Il dolore e la musica

La “Cantatrice del sud”  Rosa Balistreri  e “La Divina” Maria Callas:  due volti,  la stessa espressione …

di Santo Grasso

Se qualcuno mi dovesse domandare all’improvviso un’associazione fulminea concernente il dolore espresso dall’arte musicale mi verrebbe in mente, di getto, la voce della cantante lirica più famosa e influente del ventesimo secolo: Maria Callas.

Perché proprio Maria Callas?

Le ragioni sono infinite. La causa portante che sovrasta l’archivio sonoro facente parte del nostro bagaglio culturale e, dunque, presente anche inconsciamente nella memoria audiovisiva di ognuno di noi, concerne l’immagine della Callas che canta. Dunque non solo la voce di un disco, ma l’interpretazione vocale associata alla cinesica e prossemica visiva dell’attrice e cantate Callas: candido viso espressivo lievemente inclinato rispetto al resto del corpo che si appoggia con leggerezza al palcoscenico palpabile con risultante corporale dolcemente protratta all’indietro dove le sue mani espressive appoggiano sul delicato petto, dove pulsa un cuore infranto, stanco e drammaticamente dolorante.

Ma da cosa è causato questo dolore? Maria Callas è solo un’attrice drammatica o è mezzo di emissione di dolore? Il suo timbro unico, con estensione notevole, è fine a se stesso, dunque solo tecnica, o è solo uno strumento per meglio comunicare i sentimenti?

Anna Maria Cecilia Sophia Kalos, in arte Maria Callas, concepita in Grecia, nacque al Flower Hospital di New York il 2 dicembre 1923, e ha vissuto una vita particolarmente articolata forse perché l’infinito amore per il canto è stato secondo solo all’amore per il magnate ed armatore greco Aristotele Onassis: un amore sommo che muterà in un finente ed estremo dolore[1].

A soli quattordici anni Maria vive il primo dramma: la separazione dei genitori e il ritorno in Grecia insieme alla madre. Il rapporto tra madre e figlia è paradossale. La madre è un’artista mancata che pretende un riscatto artistico dall’altra figlia poiché non riconosce in Maria alcun talento. Questo lungo periodo adolescenziale di rifiuto rafforzò in Maria un carattere caparbio e una forza di volontà incredibili, pari alla ricerca di comprensione e accettazione mai pienamente colmata. Maria studiava, lavorava e cantava con dedizione perché era l’unico mezzo di “riscatto”, un modo per essere accettata, per essere amata, per far parte del mondo dei giusti, per arrivare al mondo con la sua interezza d’animo. L’aneddoto della cicatrice nella gamba causata dopo un ennesimo litigio con la madre, che tutti i giornali degli anni ’50 evidenziarono nelle prime pagine, è esemplare: quella cicatrice, che riportava appena varcava il palcoscenico, rappresentava un segno permanente nella psiche della Callas donna e artista.

Una figlia sfruttata come artista: la madre ha potuto godere del successo riflesso da Maria. Una figlia-donna usata come merce di scambio: durante la guerra, nel 1941, la madre la spinse a ingraziarsi i tedeschi pur di ottenere dei viveri per la famiglia.

La sua unica via di fuga, il canto, salva Maria dal contesto familiare vorticoso. Tuttavia, all’età di ventitre anni, pur raggiungendo l’alto gradimento del mercato greco della lirica, comincia a meditare un’evasione. A guerra finita Maria, pur con difficoltà economiche, ritorna ancora una volta nel nuovo mondo: l’America. Nella stagione del 1945 al Metropolitan di New York non arrivarono gli stessi successi europei, probabilmente per diversi motivi: il mercato della lirica in lingua inglese (Il Fidelio); impresari imbroglioni (la nota “truffa Bagarozzi”).

