Storie di libri d’altri
Di Beatrice Roncato
Capita che, spesso controvoglia o spesso per necessità, le case d’altri debbano essere svuotate.
E penso sia una delle cose più odiose, dolorose e ostiche che un dolente debba gestire nel corso della propria vita. La gestione dell’assenza altrui. La gestione di un futuro incerto in cui l’altro significativo non è considerato. La gestione del distacco eterno o, perlomeno, indeterminato. In Svezia esiste una locuzione ben precisa per definire queste “pulizie” ovvero dostadning, “fare le pulizie della morte”, riferita in particolare alle abitazioni dei propri genitori. Magari è la casa dove si è vissuta l’infanzia nei suoi giorni più innocenti, o la casa dove si è cresciuti, cambiati, dove sono germogliati i primi passi. E dove poi i passi hanno iniziato a diminuire, per calpestare altrove. Fosse per me, potrebbe rimanere tutto lì, come quando lasci l’abitazione delle vacanze, con i piatti riposti con cura nella credenza, il vaso con i fiori che sì, anche se sono veri, che importa, li toglierai con pazienza l’anno a venire. Potrebbero rimanere lì anche quei vestiti che, forse, troverebbero utilità per le eventualità, chi lo sa. Ma no, svuotare una casa senza più padrone no, non è la stessa cosa. E’ una casa dove si farà di tutto, pur di non tornare. Soprattutto quando il padrone di casa era un parente, un amico, un nonno acquisito, una zia che non vedevi da ere e cui nemmeno le telefonate riuscivano a rilegare, come libri, i vostri rapporti. Quei libri che compri ai mercatini dell’usato alla domenica pomeriggio, che si sdruciolano tra le mani impolverandole fastidiosamente. E, dunque, devi decidere se riporli nella teca così, lasciandoli marcire per noia o se prendertene cura, o provarci almeno, per dargli una seconda possibilità. Ma si ha davvero la pazienza e la cura di occuparsi di qualcosa che non sembra avere tutta questa importanza? Nella nostra visione immortale del “tanto c’è sempre tempo. Tanto, ci sono cose più rilevanti a cui badare”, no, questa pazienza non c’è. Spesso le relazioni non sono poi tanto facilmente restaurabili come un vecchio volume. E, quindi, si preferisce lasciarle guastare, sino alla data di scadenza. Fosse per me, vorrei che il tempo in realtà tutte quelle cose se le portasse via da sé, facendole sparire attraverso qualche strano meccanismo di prestidigitazione. Invece ti vesti di coraggio, levighi quelle spinose sensazioni di dissenso in corpo e fai quello che devi. Ed ecco che la pazienza a cui prima non davi molta rilevanza, bussa alla porta per non essere più respinta.
Le case vuote, che vuote poi non sono, portano con loro un fascino straziante, intriso di aria asfissiante, buio e polvere dolcemente adagiata ovunque. Adagiata sui vasi, sugli specchi che mille volte ti hanno visto entrare, e su cui ti sei posata distrattamente. Si appoggia sulle matriosche, sul telefono all’ingresso e sulle lampade delle stanze da letto, ancora con la carta da parati ingiallita dal fumo di sigaretta. La polvere è lì, timida, discreta, senza chiedere permesso entra e rimane sgradita ospite sino a quando apri gli scuri, e la luce comincia a rivelarla in tutta la sua volgarità.
Le case vuote sono questo: odori incastonati tra le mura, profumi antichi di pietanze preparate con amore, sono oggetti degli anni ‘50 che come totem si appropriano degli spazi della casa, e che altrove non potrebbero mai stare. Sono i vecchi giocattoli custoditi gelosamente nel sottoscala dove i ragni vi fanno da guardiani. Le case vuote sono capaci di ingurgitarti in un modo tanto ingordo da farti sentire rivoltato come un calzino spaiato di cui non trovi, per l’appunto, il compagno.
Chissà se su quegli indumenti posso trovare ancora i passaggi di quelle mani, di quelle dita che sembravano di carta, nello scegliere con cura cosa indossare per uscire a fare spese, per mostrarsi timidamente al mondo. E le scarpe. Le scarpe dai dieci, cento, mille passi. Portano ancora la forma di quei piedi stanchi e che non trovavano la loro comodità, che uscivano di casa ma che avrebbero sicuramente preferito dimorare in quelle pantofole color lillà, certo più comode e invitanti.
