azione, e tale azione deve essere voluta per mettere in comune, cioè per rendere pubblico e visibile ciò che deve essere comunicato o essere celato. È solo il silenzio ad essere inquietante dal momento che il ritirarsi della parola su di sé getta nell’oscurità, nell’assoluta imprevedibilità di ciò che può emergere dall’insondabile attività creatrice e distruttrice dell’essere umano. È Sofocle nella tragedia dell’Antigone a nominare l’uomo come deinòs, l’inquietante: l’uomo è inteso fin dall’inizio della della nostra civiltà come l’irrequietezza inquietante del mondo. La parola addomestica l’uomo, lo essa gli rende possibile allontanare da sé l’angoscia dell’imprevedibilità, che vede primariamente tanto nel mondo quanto in se stesso, rendendo così possibile lo stare presso di sé e presso gli altri.

Come rilevato da Severino (Severino 2008, pp. 64) «Affinché all’uomo sia consentito sedere presso il proprio focolare, diventando familiare e di casa a sé stesso, è allora necessario che la sua imprevedibilità sia attraversata e dissolta da una luce rassicurante che stabilisca la Regola inderogabile all’interno della quale ogni iniziativa umana deve sorgere e mantenersi». Allora si deve far diventare altro da sé il mondo e in primo luogo se stessi, perché il variare del mondo è inquietante tanto quanto l’instabilità e la mutazione di sé, del proprio corpo o l’inaffidabilità dei propri profili psichici.  Ci si deve squartare, separare da noi stessi ed esibire in questo macabro spettacolo per poter “essere” vivi. Con l’avvento della filosofia il perimetro all’interno del quale la parola deve trattenersi è il senno, dal francese sen ragione, ovvero la regione della mente dell’uomo che consente all’individuo di sviluppare un’attitudine al discernimento verso l’azione prudente, giudiziosa, sensata. E un’azione è così giudicata se ha come scopo essenziale la conservazione della vita dell’uomo. Non c’è altro scopo più caro e fondamentale di questo per chi ha imparato di dover morire. Una conferma di questa lettura la troviamo nel Convito di Platone dove all’inizio del capitolo XXV viene definito il “bello” come ciò che ha la densità di significato che è nominata dalla parola greca halòn: il “bello” non è inteso solo in senso “estetico ed etico”, ma, insieme, e primariamente, l’“opportuno”, il “conveniente”, il “favorevole” alla vita dell’individuo perché non si può generare il proprio futuro nel brutto.

Si è cominciato a rilevare che rispetto alla dimensione sintattica del linguaggio, l’uomo come unità funzionante di concetti comunicabili, non ha in vista il proprio scopo se non la correttezza della forma e la funzionalità dei nessi di relazione. Nella dimensione semantica del linguaggio, l’uomo diventa unità comunicante di concetti funzionali dal momento in cui ha in vista un significato e uno scopo con il quale tenere insieme le parti distinte di cui si serve per andare a comporre il suo mondo. In questo paragrafo si è fatto avanti un aspetto che approfondiremo nel seguito della trattazione: nello scontro tra i significati il significato più forte gerarchizza gli altri e gli subordina a sé. Siamo arrivati a dire che non c’è significato più importante per il mortale, che il dolore e la sofferenza legate all’esperienza del morire.

Riprendiamo adesso in analisi l’espressione da cui è scaturita questa lenta discesa:

