Trasfigurare i momenti bui dell’esistenza

Bruno Mazzocchi

La Trasfigurazione

La Trasfigurazione di Gesù è un episodio dei Vangeli sinottici (Mt 17, 1-8; Mc 9, 2-8; Lc 9, 28-36). E’ il 6 agosto (almeno nel “ricordo” della Chiesa Cattolica e di quella Ortodossa), dopo la confessio Petri (anche questa “sinottica”, ma celebrata sopratutto da Matteo). Gesù, sul monte Tabor, si apparta con Pietro, Giacomo e Giovanni per mostrare loro che la sua morte sarà un passaggio verso la pienezza di vita, dove splende la gloria della condizione divina, e si mostra loro con stupefacente splendore della persona e intenso candore delle vesti. Poi compaiono Mosè ed Elia, che iniziano a conversare con lo stesso Gesù e una voce intensa, dalle nuvole, dichiara che Egli è il Figlio di Dio.

Una notazione a parte merita la rielaborazione radicale della pericope che si legge in Luca, 9 – 29 (καὶ ἐγένετο ἐν τῷ προσεύχεσθαι αὐτὸν τὸ εἶδος τοῦ προσώπου αὐτοῦ ἕτερον καὶ ὁ ἱματισμὸς αὐτοῦ λευκὸς ἐξαστράπτων.), dove il verbo metemorfvqh  («fu trasfigurato»), che si legge in Mc. e Mt., è sostituito da una perifrasi esplicativa:  … ἐγένετο … αὐτὸν τὸ εἶδος τοῦ προσώπου αὐτοῦ ἕτερον «l’aspetto del volto di lui divenne altro») ; il generico ta’ ἱματισμa’ («le vesti») è sostituito da  ὁ ἱματισμὸς («l’abito»); la qualità del candore del vestito è definita dall’aggiunta del participio ἐξαστράπτων («sfolgorante»). La ragione va ricercata nel verbo metemorfvqh, che Luca non utilizza perché secondo lui probabilmente troppo “colluso” con la mitologia greca, in cui gli dei spesso compivano metamorfosi o cambi di forma.  Quindi gli è necessaria una maggior dovizia di particolari per descrivere la trasformaione …  

Chi non ha avuto la pazienza o la possibilità di leggere i Vangeli, può avere vivido nella mente tale episodio dalla rappresentazione magistrale che ne fanno molti artisti. Voglio ricordare (ma solo per gusto personale) Giovanni Bellini (alla Galleria Nazionale di Capodimonte, a Napoli), ma soprattutto Raffaello (in quella che probabilmente è la sua ultima opera, conservata nella Pinacoteca Vaticana).

Ecco, in questo breve scritto mi piacerebbe provare a “trasfigurare” il dolore e la sofferenza, nel senso di renderli “diversi”, in qualche modo più vividi e luminosi anziché “bui” e occulti, e cercare di capirne/interpretarne il significato.

Partirei con il cercare di descrivere brevemente (anche troppo, e ne faccio ammenda) quella che è la “cultura del dolore” nel mondo occidentale. Tale cultura può essere contenuta fra 2 estremi apparentemente molto lontani fra loro: l’edonismo (dove il male e la sofferenza sono vissuti come “completa negatività”, con conseguente “teorizzazione del piacere” e, come estremizzazione teorica, una conseguente possibile apertura all’eutanasia); il dolorismo (dove il dolore e la sofferenza sono concepiti come “possibile apertura al bene”: chi non porta la croce non può capire Cristo, con conseguente estremizzazione teorica della “giustificazione” dell’accanimento terapeutico). Viviamo, come asserisce il filosofo Salvatore Natoli con parole molto incisive, “fra tragedia e redenzione”[1]. Probabilmente fra questi due estremi, per fortuna vissuti in modo molto “mediato” e critico da credenti e non, si colloca una terza via per capire e tollerare la sofferenza, che è quella della ricerca di senso. Non nego che questa è un’operazione molto difficile, per molti motivi, ma soprattutto perché “nessuno può sentire il dolore di un altro, ma ognuno soffre da solo, a modo suo …[2].

Alcuni esempi di ricerca di senso…

Dal Vangelo di Giovanni (Gv 19, 28-30): “Dopo di questo Gesù, sapendo che ogni cosa era stata ormai compiuta, disse per adempiere alla scrittura: «Ho sete». Vi era un vaso pieno di aceto; posero perciò una spugna imbevuta d’aceto in cima ad un ramo d’issopo e gliela accostarono alla bocca. E dopo aver ricevuto l’aceto Gesù disse: «Tutto è compiuto» e, chinato il capo, spirò“. Ebbene, il testo greco traduce il “tutto è compiuto” con il verbo tetélestai), che significa “compiuto in senso lato, completo, esaustivo”: Gesù ha compiuto la missione più importante dell’Umanità, e per fare questo ha saputo e potuto accettare da uomo la sofferenza e la morte.