Gli oggetti personali, poi, non parliamone proprio. Una spazzola, anch’essa accoccolata tra capelli ancora aggrappati come sanguisughe, o le creme con ancora i segni decisi, ma sempre delicati, delle dita nel barattolo. Il profumo di una vita e mai cambiato, foto di vecchi amori mai dimenticati o spille utilizzate nelle occasioni mondane. Sono quei conti del lutto che paghiamo alla fine di questi lunghi convivi con coloro che amiamo, con coloro che come noi, sono solo di passaggio. Che a un certo punto, senza preavviso, si alzano da tavola e senza salutare si assentano. Pochi giorni fa, a pensieri tersi, dovetti scendere nel garage del mio nonno acquisito, il Signor G.
Fui immersa nei suoi affari, nelle sue storie di vita di cui ogni tanto mi parlava, e di cui conoscevo i volti amati solo tramite le fotografie che mi mostrava. Non è affare facile trovarsi nelle sfumature private altrui. Mobili desueti, specchi antichi, di quelli opachi ma preziosi che sarebbe un sacrilegio buttarli. Scatoloni con scritto fragile, con quella calligrafia che mai più ritroverai per mano d’altri. Le decorazioni natalizie, di cui qualcuna scheggiata, che chissà quante feste e cenoni hanno vissuto. E rimangono lì, a ricordarti di un passaggio, del passaggio d’altri. Attrezzi da lavoro consunti per il troppo utilizzo, barattoli di vernici ormai essicate come prugne e qualche rivista, qualche libro, tre almanacchi. Fu lì che feci un incontro inaspettato, e per questo tanto piacevole, con un libro. Fu lui a chiamare me, e non il contrario. Come spesso mi capita quando metto i piedi in libreria, i libri “mi chiamano” e se un corridoio gravido di romanzi gialli non mi va di affrontarlo, so per certo che è perché lì non troverei ciò che cerco. Il libro di Allende, Paula, mi trovò. Fu una danza strana, un incontro ricco di esitazioni e cedimenti. Le pagine, ingiallite mi fecero pensare che quel libro in realtà, su in casa non avesse motivo di rimanere, o non aveva un posto per sé in mezzo a tutte quelle raccolte di lampadine, giornali, dischi in vinile e cioccolatini ormai scaduti ma che hanno trovato tomba sul tavolo del salotto. Non è una storia qualunque. Si parla di morte, si parla di fine vita, di “inganno alla morte” e no, forse non lo avrei mai comprato. Quella piccola, insignificante ma spavalda piega, a pagina 51, fatta da altre dita e che a me sembrava di violare in modo vergognoso, cosa avrà significato mai?
La lasciai lì, non era compito mio, sebbene abbia provato a trovare tra quelle parole un motivo, un collegamento, un perché. C’è sempre uno strano non-so-che nel toccare cose che non ti appartengono ma che per anni hai avuto cautela di proteggere proprio perché della nonna, o del nonno, o di chi per loro. Faccio ancora fatica a gestire le assenze, talvolta. Perché non reggo a certi odori pregni di colori e suoni, di ricordi e di parole che probabilmente girano ancora tra quelle quattro mura. Molte cose non ci sono più, altre aspettano il loro momento per andarsene, per essere portate altrove. Per ora, rimangono lì, come guardiani silenziosi ed immobili. Ma io quel motivo, nella piega, non lo trovai. Mi troverà lui, quando sarà pronto.
L’autrice
Beatrice Roncato, dopo la Laurea Specialistica in Sociologia, si è formata come Tanatoesteta e Cerimoniere funebre. Scrive articoli per la rubrica “Spazi di riflessione” di TgFuneral24. Attualmente frequenta il Master in Death Studies & the End of Life (Università degli Studi di Padova) per acquisire maggiori competenze nel campo della Tanatologia al fine di offrire un maggior supporto ai dolenti e, soprattutto, una maggiore consapevolezza della Morte e del morire.