Se non sai dire quello che pensi, allora non pensi niente

Alla luce di quanto detto fin’ora essa comincia ad assumere i tratti di questo volto, l’espressione è nostra:  Se non rendi pubbliche le modalità con cui vuoi (devi) allineare il mondo(e te stesso) non puoi far parte del senso collettivo, poiché il niente non può dimorare presso di noi”. È l’essenza della Repubblica di Platone, dove la res, la cosa e il suo diventare altro da sé deve essere di dominio pubblico per poter risiedere nella luce della città. Anche la scienza contemporanea converge sulla considerazione che gli aspetti quantitativi sono gli unici, in quanto pubblici, ad offrirsi come termine di accordo nel modo umano di giudicare; sì che solamente di essi si deve a ragione pensare che costituiscano l’essenza della natura esterna. La fisica moderna ha potentemente contribuito alla costituzione di una opposizione netta tra aspetti qualitativi, ovvero ciò che è privato, soggettivo, e quindi oltre a non avere esistenza indipendente dall’uomo è anche termine di disaccordo, ed aspetti quantitativi, ovvero ciò che non essendo soggettivo e quindi dipendente dall’uomo, è in quanto tale pubblico e per questo termine di accordo inter soggettivo. Ma se la riflessione scientifica si limita a rilevare il carattere, per adesso, difficilmente quantificabile del cosiddetto mondo interno, la riflessione filosofica è radicale in questa differenziazione, in quanto essa pensa la nullità come terminus ad quem del divenire delle cose. Pensare che le cose diventino altro, e che diventino massimamente altro tanto da annullarsi nella morte, la forma estrema dell’incontro dell’uomo con l’estraneo  cioè letteralmente “ciò che sta fuori di sé”,  significa pensare un tempo in cui le cose che sono non sono, e questo significa pensare un tempo in cui secondo la riflessione che testimonia l’eternità dell’essente (Severino 2008) il non-niente è niente. Qui appare l’essenza autentica del nichilismo, sondata e descritta nelle opere del filosofo che si impegna a rilevare l’implicito della parola dell’occidente e il suo linguaggio fondamentale che egli riassume così: «Le parole esplicite dell’Occidente dicono: le cose escono e ritornano nel niente. Ma, quando sono (quando stanno in bilico sull’essere), non sono un niente: sono essenti». Pensiamo alle espressioni che il senso comune utilizza per nominare ciò che cade fuori da questa regione dello spazio fisico e mentale (vd. essere fuori di senno, de-menti, fuori di testa, fuori luogo) con cui si esprime la terrificante follia di chi con-fonde i con-testi violando il perimetro dell’identità del significato. Lo scopo principale è fare sì che questo significato viva, e per vivere deve essere mantenuto unito il perimetro del sintattico attraverso il quale il valore del significato può incontrare non l’altro ma il termine corrispondente al suo potersignificare il mondo in un certo modo. Ci serviamo di una metafora per esprimere questo concetto: il significato è come l’immagine finale di un grande puzzle, il perimetro sintattico è il singolo pezzo del puzzle che si incastra con gli altri pezzi, la colla è la forza, il valore attribuito, con cui allineare i singoli pezzi in vista della realizzazione del significato con cui si è persuasi di allontanare da sé la costante minaccia del baratro. Per quanto riguarda il pensiero tradizionale l’immagine rappresentata, il significato, è lo specchio dell’ordine divino del Tutto, che organizza l’infinita sintassi delle differenze trattenendole una con l’altra per mezzo di un collante che assume di volta in volta le sembianze della Volontà di Dio, della Verità, della Legge immutabile del Tutto. Sul fronte del pensiero moderno l’immagine rappresentata, il significato ultimo, è la produzione dell’immagine stessa, che scioglie apparentemente l’infinita sintassi delle differenze da qualsiasi nesso di relazione necessario e riesce a tenere insieme la complessità del mondo sul fondamento della volontà dell’uomo di realizzare il libero divenire del mondo e di se stesso. Sulla presenza di quel termine “apparentemente” torneremo nelle conclusioni. Per adesso ci basti rilevare che il rifiuto contemporaneo del passato può costituirsi come suo abbandono più radicale, solo in virtù della radicalizzazione delle medesime categorie del passato.

In entrambe le rappresentazioni secondo Testoni (Testoni 2015) la vita dell’uomo in senso trascendentale non può essere che dolore, perché la vita in quanto volontà è volontà di far diventare altro le cose e se stessi, sì che la volontà vuole l’impossibile dal momento che essa non può mai ottenere fino in fondo ciò che essa vuole; e il non ottenere è dolore.

III. Effetto Zeigarnik

Avevamo concluso il primo capitolo rilevando che la possibilità dell’uomo di allineare le parti che andavano componendo il suo linguaggio non era una conseguenza di una impostazione originaria, ma la condizione necessaria che deve realizzarsi per consentirne lo stesso sviluppo. Per avere potenza sulle cose del mondo, e sulle parole, l’uomo deve cioè essere in grado di pensare il mondo e se stesso, come un che di diviso, e per questo disponibile alla sua azione creatrice, trasformatrice, realizzatrice.  I latini riassumevano questo concetto con l’espressione «dividi et impera», «dividi e conquista», con cui si vuole significare che la divisione dei popoli giova a chi vuol dominarli, così come un nemico in lotta con se stesso è più facilmente assoggettabile. Ma tutto questo, si è sottolineato è oggetto di pensiero. È il pensiero, è il linguaggio che prima di tutto avvolge la realtà del mondo, e solo il pensiero così fratturato, separato, è un pensiero che può proporsi di tanto di frantumare che di unire. Entrambe le azioni fanno riferimento a questa condizione di separazione e potenza delle parti.