L’incontro con l’italiano Giovanni Zonatello, mediante l’esibizione all’Arena di Verona[2] diede a Maria il giusto compenso e l’incipit verso l’ascesa del successo. Il successivo matrimonio con l’imprenditore italiano Meneghini le garantì l’ ”appoggio” verso l’apice. Probabilmente l’incontro con Meneghini lo possiamo definire, più che un matrimonio d’amore, una protezione per un prendersi cura dell’artista Callas. Infatti l’amore vero di Maria Callas è il canto, la sua carriera, ma ancor più grande è l’amore per la Scala di Milano. L’occasione della nascita della “Star” la possiamo attribuire all’episodio della prima dell’ “Aida” alla Scala quando la soprano prevista (la Renata Tebaldi) si ammala e fa posto alla “Divina”: nessuno sa dar vita alle note come lei, nessuno ha la sua eleganza, nessuno ha le sue doti canore, ma soprattutto nessuno sa entrare nei personaggi scenici come Maria Callas. La critica parla di Maria Callas come una soprano che si trasfigura nei personaggi. Tra le più celebri interpretazioni ricordiamo l’aria per soprano “Vissi d’arte” del secondo atto della Tosca di Puccini dove sul: «perché me ne remuneri», nella pronuncia del “perché”, si percepisce questo pianto interno, si sente la veridicità del singhiozzare. Se per tutte le altre interpreti, quest’ultima aria, è stata soltanto recitata per lei è stata “vissuta”.

La sua forza di volontà e voglia di emergere è stata rilevata anche dalla cura e dal cambiamento della Callas attrice figurante: nel giro di pochi mesi perse quasi cinquanta chili di peso, divenendo anche una nuova icona di stile per una lirica nuova. È emersa la Maria Callas che lei stessa voleva far emergere, una Callas da apprezzare e basta.

Fatale però si rivelò questa notorietà: Maria divenne di nuovo un gioiello da possedere, da sfruttare, un trofeo da sfoggiare. Nel 1945, durante una sfarzosa festa a Venezia organizzata per alto rango borghese e “Star”, conobbe il magnate greco Aristotele Onassis: uomo abituato a possedere ciò che desiderava. Inizialmente la Callas non fu preda facile, ma una fatidica crociera nello yacht extralusso di Onassis stravolse tutti gli equilibri. Probabilmente l’intimità greca in comune, il potere e la libertà espresse da Onassis “incastrarono” Maria. Come precedentemente già accaduto con la madre, Onassis espone il “trofeo Callas”, la sfrutta e poi la getta. Maria, sentitasi appagata dalla storia d’amore che stava vivendo, iniziò ad abbandonare gradualmente il palcoscenico. Ma Onassis non amava la donna bensì la diva e “meno canta e meno conta”. Nel 1958 la Callas, a Roma, dopo la conclusione del primo atto della Norma, non si presenta sul palcoscenico. Le doti canore nella Divina vanno diminuendo e il dolore è sempre più presente in scena come nella vita.

Nel 1960 Maria Callas subisce una ulteriore straziante delusione: rimane incinta di un figlio non voluto da Onassis (che addirittura intendeva pagare un medico per interrompere la gravidanza), e ingombrante anche per Maria, per la sua fisicità ed il rapporto con i chili di troppo, già traumatizzante. Il bimbo respira solo per poche ore.

Dopo undici anni d’attesa di realizzazione di un amore estremo, Maria viene a conoscenza, mediante la stampa, che Onassis decideva di sposare la vedova del Presidente americano John Kennedy. Un matrimonio di convenienza economica per entrambe le parti che, dopo il primo periodo infiammante, si rivela fallimentare anche per Onassis.

La tragedia greca, per la Callas, si sta per compiere!

Onassis, accortosi che Jacqueline Kennedy non provava alcun interesse per lui ma solo per i suoi soldi, riprovò a contattare Maria ma il rifiuto della Callas fu esemplare: «in me vive l’Antica Grecia, lascia che io viva con me stessa questa tragedia».