Questo episodio è perfino molto più drammatico nei Vangeli di Marco e Matteo. Gesù sta vivendo gli ultimi istanti della sua esistenza terrena, ha provato sofferenza, paura, angoscia, abbandono e solitudine, tradimento, torture e derisione. Dalla croce, Gesù grida in aramaico (la lingua pubblica più comune del tempo) “Eloì, eloì, lamà sabachtàni” (Mc 15, 34), con una concessione linguistica all’ebraico  (eloì, contrazione di eloìm, è una espressione ebraica che indica anche la confidenza del Figlio con il Padre). Secondo Matteo, addirittura l’invocazione di Gesù è in ebraico, la lingua usata in famiglia: “Elì elì, lemà sabactàni” (Mt 27, 46). Anche Luca descrive l’episodio, peraltro in modo molto più sereno, ma sempre con una invocazione di Gesù al Padre suo: “Padre, nelle Tue mani rimetto il mio spirito. E detto questo spirò” (Lc 23, 46).  Questo episodio evangelico ha un significato molto profondo: Gesù sa che la sofferenza è ineludibile e la deve affrontare da uomo, … la deve attraversare … Non c’è nessuna strada per aggirare il dolore, ma piuttosto c’è una strada che ce lo fa attraversare … insieme a Dio. Morirà amando i suoi nemici fino in fondo (“Prima della festa di Pesach Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine …” Gv, 13, 1).

Una profonda ricerca di senso si palpa anche nel famoso discorso della montagna o delle beatitudini, descritto da Matteo (Mt. 5,1-7,29). E’ il discorso più lungo di Gesù (oltre 100 versetti) ed è tratto in buona parte da Isaia (Is, 61), che, in ebraico, dice: “Ashrè aisch sfahl rouach“. La traduzione in greco e in latino non rende giustizia alla forza di questa frase (Beati i poveri in spirito…) perché la traduzione letterale dice che lieti sono coloro abbassàti al vento (cioè, talmente fragili e poveri che un solo refolo di vento gli fa chinare il capo) se credono in Dio. La povertà estrema si tramuta in gioia se si ha la forza di credere, di avere fiducia, che, in questo caso, è il senso della sofferenza “trovato” dall’uomo.

In tempi molto più recenti, questa ricerca di senso viene mirabilmente descritta da Primo Levi, soprattutto nel suo ultimo libro (“I sommersi e i salvati”,  Einaudi 1986). Primo Levi soffre la deportazione nei campi di concentramento, non riuscendo a capire perché. Lui in fin dei conti era solo di famiglia ebraica. Non era credente, non era attratto dalla cultura ebraica, eppure veniva perseguitato …

“Come Améry, anch’io sono entrato in Lager come non credente, e come non credente sono stato liberato ed ho vissuto fino a oggi; anzi, l’esperienza del Lager, la sua iniquità spaventosa, mi ha confermato nella mia laicità ….  Nei momenti delle selezioni o dei bombardamenti aerei, ma anche nella macina della vita quotidiana i credenti vivevano meglio. … non aveva alcuna importanza quale fosse il loro credo religioso o politico … erano accomunati dalla forza salvifica della loro fede. Il loro universo era più vasto del nostro, più comprensibile: avevano una chiave e un punto d’appoggio, un domani millenario per cui poteva avere un senso sacrificarsi, un luogo in cielo o in terra in cui la giustizia e la misericordia avevano vinto, o avrebbero vinto in un avvenire forse lontano ma certo …[3]

 

Dolore, sofferenza e trascendenza

Cercherò, a questo punto, di dare una lettura (in gran parte personale) al dolore e alla sofferenza attraverso la nostra tradizione, partendo dall’Antico Testamento (che considero come una delle letture più importanti per capire chi siamo e da dove veniamo).

La Bibbia non si perita di dare una spiegazione alla sofferenza. Di solito dolore e sofferenza non esistono come concetti astratti, ma sono sempre connessi a corpi, a volti, a situazioni precise. Nella Bibbia troviamo la cosiddetta “teoria della retribuzione terrena“, secondo la quale prima o poi i giusti conoscono la felicità e i malvagi vanno in rovina. E’ questa una teoria arcaica, che va concepita come una sorta di rimedio al dolore: la preghiera e il rapporto con il trascendente prima o poi ci fanno superare la sofferenza. Del resto ancor oggi la preghiera è la medicina più usata al mondo … I libri dell’Antico Testamento fanno però molto di più: aprono a domande. Di fronte alla sofferenza è necessario interrogarsi.

Qualcosa di diverso e più interessante la troviamo nei Salmi (Tehilim o laudi in ebraico, mentre la parola salmo deriva dal verbo greco ysallw, che significa “pregare cantando”) scritti per gran parte (82 su 150) da re David alla fine del III secolo a.C., e quindi molto posteriori al Pentateuco. E lo stesso avviene nel susseguente Sefer Job (il “Libro di Giobbe”): l’uomo scopre progressivamente la Fede come premio a se stessa. Non è automatico che la ricerca di Dio dia frutti in questa vita. Dio però è in grado di dare un senso alla nostra sofferenza attraverso il valore ultraterreno attribuito ai nostri atti. Questo concetto, definito come “teoria della retribuzione ultraterrena“, venne poi ripreso e sviluppato da S. Paolo e, successivamente, da S. Tommaso d’Aquino, studioso e traduttore del Corpus Paulinum[4].