Il risultato del discorso portato avanti fin’ora è il seguente: il modo più rigoroso di intendere la capacità di raccogliere e riunire il segno è la capacità di raccogliere e riunire il segno come pensiero. Nella nostra trattazione il pensiero stesso, è inteso come l’originario manifestarsi dell’essere di ciò che è, in cui il pensiero (la mente, il soggetto, la coscienza) è l’apertura dell’orizzonte del mentale. Ci avviciniamo alla conclusione portando l’attenzione su una ripercussione nei confronti di un certo modo di intendere la mente, facendo riferimento all’analisi di un interessante fenomeno psicologico denominato effetto Zeigarnik. Tale effetto prende il nome dalla psicologa lituana Bluma Zeigarnik, vicina alla psicologia della Gestalt, e alla psicologia cognitiva, che lo scopre e lo studia nel 1938. La strada percorsa dal sapere scientifico psicologico si inserisce nel solco di una comprensione del fenomeno mentale intendendolo appunto come un fenomeno, cioè come un qualcosa che al pari delle altre cose sta davanti individuato nella realtà del mondo. In questo contesto diviene possibile tradurre in termini provenienti dalle scienze dure (fisica, chimica, biologia) anche e soprattutto gli accadimenti mentali e la teoria per cui la mente, in quanto cosa sarebbe un qualcosa di incominciante nella sua totalità. A partire dai suoi studi Zeigarnik, ha ripetutamente indicato che le azioni non ancora completate e che quindi sono ancora in corso vengono ricordate meglio dei compiti conclusi (cfr. Butterfield, 1964). La spiegazione di Zeigarnik per questo effetto era che il soggetto che inizia un’azione sviluppa l’urgenza di completarlo. Se gli viene impedito di farlo, cade in uno stato di tensione e nervosismo. È interessante presentare la situazione sperimentale in cui la ricercatrice individuò per la prima volta questo meccanismo, elaborato nei suoi studi come meccanismo della mente.

Mentre osservava dei camerieri che servivano i clienti di una locanda berlinese si accorse che i lavoratori ricordavano meglio le ordinazioni di quei tavoli che dovevano ancora pagare il conto, mentre avevano dimenticato, nella maggior parte dei casi, le ordinazioni dei tavoli che erano già stati serviti. È un’opinione condivisa che un compito portato a termine sia connesso a sensazioni positive, al rispetto delle istruzioni e, in generale, a un buon risultato. Al contrario un’azione non portata a termine è associata a sensazioni legate al non raggiungimento dell’obbiettivo e alla punizione. Alcuni studi (Rosenzweig, 1943) avanzano l’ipotesi repressiva attorno all’effetto Zeigarnik, ad indicare che l’effetto è dovuto al tentativo di non rievocare esperienze negative legate al fallimento passato. Più recentemente il termine repressivo è stato sostituito con evitamento dell’ansia (Inglis 1961). Secondo questo studio il soggetto impegnato in una attività è motivato a portare a termine il compito per potenziare la propria autostima. In questa dimensione il bisogno di allontanare la paura del fallimento è inserito a pieno titolo in quella che viene definita da Testoni (Testoni 2015) una forma di difesa prossimale, ovvero un complesso apparato psicosociale derivante dalla costruzione dell’identità e dell’autostima. Nella nostra cultura il mantenimento di alti livelli di autostima (self esteem) rientra tra quelle strategie che non solo permettono all’individuo di permanere il più a lungo possibile in una condizione di desiderabilità sociale, ma questa strategia aiuta inoltre a mantenere accesa la sensazione di poter espandere la propria capacità nel dominare la precarietà della vita, attribuendole significato. Ed è proprio la dimensione del significato, su cui abbiamo particolarmente insistito nel precedente paragrafo, a rivelarsi cruciale. Teniamo presenti le tappe fondamentali del nostro discorso, su cui vogliamo continuare ad insistere. Nella metafora con cui avevamo concluso il paragrafo precedente il significato era stato paragonato all’immagine finale di un puzzle formato da tanti singoli pezzi che ne costituivano il perimetro sintattico.

Nella narrazione mitica e successivamente nella grande tradizione filosofica occidentale abbiamo sviluppato l’argomento per cui l’immagine, il significato, fosse lo specchio di quell’ordine eterno ed immutabile, al di là della dimensione mondana della vita. Quest’ultima doveva adeguarsi alla dimensione del divino: solo attraverso il rapporto diretto con il Dio, matrice originaria delle cose e loro scopo ultimo, all’uomo era possibile abitare la terra e conformare così il suo proprio agire al vero principio unificatore della realtà. Contemplare questa immagine riempiva di senso la vita ponendo l’uomo nell’essere.

