Aiutandoti, barcollo: Non è andato tutto bene

Quando la relazione d’aiuto con chi è straziato dal dolore fa tremare le gambe e ferisce profondamente le profondità dell’helper, essere utili ed efficaci verso chi chiede aiuto diventa molto complesso.

Riuscire ad individuare ciò che fa barcollare e attivare delle reazioni conseguenti per affrontare queste crisi personali, rappresenta una straordinaria modalità per migliorarsi nella modalità di supporto a chi soffre. Ho cercato allora di coinvolgere persone diverse per ruolo, professione competenze e vissuti, tutte accomunate dalla medesima esperienza: accompagnare chi sta attraversando la vita soffocata dal dolore.

Ad ognuna ho chiesto di evidenziare e condividere la loro maggiore paura, difficoltà e incapacità nel rapportarsi con chi cercano di supportare durante il lavoro o l’attività di volontariato ed evidenziare poi cosa hanno messo in campo per affrontare il possibile fallimento relazionale, professionale, umano.

L’adesione immediata, il coinvolgimento diretto, le continue revisioni dei loro testi scritti e l’assoluta disponibilità nel mettersi in gioco senza filtri, sono solo alcuni degli elementi che dimostrano quanto nell’assenza di strategie e comportamenti utili, nei dubbi personali, nel timore di non essere in grado di svolgere ciò in cui si crede fermamente, dimorino moltissime risposte.

Non è andato tutto bene:
solitudine e resistenza dell’infermiera ai tempi del Covid-19

 di Elena Bonazzi

Giugno 2020, sono passati quattro mesi dall’inizio del tutto.

È estate: le persone escono, fanno festa, vanno al mare, in montagna come se tutto il peggio fosse passato, anzi a volte come se nulla fosse successo. Ma invece è stato tutto vero, l’emergenza non è ancora completamente passata e le persone che si ammalano ci sono ancora seppur in numero molto inferiore (fortunatamente), ma ci sono e sono reali.

Ma non voglio giudicare il comportamento delle persone, forse da un lato è anche giusto che si vada avanti e che si torni alla vita di sempre, ma questo mi porta a una domanda: io ci riuscirò? Ho 29 anni, sono un’infermiera e lavoro nel reparto di Pronto Soccorso, il mio sogno.

Un reparto d’emergenza-urgenza dove siamo abituati a sostenere ritmi “pesanti”, ad agire in tempi rapidi, a prendere decisioni in situazioni di stress e a vivere momenti adrenalinici, convivendo con la vita e la morte ogni giorno.

Eravamo a fine febbraio quando abbiamo iniziato a sentire dei primi casi, dei primi casi gravi. Mai avremmo pensato che da lì a qualche giorno di distanza saremmo stati noi in piena emergenza, ma quel giorno è arrivato.

È arrivato il primo sospetto, poi il secondo, il terzo… e da quel momento abbiamo perso il conto. Abbiamo stravolto il reparto, riorganizzato gli spazi, i vari protocolli. Ci siamo trovati a lavorare in un mondo quasi surreale: tute, maschere, caschi… non ci riconoscevamo più neppure fra di noi. Sapevamo chi eravamo solo perché ad inizio turno scrivevamo i nostri nomi sulle tute con i pennarelli indelebili.

Ma il vero motivo di quei nomi scritti non era tanto per noi ma per quelle persone che stavamo assistendo:  farci conoscere, farci chiamare per nome quando avevano bisogno. C’erano persone ovunque: sulle barelle, sulle sedie… non c’era mai un posto libero. Vedevamo un paziente e subito dopo ce n’era un altro e un altro ancora: sembrava non finisse più.

Quel mondo surreale si trasforma gradualmente in quotidianità: sempre più persone malate, sempre più persone che non ce l’avrebbero fatta. Stavamo combattendo una guerra contro un nemico ignoto, forte, imprevedibile. Abbiamo messo in campo ogni singola conoscenza, le provavamo tutte.

Ci siamo e mi sono sentita impotente. Tornavo a casa e mi chiedevo cosa avrei potuto fare di più, del perché in alcune occasioni riuscivamo a sconfiggerlo e in altre no. Ogni turno quindi era diventato una corsa contro il tempo. Sempre più visi nuovi, impauriti, spaesati ma soprattutto soli. Tralasciando la parte prettamente sanitaria (nella quale abbiamo dato anima e corpo per combattere questo mostro) c’è un aspetto particolare che da nessuno di noi operatori è stato tralasciato: quello relazionale, parte fondamentale del nostro operato che in quest’occasione ancora di più abbiamo sentito. La dimensione relazionale come empatia verso il paziente, come capacità di ritagliare Tempo d’ascolto, che è effettivamente Tempo di Cura.

Mi sono ritrovata in una situazione diversa, nuova, imprevista, una situazione che mai nella vita avrei pensato di vivere. È stato tutto difficile all’inizio: ovunque mi girassi c’era qualcuno d’aiutare, sguardi persi nel vuoto, sguardi che cercavano il mio anche solo per un cenno di rassicurazione, sguardi di paura, solitudine, disperazione e rassegnazione.

Tra una terapia e l’altra mi imbattevo sempre di più in racconti personali dei pazienti: chi raccontava dei familiari, chi della vita passata e chi di cosa avrebbe voluto fare una volta tornato a casa.

