Aiutandoti, barcollo
Di Antonio Loperfido
Quando la relazione d’aiuto con chi è straziato dal dolore fa tremare le gambe e ferisce profondamente le profondità dell’helper, essere utili ed efficaci verso chi chiede aiuto diventa molto complesso.
Riuscire ad individuare ciò che fa barcollare e attivare delle reazioni conseguenti per affrontare queste crisi personali, rappresenta una straordinaria modalità per migliorarsi nella modalità di supporto a chi soffre. Ho cercato allora di coinvolgere persone diverse per ruolo, professione competenze e vissuti, tutte accomunate dalla medesima esperienza: accompagnare chi sta attraversando la vita soffocata dal dolore.
Ad ognuna ho chiesto di evidenziare e condividere la loro maggiore paura, difficoltà e incapacità nel rapportarsi con chi cercano di supportare durante il lavoro o l’attività di volontariato ed evidenziare poi cosa hanno messo in campo per affrontare il possibile fallimento relazionale, professionale, umano.
L’adesione immediata, il coinvolgimento diretto, le continue revisioni dei loro testi scritti e l’assoluta disponibilità nel mettersi in gioco senza filtri, sono solo alcuni degli elementi che dimostrano quanto nell’assenza di strategie e comportamenti utili, nei dubbi personali, nel timore di non essere in grado di svolgere ciò in cui si crede fermamente, dimorino moltissime risposte.
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Il dolore del terapeuta nella relazione con chi desidera morire
Il mio interesse nei confronti del fenomeno suicidario ebbe inizio nel 1980, quando l’allora Centro di Salute Mentale di Pordenone, presso il quale lavoravo come Psicologo-Psicoterapeuta, si propose di condurre un’indagine sulle variabili cruciali correlate al fenomeno suicidario al fine di abbozzare delle buone pratiche per affrontare situazioni ritenute a rischio. In quegli anni, il fenomeno suicidario in Friuli Venezia Giulia era molto preoccupante a tal punto da essere collocata al primo posto in Italia tra le regioni con il più alto tasso di suicidi. Il piano della ricerca prevedeva una parte statistica-epidemiologica e una parte, a mio avviso più interessante e originale, che prevedeva l’intervista dei parenti dei suicidi.
A quel tempo usavo poco o nulla il termine sopravvissuti. Per svolgere questa indagine utilizzammo una tecnica di rilevazione di informazioni basata sull’intervista poco strutturata, una traccia, un promemoria per non correre il rischio di trascurare gli argomenti più rilevanti. Andando casa per casa, ascoltando le tante storie di dolore dei sopravvissuti, consumato in completa solitudine e, spesso, ammantato di vergogna, ho constatato quanto bisogno avessero i familiari di parlare di questo dramma, di condividerlo, di non sentirsi soli e responsabili della morte di un loro caro. Da allora non ho mai interrotto di occuparmi sia di chi desidera porre fine alla propria esistenza sia dei sopravvissuti ad un suicidio proprio o altrui, specialmente mediante la formazione e supervisione di gruppi per l’elaborazione del lutto.
Confrontarsi con queste persone ha significato per me interrogarsi costantemente sul senso della vita e della morte, sulle ragioni del vivere e del morire, su quale epistemologia e quali convinzioni governano il mio essere quando mi trovo di fronte ad una persona che desidera suicidarsi. Col passare degli anni è stata sempre più costante la riflessione sulla morte in generale e sulla morte per suicidio in particolare.
Mi sono chiesto se per me la morte è un fatto ordinario dell’esistenza, una nemica della vita, un evento da temere, un evento da ignorare. Alla fine, a questa domanda, ho dato la stessa risposta che danno molte persone che desiderano morire. Quando questi pensano alla morte è come se vivessero in una condizione di pace e tranquillità psicologica in cui tutto sembra svanire, ogni preoccupazione finisce, le sofferenze e i fallimenti non hanno più ragione di esistere.
Questa condizione dell’anima bisogna esperirla, è ciò che molte volte cerco anch’io attraverso momenti di solitudine ed isolamento in cui tutto mi sembra inutile, senza senso, un continuo affanno per scoprire che sono niente nell’immensità del firmamento e che, come un bambino, inseguo il vento. Gli altri mi considerano un suicidologo, una specie di becchino psicologo che cerca di dissuadere le persone affinché non pongano fine alla loro vita.
Spesso mi sono chiesto perché, come psicoterapeuta, devo allontanare da questa condizione psicologica di serenità chi esprime la forte volontà di morire, cosa offro a loro in alternativa a questa pace faticosamente raggiunta.
Perché lo faccio? Per essere gratificato, elogiato, apprezzato, perché la vita è sacra, perché la vita è un dono? Ho conosciuto molte persone che hanno tentato il suicidio o che desideravano attuarlo, che mi hanno raccontato di questo stato psicologico di tranquillità raggiunto dopo lunghi e sfibranti ragionamenti, riflessioni, ripensamenti. Mi hanno fatto comprendere che la scelta di morire non è un gesto senza senso o frutto di un disturbo mentale, ma una faticosa decisione presa quando tutto sembra un problema, quando ogni soluzione tentata diventa parte dello stresso problema e una minaccia costante alla propria dignità e alla propria autostima.