Dall’altra parte ci siamo spesi per sottolineare che l’atteggiamento del pensiero moderno e contemporaneo va in una direzione diversa. In questo modo di sentire la vita ormai il progetto eroico di vivere nonostante l’evidenza della propria mortalità, mortality salience, non è più illuminato da una luce divina, ma è il contenuto di una volontà, a tratti illusoria, dell’uomo. Si badi, anche l’uomo tradizionale è persuaso della sua propria mortalità e del carattere effimero della sua esistenza ma il perimetro di significati in cui viene a trovarsi è diverso per una serie di articolazioni logico concettuali che qui non abbiamo modo di approfondire ulteriormente. Per quanto riguarda il pensiero moderno, una prima spinta interessante nella direzione dell’anti metafisicismo, anche se non ancora radicalmente decisiva, la dà il pensiero di Kant (Kant 2020). Facciamo qui riferimento in particolare alla considerazione per cui il fattuale, il fenomeno come effetto visibile dell’essere e quindi il modo in cui l’essere si manifesta, non esiste come cosa in sé, ma è un qualcosa che si realizza mediante una sintesi, ossia attraverso l’attività strutturalmente unificante del soggetto cosciente. Sintesi significa infatti una situazione in cui il predicato, non è contenuto di per sé nel soggetto, ma conviene al soggetto per attestazione dell’esperienza. In Kant, tale attività unificatrice del soggetto è sì intesa come un che di a priori, cioè come quell’orizzonte indipendente in cui è ricevuto ciò che proviene dall’esterno e che come tale non può pervenire esso stesso dall’esterno e si costituisce perciò come forma pura dell’intelletto, ma allo stesso tempo Kant tiene fermo il concetto di causalità della realtà esterna sul soggetto, ossia la passività o ricettività del soggetto nei confronti dell’esperienza. Di conseguenza l’ordine delle determinazioni dell’esperienza viene ad essere un’ordine che riguarda le cose solo in quanto sono rappresentazioni soggettive, per me. Ed è pur vero che i precedenti di questa impostazione sono già da rintracciare in Aristotele e nel pensiero greco per cui la realtà esterna è intesa come ciò che agisce sull’organo di senso. In questo terreno del condizionato, in cui ogni termine introdotto rimanda a una serie di condizioni a loro volta condizionate avanza costantemente il pensiero contemporaneo e di conseguenza anche la scienza moderna. Tutte queste prospettive intendono radicare il pensiero, in un terreno più concreto che viene qualificato in modi diversi ma che ha il suo tratto comune nella critica alla pretesa da parte della coscienza di avere una sua propria autonomia. Qui ci basti rilevare quell’interessante teoria marxiana che avvalora questa tendenza (K. Marx-F. Engels, 1972, pp.13):

«Anche le immagini nebulose che si formano nel cervello dell’uomo sono necessarie sublimazioni del processo materiale della loro vita, empiricamente constatabile e legato a presupposti materiali. Di conseguenza la morale, la religione, la metafisica e ogni altra forma ideologica, e le forme di coscienza che ad esse corrispondono, non conservano oltre la parvenza dell’autonomia. Esse non hanno storia, non hanno sviluppo, ma gli uomini che sviluppano la loro produzione materiale e le loro relazioni materiali trasformano, insieme con questa loro realtà, anche il loro pensiero e i prodotti del loro pensiero. Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza.» L’attività pratica è quindi presentata come la dimensione originaria, esterna alla coscienza da cui essa deriva. Ma l’esemplificazione deve continuare e numerosi sono gli esempi che possiamo portare in questa direzione: la storia, la società, la base biologica, il linguaggio, costituiscono nei vari campi di specializzazione un analogo a quella dimensione pratica che costituisce il dato primario elementare, assolutamente semplice e originario indicato come necessario per la costituzione della coscienza. La coscienza si trova così ad essere avvolta da una irrecuperabile irrequietezza originaria del mondo, di fronte alla quale ogni pretesa di autonomia appare come una contraddizione in termini. Ma questo elemento condizionante, variamente definito, non si presenta solamente come semplice struttura concettuale, ma prende le forme anche di una tonalità affettiva, emotiva che determina emotivamente il contenuto di coscienza e la riflessione su questo contenuto. L’esito cui giunge il pensiero moderno è che il giudizio dell’uomo, anche il giudizio decisivo sul significato del dolore, del morire, della vita, non può che essere fondato su un’esperienza soggettiva e come tale parziale, contraddittoria e condizionata, perciò priva di valore assolutamente valido per sé, ma oggetto di un consensus gentium storicamente determinato.

Da una parte abbiamo a che fare con un pensiero tradizionale che significa il pensiero riempiendolo del contenuto riflesso della verità immutabile eterna, dall’altra una coscienza che è prodotto dei condizionamenti in vario modo determinati e che è sempre a prescindere intesa come interpretazione soggettiva. Ma oltre queste differenze apparentemente incolmabili, vi è un tratto comune ad entrambe le prospettive che si impone come costante e fondamento di entrambe: la persuasione dell’evidenza del venir meno di ogni cosa e quindi anche della condizione umana. Niente di nuovo, dal momento che è proprio la civiltà greca la prima a pensare al terrore angosciato per il dolore e la morte come il luogo in cui si svela l’essenza autentica del sapere, e a stabilire una volta per tutte che la vera conoscenza si dà nel dolore. Di questo ci informa il coro nel primo canto intorno all’ara nella prima opera che compone la trilogia “Orestea” di Eschilo ovvero “Agamennone” nella edizione tradotta e curata da Severino (Severino 1985, pp. 22):  «Guidando il pensiero dei mortali, Zeus ha stabilito che attraverso il dolore il sapere acquisti potenza. Quando, nel sonno, goccia davanti al cuore l’affanno che ricorda il dolore, allora, anche senza la volontà dei mortali, sopraggiunge in essi un sapere che salva» .

Questi versi vengono ripresi e commentati nella prefazione alla terza parte della tragedia le “Eumenidi” :

«Questo terrore non cacciatelo fuori della città – ripete Atena. Esso sta con saldezza nelle menti, loro “vigile sentinella” […] La verità pone le menti dei mortali in una zona intermedia tra questi due estremi, la zona dove è possibile la vera forza, il vero potere» (pp. 129).