Tornavo poi io a casa nella totale solitudine, perché alcuni di noi si sono dovuti allontanare dalle famiglie per non rischiare di poterli contagiare, e più stavo da sola più m’immedesimavo in loro. Quanta è brutta la solitudine? Quanto è brutto non poter star vicino ai propri cari? È proprio lì che ho capito, almeno in parte, quello che potevano provare; se poi aggiungiamo il fatto dell’essere malati, della paura di non rivedere mai più i propri cari e di non poter forse tornare a casa…

Chi ha visto quei visi ha capito solo una piccola parte di quello che stavano passando. E io quegli occhi non li dimenticherò mai.  La vita va avanti ma quelle ferite sono cicatrici indelebili dentro me.

Cosa potevo fare per loro? Mi è venuta in mente una semplice azione che poi forse tanto scontata non è stata, ovvero dar la possibilità di fare delle videochiamate.

Perché le videochiamate? Semplice: la mia idea era di riproporre il più possibile l’ora di visita che nella normalità i parenti hanno la possibilità di vivere. Perché vedersi, anche solo per un’ora, conta e conta tanto, soprattutto quando quel vedersi avrebbe potuto essere per l’ultima volta. Nel giro di breve tempo sono arrivati i tablet in reparto e sono partite le videochiamate. Difficile da spiegare quello che ho visto e che ho provato nell’osservare quegli sguardi felici e pieni di gioia. E questo  mi ha fatta andare avanti ancora più forte di prima.

Ho assistito a tante videochiamate, anche di alcune a cui non avrei voluto partecipare perché sapevo – e sapevano anche loro – che sarebbe stata l’ultima; ma mi sono fatta forza e sono rimasta al loro fianco fino alla fine. Sono stata a fianco di molte persone che ora non ci sono più, e le porterò sempre con me. Non ricordo ora i nomi e questo forse è anche un meccanismo di difesa ma ricorderò sempre gli sguardi. Credo che in questo periodo lo sguardo mio e di tutti loro abbiano fatto e trasmesso molto. Sono stata a fianco di molte persone che non ci sono più: ho ascoltato i loro ultimi pensieri, riflessioni e posso dire insegnamenti di vita. Gli ho tenuto la mano seppure con addosso dalle due alle tre paia di guanti, ma quelle strette le ho sentite come se addosso a me fossi vestita di nulla. Perché quello che ci siamo trasmessi andava oltre ai guanti, ai caschi, alle tute. E sono sicura che non riuscirò mai a descrivere come davvero vorrei quelle sensazioni perché sono semplicemente inspiegabili.

I giorni passavano, sembrava quasi che questa situazione fosse diventata la normalità, una routine. Lavoro, casa, lavoro, casa. Per quanto andassi in ospedale con una forza immensa, con la voglia di vincere e di aiutare più persone possibili, una volta a casa cambiava tutto.

A casa ero sola, lontana dai miei familiari, dai miei amici dalla mia vita quotidiana. Dormivo poco, molto poco: sarà stata l’adrenalina? Saranno stati tutti quei volti? Non lo so perché quando ero tra mi ritrovavo in uno stato di completa apatia. Esattamente il contrario di quello che ero sul lavoro. Non riuscivo a provare nulla, era quasi come se mi dissociassi da quello che stavo vivendo in quel momento in reparto. Come fosse un meccanismo di difesa, per staccarmi da tutto.  Il tempo passava e ormai non sapevo nemmeno più che giorno della settimana fosse. Ricevevo mille chiamate, messaggi da amici, da conoscenti da persone che non conoscevo minimamente. Chi mi chiedeva come stavo, chi della situazione in pronto soccorso e chi mi faceva i complimenti e m’incoraggiava a non mollare.  La mia unica e semplice risposta a tutti era sempre quella: “sto bene, noi non molliamo” perché era l’unica cosa di cui ero certa!

Scrivo tutto questo a distanza di tempo e nella mia mente ci sarebbe molto altro da dire; ma scriverlo non è mai facile e non sarà mai come averlo vissuto. Sicuramente porterò per sempre quello che ho visto e vissuto in questo periodo per tutta la mia vita. Un ricordo indelebile.

Voglio solo fare un’ultima considerazione, molto personale. Ovunque mi girassi c’era scritto “andrà tutto bene!” Ma ogni volta che lo vedevo, il pensiero andava a tutte quelle persone che non ce l’avevano fatta e ai loro familiari, era come se gli dessimo degli schiaffi in faccia (o almeno è quello che provavo io). Perché, siamo sinceri, non è andato tutto bene: le perdite sono state tante, troppe.

L’unica frase a cui io pensavo era invece “ce la faremo Noi non molliamo!”

E non l’abbiamo fatto.

E mai lo faremo.

L’autrice

Elena Bonazzi, infermiera, dipendente presso il reparto di Pronto Soccorso di Mantova. Ha raccontato la Sua esperienza professionale e umana nei Webinar organizzati dall’Associazione Maria Bianchi (www.mariabianchi.it) dal titolo: Prenderci cura del nostro dolore dopo il Covid-19: Accanto ai malati e alle loro famiglie

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