Maria Callas si chiude in se stessa, perdendo gradualmente la tecnica vocale, il talento ma non la drammaticità. Nelle sue ultime interpretazioni trasuda quel dolore interno espresso mediante non una finzione drammatica ma realmente. Nell’ultimo film da protagonista con Pasolini, “Medea”, nell’ultimo tour con un amico cantante dato già per “finito” (il tenore Giuseppe Di Stefano) e nell’ultima esibizione in pubblico, risalente al 1974, possiamo percepire come la musica diventa strumento di trasmissione di sentimento: il suo bel canto lascia il posto alla drammatizzazione del dolore espresso per mezzo del palcoscenico nel mondo reale. Maria Callas è l’interprete per antonomasia del dolore in musica. L’interpretazione del 1958 di Maria Callas, del cantabile della cavatina della Norma di Vincenzo Bellini[3], permane nell’immaginario collettivo di tutti gli appassionati d’opera. E’ l’immagine visiva e musicale dell’unica vera interpretazione del dolore: il ricamo dell’arpeggio degli archi introduce la melodia principale, anticipata dall’acuto del flauto traverso e così, composti unitamente, appoggiano l’incipit della preghiera alla Luna, sussurrata dalla sacerdotessa Norma. Il connubio dell’orizzontalità melodica intreccia l’umanità dettata da una accorata preghiera femminile, dove l’apice drammatico dell’opera si incontra con la drammatizzazione di una vita reale. La vita si inserisce nel dramma e il dramma espone il sentimento dolorante: elementi quasi mistici che la platea percepisce quasi in uno stato di estasi. Spettacolo che soffre e, insieme all’interprete, porta all’estrema manifestazione musicale del dolore, condiviso ormai da tutti gli astanti.

La raffinata manifestazione del dolore in musica di Maria Callas ci porta a un’altra manifestazione, sempre femminile, ma di una sofferenza ancora più diretta, autentica, esplicita. Una voce di donna forte, dentro l’animo della sua terra. Un urlo, più che canto, di una donna vicina al popolo, una donna del popolo. Un urlo di protesta contro la fame e la miseria vissute da un contesto popolare. La voce della sofferenza di una “cunta storie” siciliana: Rosa Balistreri.

Rosa (1927 – 1990) fu una cantastorie che certo non rimase a guardare ciò che accadeva intorno a sé, ma che “si rimboccò le maniche” e portò avanti delle vere e proprie inchieste a muso duro. Un grido di dolore con il fine di un “riscatto” del genere femminile e del ceto popolare. Rosa Balistreri, con la sua autenticità, si portava sulle spalle il peso del suo paese, di una Sicilia malata, sofferente, ma che si ribellava alle sopraffazioni. Una donna capace di piangere durante le sue esibizioni, non per manifestare debolezza e arrendevolezza. Un pianto di rabbia senza alcuna finzione o drammaticità scenica: solo rabbia dolorosa, manifestata attraverso il suo canto accompagnato dalla chitarra. Un’interprete che non interpreta ma che vive e rivive, in ogni sua esibizione, il dolore intrinseco del testo cantato, quasi urlato. Una donna che rappresentava l’eccezione del genere femminile perché, in quanto donna, si esibiva in pubblico (cosa concessa solo alle cantanti della lirica) per assolvere, inoltre, la funzione sociale che attraverso la musica incarnava la voce del popolo e manifestava il malcontento comune.

Il maestro Andrea Camilleri, durante un’intervista audiovisiva, descrisse, come era solito descrivere, l’atto dell’esibizione di Rosa Balistreri: «momento di magica sospensione affidata alla voce straziante e straziata di Rosa»[4] Nel 1972 il poeta detto “del popolo siciliano” (infatti le sue poesie sono scritte in dialetto siciliano) Ignazio Buttitta, descrive le sensazioni provate durante l’ascolto di un suo poemetto “Lamento per la morte di Turiddhu Carnevale” (un sindacalista della Federbraccianti ucciso dalla mafia) musicato ed eseguito da Rosa Balistreri: «la voce di Rosa, canto strozzato, drammatico, angosciato pareva uscisse dalla terrazza della Sicilia (…) perché Rosa Balistreri è un personaggio favoloso, direi un dramma, un romanzo, un film senza autore »[5]. Ignazio Buttitta, da buon poeta e uomo che aveva visionato con i suoi occhi tutte le situazioni estreme della Sicilia di quel barbarico periodo (guerra e immediato dopoguerra), vedeva in Rosa l’immagine della tipica donna siciliana che soffre: bambina tanto povera da camminare scalza (le prime scarpe le ha avute a dodici anni); moglie prematura poiché promessa sposa (matrimonio imposto a sedici anni); figlia di una famiglia numerosa che doveva sin da sempre lavorare per non vedere i suoi familiari morire di fame; madre responsabile e sofferente.