Questa verità essenziale giunge intatta fino ai nostri tempi, e abita ormai il cuore della maggioranza delle teorie, scientifiche e non scientifiche. Ci si riferisce a queste teorie con l’espressione teorie del sospetto, a volte definite anche del disincanto, le quali stabiliscono ad un certo punto della storia che l’uomo è a tutti gli effetti una creatura effimera, un animale secondo le teorie darwiniste, e in quanto tale materia biologica che produce pensieri e rappresentazioni che lo aiutano a vincere contro le altre specie per continuare a vivere. Anche Freud secondo Testoni (Testoni 2015) riconduce ogni condotta dell’individuo al principio di sopravvivenza e la vita viene ammantata di rappresentazioni che sono appunto funzionali alla specie: le illusioni sono quindi necessarie ma restano tali. La stessa cultura è investita da questa fenomenale rappresentazione e viene interpretata come un complesso apparato di illusioni prodotte dall’uomo per rendere tollerabile la vita e gli affanni che le competono. Inserendosi in pieno nel contesto delle teorie del sospetto e sull’onda del darwinismo Freud afferma (Freud 2012) che la lotta tra Éros, pulsione di unione, e Morte, pulsione di distruzione, è il «contenuto essenziale della vita» che ne costituisce l’eterno conflitto e condizionamento interiore. Per le stesse scienze biologiche e antropologiche  sono le dinamiche di selezione a decretare quali significati siano i vincitori e quali i vinti: le strategie vincenti vengono di norma considerate positive, le strategie perdenti non sono considerate utili alla sopravvivenza della specie e del  e di norma accantonate come esperimenti della natura falliti o nel peggiore dei casi ridotte al grado di deviazione rispetto al senso “naturale” dell’umano. Una tendenza dei nostri giorni interessante da rilevare è il riassorbimento anche dei tentativi cosiddetti falliti all’interno del metabolismo tecnico-naturalistico. Tali fenomeni sono catalogati come momenti necessari di un processo di avanzamento e di sviluppo infinito, che mira ad un miglioramento e ad un’evoluzione di ogni organismo vivente. Di conseguenza, secondo questa prospettiva le categorie tradizionali di giusto e sbagliato si eclissano in favore di un processo tecnico di esperienza dall’esito incerto e imprevedibile. Ma ci avverte Severino (Severino 2010) nel pensiero greco, e in particolare nella prospettiva aristotelica, la coscienza rispecchia ancora il proprio contenuto non lo produce. Nella prospettiva del disincanto al contrario è il pensiero a produrre il proprio contenuto e quindi tra gli altri il suo significato: proprio la considerazione che il pensiero è il prodotto condizionato di una attività produttrice apre il campo all’uomo alla creazione e manipolazione del contenuto di coscienza, al contenuto della mente che in questo contesto viene ad essere identificata come la naturale secrezione del cervello. Tale organo viene via via ad essere rappresentato secondo quelle caratteristiche che il pensiero filosofico ha già fin dall’inizio indicato quando si riferiva all’arché, al principio unitario della realtà, dove tutte le cose si generano in cui da ultimo si corrompono: un sistema complesso, indefinito, che contiene la totalità del mondo, dinamico  e plastico cioè inquieto, diveniente caotico e come tale gravido di potenza. 

Nel corso della trattazione abbiamo concentrato la nostra attenzione sulla dimensione del linguaggio, servendosi di esso come parallelismo fondato nei confronti del pensiero. Alla luce delle teorie del disincanto lo stesso linguaggio come facoltà umana è considerato come una emanazione dell’umano esserci nel mondo, e il pensiero così ridotto al linguaggio della parola che lo indica. Ci basti avere sott’occhio il seguente estratto dall’opera del filosofo Nietzsche “Su verità e menzogna in senso extra-morale” (Nietzsche 2015, pp. 77) e ci sembrerà di sentir parlare un moderno neuroscienziato:

«Come stanno le cose con le suddette convenzioni del linguaggio? Sono esse forse prodotti della conoscenza, del senso della verità? Combaciano le definizioni con le cose? È il linguaggio l’espressione adeguata di tutte le realtà? Solo grazie alla dimenticanza l’uomo può arrivare a credere di possedere una verità nel grado appena menzionato. Se non vorrà accontentarsi della verità nella forma della tautologia, ossia dei gusci vuoti, baratterà sempre illusioni per verità. Che cos’è una parola? La riproduzione di uno stimolo nervoso in suoni. Ma il concludere dallo stimolo nervoso a una causa fuori di noi è già il risultato di un’applicazione falsa e ingiustificata del principio di ragione. Come potremmo noi, se soltanto la verità fosse stata decisiva nella genesi del linguaggio e il punto di vista della certezza nelle definizioni, come potremmo noi dire: la pietra è dura, quasi che duro ci fosse noto anche altrimenti e non soltanto come uno stimolo del tutto soggettivo?»