Conversando con queste persone è come se, in certi momenti, mi chiedessero: ”Lei, cosa pensa di me? Cosa pensa di chi si suicida? Mi considera un fallito, un codardo, un vigliacco, un menefreghista, una persona senza cuore, un egoista, un malato di mente da inserire in qualche categoria diagnostica, una persona debole?”. Queste domande mi risuonano non solo nell’anima ma ancor più nel mio cuore, portandomi alla commozione, a provare per loro tenerezza, voglia di abbracciarli, di cullarli, di rassicurarli, così come fa un padre con i loro figli. Mi rendo conto che queste domande sono intrise di collera. Accetto di essere il parafulmine della loro rabbia, della loro disperazione, del loro dolore, della loro angoscia; mi sento come un gabbiamo, fermo sulla prua di una barca, che si fa schiaffeggiare dal freddo vento di tramontana.
Col passare degli anni, dentro di me ho dovuto rispondere a queste e ad altre numerose domande. Considero impensabile una relazione col candidato suicida o con un morente senza una profonda formazione interiore, che non sia solamente tecnicismo. Il sapere della ragione e della tecnica, pur necessario e importante, non basta di fronte a chi vuole porre fine alla propria esistenza. Ho dovuto riprendere il concetto primordiale di psicologia intesa come anima, prima che essa si distanziasse dalla Metafisica e venisse affidata alla scienza.
Il candidato suicida ho incominciato e viverlo come una persona incompresa, persa negli abissi insondabili della sua stessa anima, dei suoi valori, delle sue aspettative, dei suoi desideri, una persona che desertifica le emozioni per non avere ripensamenti su quanto sta per compiere. Nella relazione d’aiuto col candidato suicida, intesa come prendermi cura, col passare degli anni, ho imparato a coniugare le ragioni della mente e della tecnica con quelle dell’anima e del cuore. Ogni volta vivo dentro di me la lotta tra cercare in tutti i modi di dissuaderlo dal darsi la morte o lasciare che ponga fine alla propria esistenza.
Mi rendo conto che quando il candidato suicida parla della morte ne parla come se fosse un’entità molto rispettosa, accogliente, non giudicante, rassicurante, tenera, dolce, piacevole, compassionevole, dove lui può depositare ogni affanno dell’esistenza. Ascoltando questo tipo di descrizione non posso fare a meno di rimanere in rispettoso silenzio perché non ho nulla da dire, perché avverto che ogni parola sarebbe fuori luogo, non farebbe altro che peggiorare la situazione.
Così ho imparato a non dare risposte, a tacere, a rimanere nelle domande e nelle parole del mio interlocutore, a stare nel silenzio, che ho scoperto essere la condizione dell’indicibile. Nel silenzio lascio che emergano gli sguardi, le lacrime, le ferite, le fragilità e le vulnerabilità dell’anima. Ho appreso a stare col mio dolore provocato dal suicidio dei miei pazienti, immaginandoli in una condizione di estrema solitudine ed incomprensione, senza il sostegno di nessuno in quel momento tragico dell’esistenza. La loro morte mi fa sentire diverso agli occhi dei loro familiari, dei miei colleghi e dei miei pazienti, provando, a volte, vergogna, imbarazzo, sensazione di fallimento, come se questo evento avesse attaccato la mia autostima, la mia immagine professionale e sociale.
Il fallimento esistenziale del suicida diventa, temporaneamente, anche il mio fallimento perché non sono riuscito nell’intento di mantenerlo in vita.
Col passare degli anni, però, ho imparato che non tutto dipende da me, che non posso cambiare il comportamento degli altri a mio piacimento, che mi devo accettare limitato, che posso sbagliare e che se sbaglio devo sapermi perdonare, che l’unica persona che posso cambiare è me stesso. Ho imparato a dialogare con la morte, conversazione che mi porta a vivere meglio l’esistenza, a dare valore ad ogni persona e ad ogni cosa.
Gli stessi morenti mi hanno lasciato molte indicazioni di vita prima che lasciassero questo mondo. Le numerose lettere dei suicidi, che ho avuto la fortuna di leggere, riportano tutte indicazioni di vita come, per esempio, saper curare ogni cosa e persona che si ama, saper perdonare, dedicarsi del tempo e non lavorare molto, non litigare spesso, impegnarsi nel lavoro e nello studio, credere nella famiglia, nell’amicizia e nell’amore.
L’autore
Antonio Loperfido, Psicologo-Psicoterapeuta, già dipendente presso il Dipartimento di Salute Mentale di Pordenone, docente a contratto al Corso di Laurea in Infermieristica della Facoltà di Medicina e Chirurgia di Udine, sede di Pordenone, per gli insegnamenti di psicologia generale e psicologia clinica. Formatore e supervisore di gruppi di Auto Mutuo Aiuto per l’elaborazione del lutto. Autore di diversi libri sul lutto, l’ultimo dei quali dal titolo “Ti ricorderò per sempre. Lutto e immortalità artificiale” (Dehoniane,2020).