Come Maria Callas, o forse ancora peggio, la vita di Rosa Balistreri si è rivelata sin dalla sua nascita un disagio continuo. Nata a Licata, un paesino dell’entroterra agrigentino, ha  vissuto (forse un po’ come tutti i siciliani) un rapporto di amore/odio con la sua terra[6] Dai tre anni in poi spesso veniva svegliata, come dice essa stessa «con compassione» dal padre alle tre del mattino per aiutare la raccolta di spighe di grano e il successivo trasporto dei sacchi su spalla per circa quaranta chilometri, spesso a pancia vuota.

Figlia della povertà e di una società piena di stereotipie e pregiudizi: matrimoni combinati, genere femminile inferiore, etc.

Il culmine del dolore lo raggiunse quando vi fu il compimento di un femminicidio sulla amata sorella Maria, come lei stessa l’ha descritta nel brano da lei composto “Un matrimonio infelice”: “la più bella delle sorelle, la gioia della casa; questa è una storia vera, del dolore di mia madre che da quanto ha pianto i suoi occhi sono diventati secchi, secchi come la mia terra…[7]. Da questo brano si evince la non remissività e la resilienza di Rosa che denuncia per non subire e lo racconta con la musica. Una musica che da un lato è di denuncia e dall’altro è una musica interiore. Una musica che mostra le piaghe della sofferenza ma che nello stesso tempo non può farla finita (il suicidio, spesso citato nella letteratura della cantautrice), non può permetterselo: ha troppo di cui prendersi cura; la responsabilità è più forte rispetto alla scorciatoia del suicidio; meglio il dolore che la resa.

Il suo è un raccontar cantando mediante il canale della sofferenza tipico dei cantastorie siciliani. Un mestiere, quello dei “cunta storie”, che dona l’aulica mansione di “giornalista” di cronaca nera locale: un’escalation tanto preziosa per la denuncia di Rosa. L’uso della chitarra come un’arma: la chitarra raffigura il salto sociale da contadina a musicista che denuncia, è un mezzo di accusa contro le ingiustizie.

Una donna intellettuale senza formazione scolastica, apprezzata da tutti gli intellettuali del suo tempo: dal collega cantastorie Ciccio Busacca al poeta popolare Ignazio Buttitta; dall’intellettuale impegnato Leonardo Sciascia al famoso pittore Renato Guttuso, fino a Dario Fo. La presenza di Rosa Balistreri nello lo spettacolo del 1977 “Ci ragioni e canto” del premio Nobel per la letteratura fu una collaborazione importantissima per la buona riuscita dello spettacolo.

La “cantatrice del sud” Rosa Balistreri e “La Divina” Maria Callas  l’esempio di persone (certamente con particolari sensibilità e vissuti difficili), che riescono ad appropriarsi della musica per manifestare sentimenti che altrimenti non sarebbero mai riuscite a esprimere. Sentimenti percepibili mediante l’interpretazione del canto. Sentimenti facenti parte di vite intense, vissute nella pienezza della drammaticità e sfociati dell’esecuzione canora del “Dolore”.

 

[1] cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Maria_Callas#Biografia

[2] Gioconda di Amilcare Ponchielli;  link https://www.youtube.com/watch?v=kHYjB948y0Q

[3] (vedi link live https://www.youtube.com/watch?v=mDHzkUAS-Zs)

[4] (cfr. link https://www.youtube.com/watch?v=jik1qQPQs0k&t=916s).

[5] (cfr. link https://www.youtube.com/watch?v=jik1qQPQs0k&t=916s)

[6] (ascolta “Terra ca nun senti” segui il link https://www.youtube.com/watch?v=JYbTbF2yVYI).

[7] (ascolta link al minuto 9:30 https://www.youtube.com/watch?v=jik1qQPQs0k&t=916s oppure https://www.youtube.com/watch?v=vsG6jxF68JU)

L’autore

Santo (Sandro) Grasso è nato a Nicosia (En) il 04/04/1982. E’ critico musicale e musicologo. E’ insegnante di musica nelle scuole dell’obbligo. E’ autore di testi di etnomusicologia legati alle tradizioni della sua terra.

 

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