A partire da questa corrente impostazione condivisa dalle epistemologie moderne, un significato (immagine) non si impone più perché è un vero significato ma solo perché ha la capacità di imporre le proprie ragioni sugli avversari.

 

Adesso soffermiamoci di nuovo sull’affermazione che ci ha accompagnato nel ragionamento delle pagine precedenti: lo scopo determina il significato dell’agire dell’uomo. Ci si propone di applicare questo semplice concetto alla situazione descritta dalla psicologa Zeigarnik che le ha permesso di teorizzare l’effetto. Nella situazione analizzata dalla scienziata il cameriere è presumibilmente mosso da uno scopo, che è almeno quello di servire i clienti ai tavoli. Egli vuole essere efficace nella corretta realizzazione del suo scopo e per essere efficace deve essere in grado di coordinarsi, vale a dire tenere insieme con la volontà tutte le varie componenti che rendono possibile lo svolgersi logico e coerente dei suo movimenti: camminare, ricordare le comande, ricordare dove sta la cucina e dove sono i tavolini etc. Le attività svolte dal cameriere compongono per così dire il piano sintattico che si riferisce alla validità delle relazioni che legano le proposizioni e si occupa della correttezza della forma. È una condizione necessaria data dalla situazione formalmente condizionata. Di fatto appare sì il cameriere che sta svolgendo un compito, ma lo sta svolgendo all’interno di un contesto: deve camminare in un certo modo, vestire in maniera consona, usare un linguaggio conforme alla clientela. Tutte queste operazioni rendono l’uomo una unità funzionante di concetti comunicabili. Così gli individui seguono, e a volte tradiscono, certe specifiche regole di comportamento. In questo senso delimitano un dominio particolare di cose e si costituiscono essi stessi come specializzazioni non metodiche. D’altra parte il piano semantico si occupa della verità del ragionamento che si rifà al significato delle azioni e raccoglie tutte le singole specificazioni costituendosi come regola. Lo scopo si è detto che non è immediatamente in vista del piano sintattico. Questo significa che il corretto svolgimento e funzionamento dei nessi di relazione non  è sufficiente a determinare lo scopo dell’agire, ma è solo necessario al suo stesso essere efficiente. Nel caso specifico il cameriere può avere un numero variabile di “ragioni” per stare svolgendo quella azione, ognuna delle quali determina un significato diverso del lavorare (lavorare per denaro, lavorare per la famiglia, lavorare per il piacere di lavorare, lavorare per paura di perdere la casa, lavorare perché non si è stati capaci di generare altro futuro per sé etc). Il significato rimanda ad un piano significante ulteriore con il quale l’uomo vuole organizzare altri sistemi e piani sintattici, vuole fare diventare altro il mondo. Parallelamente a questa infinita casistica di significati che possono spingere il nostro cameriere a servire diligentemente i tavoli al ristorante, la ricerca scientifica si è spesa nel cercare di individuare alcune possibili cause di un diverso senso dell’agire in diversi campi. Molto interessanti sono ad esempio le proposte in riferimento allo Zeigarnik effect avanzate da Inglis 1961. Secondo lo studioso inglese il variare del significato in riferimento allo svolgimento di un compito soggetto a condizioni formali esterne è legato a condizionamenti dovuti alla personalità individuale come ad esempio debolezza dell’io, immaturità emozionale, vulnerabilità alle neurosi, tendenza ad evitare l’ansia, carattere introverso o estroverso. Tutti questi aspetti contribuirebbero ad incentivare o sfavorire l’individuo nel portare a termine il compito cominciato. Si fa avanti anche una ipotesi ulteriore vicina al mondo della neurobiologia e della neuroscienza cognitiva per cui il cervello ci alleggerirebbe e ci libererebbe automaticamente di quei compiti già portati a termine per facilitare la concentrazione su quanto invece deve ancora essere concluso e dal quale dipende il risultato e la valutazione del nostro operare. Come riporta Morabito (Morabito 2016) questo meccanismo denominato pruning, ovvero potatura, suggerisce l’eliminazione di elementi (neuroni e connessioni delle sinapsi) che non sarebbero utilizzati in maniera continuativa e produttiva. In questo senso il cervello cancellerebbe le informazioni non necessarie e che affaticherebbero il cameriere nella sua attività incrementando ad esempio il rischio di incidenti o di malintesi con i colleghi. Entrambe le prospettive cercano dei condizionamenti nel cervello, considerato la radice del pensiero e del prodursi del significato, siano essi legati all’esperienza personale e quindi alla memoria soggettiva dell’individuo o meccanismi automatici che esprimo il corretto funzionamento dell’organo mentale.