Nei Vangeli Gesù, apparso per liberare gli uomini che “erano schiavi tutta la vita per paura della morte” (Ebrei 2, 15) non fornisce alcuna spiegazione sull’origine del male, ma cerca sempre di alleviare la sofferenza di chi incontra. L’idea proto-paleocristiana del primo millennio è in armonia con questa lettura e con la visione del Cristo “medico”.

  1. Agostino è un tenace sostenitore di questo ruolo.

E un altro grande padre della Chiesa, S. Ambrogio, scrive:

«Tutto è per noi Cristo.

Se desideri medicare le tue ferite, egli è medico.
Se bruci di febbre, egli è la sorgente ristoratrice.
Se sei oppresso dalla colpa, egli è la giustizia.
Se hai bisogno di aiuto, egli è la forza.
Se temi la morte, egli è la vita».
[5]   (“Sulla verginità”: 16, 99)

 

All’inizio del secondo millennio si viene però ad imporre la figura del Cristo “sofferente” e crocifisso, probabilmente allo scopo di consentire di rendere sopportabile la sofferenza in un’epoca difficile come quella tardo medievale. Ciò ha però dato via ad una spiritualità doloristica, caratterizzata dalla vera e propria esaltazione della sofferenza come via per raggiungere la salvezza, che non ha nulla in comune con lo spirito dei Vangeli. La prassi di Gesù è invece piuttosto chiara: incontra persone con menomazioni fisiche, malattie, infermità mentali, ma non predica mai rassegnazione, non afferma che il dolore e la sofferenza avvicinano maggiormente a Dio. Egli dice invece che è l’amore che salva; perciò insegna amore, fede e speranza. Amore, si; anche quando ci è dato di dover attraversare dolore e sofferenza, bisogna cercare di amare e di accettare di essere amati. E noi da qui veniamo …

Trasfigurazione moderna

Voglio concludere parlando di una grandissima poetessa: Alda Merini. La Merini, di cui tutti hanno conosciuto la toccante vicenda umana, vive col suo Dio un continuo dialogo, fatto di assordanti silenzi e di grida represse nel petto: lo cerca, lo trova, lo perde, lo ama, lo odia, lo comprende, lo accetta e lo rifiuta. In questa dialettica spende il tempo della sua vita, costellata di amore e di amori, e di una straordinaria lucidità pronta a condurla nel baratro della follia.

Una simile esistenza, scandita dalle pause della sua malattia mentale, diviene canto quando, oltre le delusioni umane, oltre la propria diversità, la sua anima trova riposo, pace e verità nello smisurato amore divino. Beh, io immagino che Alda Merini sia lei stessa la trasfigurazione “moderna” …

Gesù,
forse è per paura delle tue immonde spine
ch’io non ti credo,
per quel dorso chino sotto la croce
ch’io non voglio imitarti.
Forse, come fece San Pietro,
io ti rinnego per paura del pianto.
Però io ti percorro ad ogni ora
e sono lì in un angolo di strada
e aspetto che tu passi.
E ho un fazzoletto, amore,
che nessuno ha mai toccato,
per tergerti la faccia.

Alda Merini, da “Corpo d’amore; un incontro con Gesù”[6]

 

Per saperne di più (alcune letture consigliate):

 

1.    Viktor E.  Frankl: “Senso e valori per l’esistenza. La risposta della logoterapia”; ed. Città Nuova, 1998

2.    Viktor E. Frankl: “Dio nell’inconscio. Psicoterapia e religione”,  Ed. Marcelliana – collana Scienze umane, 2014

3.    G. Paolo Monformoso: “Aiutare alla speranza. Counseling”, edizioni Edizioni Camilliane, 2002

4.    G. Paolo Monformoso: “Togliete la pietra”, edizioni Centro Volontari Sofferenza collana Centopagine, 2000

[1] S. Natoli: “L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale“, Feltrinelli, 2016

[2]  Idem

[3] P. Levi: “I sommersi e i salvati”, Einaudi, 1991

[4] S. Tommaso, d’Aquino, “Commento al Corpus Paulinum”, ed. ESD

[5] Tratto da Giorgio Maschio: “Cristo principio di ogni cosa – Cristo nel pensiero di sant’Ambrogio”  – Edizioni Messaggero, novembre 2017

[6] Alda Merini: “Corpo d’amore; un incontro con Gesù”, Frassinelli, 2001

L’autore

Bruno Mazzocchi, Oncologo e geriatra, si occupa da 30 anni di cure palliative. Direttore dell’Hospice “Roberto Ciabatti” di Grosseto e Responsabile dell’UF Cure Palliative di Grosseto e Provincia, ASL SudEst Toscana.

Stampa l’articolo:

Trasfigurare i momenti bui