Se facciamo un passo ulteriore possiamo provare a dare un senso a quanto detto. Dobbiamo osservare che nello scontro tra i significati, e quindi tra le potenze, il significato più forte gerarchizza gli altri e gli subordina a sé (Severino 2004). Abbiamo cercato di insistere nel corso della trattazione sul concetto di significato per far emergere il fatto che il valore primario per coloro che hanno da sempre imparato di dover morire, è la vita stessa intesa come la volontà trasformatrice capace di consentir loro di continuare a perdurare nella luce dell’esistenza. Rispetto a questo scopo tutti gli altri impallidiscono e si trovano in una posizione di subordine. Il cameriere dell’esempio Zeigarnik può svolgere la sua mansione se è salvo, ma si salva se svolge la sua mansione e per questo vorrà svolgere la sua mansione nel modo non solo più efficiente ma anche il più a lungo possibile. Di fronte al presentarsi di così tante e autorevoli ipotesi, e poiché le ipotesi sono soltanto ipotesi, idee, interpretazioni di un fatto, si tende a chiudere gli occhi su quanto accade, e si fanno sparire le evidenze che stanno sotto gli occhi di tutti. Questo atteggiamento va rovesciato: non si deve risalire dall’effetto al motivo per cui questo effetto si propone – e vedendo che il percorso è ipotetico mettersi a sedere senza guardare il panorama; bensì guardando ciò che accade nel mondo e ricordandosi di principi come quello che chi ha il potere non intende farselo portare via, si deve tentare, all’interno di questo quadro, di interpretare.

Proveremo questo non semplice passaggio nelle conclusioni.

Conclusioni

 Il cameriere è ancora lì a servire i suoi tavoli, dimentico dei clienti che si sono appena congedati dalla sala da pranzo e tutto intento a preparare nuovi tavoli e a consegnare i nuovi ordini in cucina. Senonché abbiamo detto che nel quadro attuale il significato più forte gerarchizza gli altri significati. Vorremo qui cominciare ad essere meno descrittivi e più stringenti sull’idea determinante che il significato più forte è il funzionamento di quel piano sintattico che rende possibile la futuribilità di qualsiasi scopo. Il cameriere è destinato a servire sempre più tavoli, un numero infinito di tavoli perché qualora lo scopo ultimo del suo servire ai tavoli si compiesse lui non potrebbe più servire ai tavoli. Nel pensiero moderno il significato coincide con la libera produzione del significato stesso, che avevamo detto scioglieva “apparentemente” l’infinita sintassi delle differenze da qualsiasi nesso di relazione necessario. Se ci fosse uno scopo inteso cioè come l’aver in vista un significato ultimo che si vuole realizzare, questo si porrebbe come un limite alla volontà dell’uomo di realizzare il mondo, realizzerebbe cioè un nesso necessario con il piano della vita dell’uomo. Lo scopo assume i connotati angoscianti che invece inizialmente si presentavano con un carattere salvifico, e che rendeva l’uomo capace di vivere nonostante la consapevolezza della propria caducità. Se prima si era immersi in un «progetto eroico» che richiedeva una tenacia sovrumana per sopportare la vita nella consapevolezza della morte, e alla luce di questa si evocava un senso all’esperienza dell’uomo, oggi ci si rende sempre più conto che lo scopo del significato, qualora si realizzasse, renderebbe impossibile il proseguire dell’agire stesso. Sia esso un significato divino, rivelato da una sapienza che contempla la verità dell’essere, sia esso, come oggi accade, un significato dell’individuo particolare. Se il cameriere dovesse avere in vista un significato ulteriore alla sua efficacia nel realizzare lo scopo-mezzo di servire ai tavoli, di qualsiasi natura esso sia, una volta che tale significato si dovesse compiere tutta questa complessa e organizzata attività dei mezzi cesserebbe di essergli utile. Il mondo stesso, inteso come luogo della volontà di produzione di mezzi in vista degli scopi cesserebbe di funzionare.

Vogliamo cioè avanzare l’ipotesi che il fenomeno della procrastinazione legata all’esempio dello Zeigarnik effect non sia legato alla volontà di evitare l’esperienza di un vissuto fallimentare, umiliante o doloroso o per altro verso all’ansia di fronte alla possibilità di non risultare in grado di raggiungere l’obiettivo, o un meccanismo naturale del cervello che vuole preservare le facoltà e l’incolumità del soggetto. Si vuole altresì portare l’attenzione sulla possibilità che questo fenomeno sia una condizione necessaria che appare all’interno dell’apparato tecnico di cui l’uomo si serve per allineare le parti pensate tra loro originariamente distinte, del segno e del significato. Solo così l’uomo è in grado di salvarsi dal baratro del nulla che si pensa abiti là fuori, tutto intorno ai perimetri dei nostri significati. Secondo questa prospettiva il cameriere non è destinato a ricordare meglio gli ordini non ancora svolti e a dimenticare quelli già esperiti per migliorare la sua performance di lavoro, ma è la sua performance di lavoro ad esigere che il cameriere faccia diventare altro se stesso per poter funzionare efficacemente. Ma poiché il lavoro è pensato come il mezzo necessario per realizzare lo scopo del suo significato, il cameriere non può fare a meno del mezzo per raggiungere il suo scopo. Quindi il cameriere deve far diventare altro se stesso, e il suo significato, in funzione dello strumento di cui si serve se vuole essere in grado di utilizzarlo con profitto. A queste condizioni dobbiamo essere degli eterni incompiuti, come ci battezza Nietzsche quando si riferisce all’uomo come ad un animale non stabilizzato: der Mensch das noch nicht festgestellte Tier ist (Nietzsche 1972). Non è un caso se in questa configurazione l’intelletto umano viene conosciuto all’interno di una rappresentazione che non può fare altro che indicarlo come un indeterminato, perché se fosse determinato questo sarebbe un ostacolo alla comprensione delle altre cose.

A questo punto è decisivo riprendere in mano la discussione su ciò che abbia significato morire in Occidente per verificare se per davvero là, fuori dal perimetro in cui l’uomo è capace di pensarsi in bilico sull’essere, ci sia il niente e se quindi sia davvero Necessario ricorrere ad un rimedio.

 

 Bibliografia

– Cartesio, E. (2008). Meditazioni Metafisiche, Roma: Armando editore.

– Claeys, W. (1969). Zeigarnik Effect, “Reversed Zeigarnik effect”, and personality, in «Journal of personality and social psychology», vol. 12,  n. 4, pp. 320-327;

– Freud, S. (2012). Introduzione alla psicoanalisi e altri scritti. Torino: Bollati Boringhieri editore.

– Galimberti, U. (2002). Il corpo. Milano: Feltrinelli.

– Goggi G. (2020 sett. / dic.). Linguaggio e verità. La testimonianza del destino negli scritti di Emanuele Severino, in «Divus Thomas», n. 123, pp. 95-131.

K. Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1972.

– I. Kant (2020), Critica della ragion pura. Brescia: Morcelliana editore

– Moot S. A., Teevan R. C. and Greenfeld N., (1988). Fear of failure and the Zeigarnik effect, in «Psychological reports», n. 63, pp. 459-464;

– Morabito, C. (2016). Neuroscienze cognitive: plasticità, variabilità, dimensione storica. in «La rivista del centro studi città della scienza», Tratto dalla rivista «Scienza & Società»  n.21/22Mentecorpo. Il cervello non è una macchina”. URL: http://www.cittadellascienza.it/centrostudi/2016/06/neuroscienze-cognitive-plasticita-variabilita-dimensione-storica/#_ftnref12 .

Nietzsche, F. (1972). Al di là del bene e del male. Preludio di una filosofia dell’avvenire, in Opere, Vol. VI, 2, Milano: Adelphi editore.

– Nietzsche, F. (2015). Su verità e menzogna in senso extramorale. Milano: Adelphi editore.

– Severino, E. (2003). Tecnica e Architettura. Milano: Raffaello Cortina editore.

– Severino, E. (2004). Filosofi a confronto. Intervento nella trasmissione televisiva l’infedele diretta dal giornalista Gad Lerner, Disponibile in: https://www.youtube.com/watch?v=9PY57JT_WBM&t=6984s.

– Severino, E. (2008). La strada, la follia e la gioia. Milano: Rizzoli.

– Severino, E. (2010). Volontà, destino, linguaggio. Filosofia e storia dell’occidente. Torino: Rosenber&Sellier editore.

– Severino, E. (2020). Istituzioni di filosofia. Brescia: Morcelliana editore.

– Severino, E. Reale, G. (2010). Dialogo su Dio. Conferenza tenuta al FestivalFilosofia, Modena. Disponibile in:

– Testoni, I. (2015). L’ultima nascita. Psicologia del morire e Death education. Torino: Bollati Boringhieri editore.

 

Nota biografica

Guido Mitidieri (Firenze – 14 Gennaio 1990) artista logico-concettuale e architetto.
Il primo ricordo che ho di un disegno fatto da me è quello di una battaglia: un castello era sotto attacco e sulle sue mura di pietra, soldati si combattevano l’un l’altro. Chi stava “combattendo” e per quali “ragioni”? La sensibilità nell’identificare le linee di forza, le logiche profonde che animano le azioni umane in vista della produzione e custodia del mondo mi ha trascinato in un combattimento corpo a corpo. Ho conseguito la laurea magistrale in architettura nel 2015 presso la Facoltà di Architettura di Firenze. Nel 2016 mi sono trasferito in Finlandia dove ho seguito il Master di primo livello “Wood Program” presso la Aalto University, school of arts design and architecture. In Finlandia ho mosso i primi passi come architetto libero professionista e artista concettuale indipendente, ricoprendo diversi ruoli in molte realtà locali che operavano nel settore dell’architettura e della ricerca applicata. A partire dal 2021 seguo il corso “Master in Death Studies and the End of Life” presso l’Università degli studi di Padova, dove ho conseguito il titolo in tanatologia e cominciato ad approfondire in maniera sistematica il significato della “domanda originaria”: ti esti– che cosa è, e le sue implicazioni necessarie con la mia fede nel fare. 

https://guidomitidieri.com/