CIMITERO ACATTOLICO DI ROMA

STORIA DI TRE TOMBE E DI TRE SPIRITI DELL’ACQUA: KEATS – SHELLEY – CORSO

di Serse Cardellini

 

 

Piramide di Caio Cestio e a sinistra uno scorcio della parte antica del Cimitero Acattolico di Roma

 

«Verso la fine di luglio 1820, Shelley scrisse a Keats invitandolo a fargli visita in Italia. Keats accettò e assieme all’amico Severn salparono per Napoli a metà settembre 1820, approdandovi il 21 ottobre. Il 7 o 8 novembre partirono per Roma, giungendovi il 15 novembre e prendendo alloggio in Piazza di Spagna. Lì Keats morì il 23 febbraio 1821. Shelley apprese questo evento solo l’11 aprile 1821, in una lettera di Horace Smith, e quasi immediatamente iniziò la sua elegia sulla morte di Keats. […] Shelley definisce Adone (appunto l’elegia dedicata a Keats) “un’opera d’arte altamente rifinita” e “la meno imperfetta delle mie composizioni”».[1]

La poesia Adone di Shelley comprende 495 versi suddivisi in 55 strofe, qui di seguito riporterò il testo originale e la mia traduzione solamente della prima e dell’ultima strofa di questo meraviglioso componimento.

 

Adonais

An Elegy on the Death of John Keats, Author of Endymion, Hiperion, Etc.

 

I

 

I weep for Adonais – he is dead!

O, weep for Adonais! though our tears

Thaw not the frost which binds so dear a head!

And thou, sad Hour, selected from all years

To mourn our loss, rouse thy obscure compeers,

And teach them thine own sorrow, say: with me

Died Adonais; till the Future dares

Forget the Past, his fate and fame shall be

An echo a light unto eternity!

 

LV

 

The breath whose might I have invoked in song

Descends on me; my spirit’s bark is driven,

Far from the shore, far from the trembling throng

Whose sails were never to the tempest given;

The massy earth and sphered skies are riven!

I am borne darkly, fearfully, afar:

Whilst burning through the inmost veil of Heaven,

The soul of Adonais, like a star,

Beacons from the abode where the Eternal are.

 

Adone

Un’elegia sulla morte di John Keats, autore dell’Endimione, Iperione, Ecc.

 

I

 

Piango per Adone – lui è morto!

Oh, si pianga per Adone! benché le nostre lacrime

Non discioglieranno il gelo che accercina sì amato capo!

E tu, mesta ora, scelta fra tutti gli anni

A lamentar la nostra perdita, desta i tuoi oscuri compari,

E insegna loro il tuo dolore, dì: con me

Morto è Adone; affinché il futuro non osi

Obliar il passato, suo destino e fama devon essere

Un’eco una luce per l’eternità!

 

LV

 

Il respiro la cui forza nel mio canto ho invocato

Su me discende; il naviglio del mio spirito è guidato

Lontano dalla riva, lontano dalla folla trepidante

Le cui vele mai si son date alla tempesta;

La massiva terra e lo sferico cielo si fendono!

Lontano, fra la paurosa oscurità, son trascinato:

Mentre arde attraverso l’intimo velo dell’empireo,

L’anima di Adone, come un astro,

Luminosa-guida dalla fedel-dimora degli Eterni.

 

Il giovane John Keats (1795-1821) è deceduto a Roma per tubercolosi. Le sue spoglie trovano riposo nel Cimitero Acattolico di Roma (sito in zona Testaccio e oggi conosciuto anche con il nome di Cimitero degli Artisti e dei Poeti), ufficialmente aperto al pubblico l’11 ottobre del 1821 con editto della Segreteria di Stato e sotto il pontificato di Pio VII Chiaramonti, per via del numero sempre crescente di visitatori stranieri e non cattolici che nel periodo del Romanticismo si recavano a Roma. «Quando nell’inverno del 1821 Keats, che allora abitava a Piazza di Spagna 26 (nell’attuale sede del Museo intitolato a lui e a Shelley), sentì avvicinarsi la fine, mandò il suo amico Severn a vedere il luogo dove sarebbe stato sepolto; e sentendogli poi raccontare che le violette bianche e azzurre e le margheritine e gli anemoni crescevano liberamente fra le tombe, si rallegrò e disse che “gli pareva già di sentire come i fiori gli crescevano sopra”».[2]

Dietro volontà di Keats, gli amici Joseph Severn e Charles Brown commissionarono il suo epitaffio che recita queste parole:

 

This grave contains all that was mortal, of a YOUNG ENGLISH POET, who on his death bed, in the bitterness of his heart, at the malicious power of his enemies, desired these words to be engraven on his tombstone: Here lies one whose name was writ in water

 

Questa tomba contiene i resti mortali di un GIOVANE POETA INGLESE che, sul letto di morte, nell’amarezza del suo cuore, di fronte al potere maligno dei suoi nemici, volle che fossero incise queste parole sulla sua lapide: “Qui giace uno il cui nome fu scritto sull’acqua”

 

 

A sinistra la toma senza nome di John Keats e a destra la tomba dell’amico pittore Joseph Severn

 

 

Qui di seguito la poesia di Keats intitolata To Sleep (Al Sonno):

 

O tu che imbalsami l’immota mezzanotte,

con dita lievi indulgenti ci chiudi gli occhi

già beati al buio, dalla luce

salvi, inombrati in un divino oblio:

o Sommo serenissimo, serra se vuoi

nel mezzo di quest’inno i miei occhi docili,

o aspetta l’amen, prima che sul mio letto

il papavero sparga cullanti elemosine.

Poi salvami, o sul cuscino luccicherà

il giorno andato, e non darà che affanni;

salvami dalla coscienza all’erta che si fa

più forte per il buio – traforante talpa;

gira la chiave nella toppa oliata

e blocca il silenzioso scrigno dell’anima.[3]

 

Proseguendo il percorso che dalla parte antica costeggia le mura di cinta nel versante della Piramide di Caio Cestio, ci inoltriamo nella parte cimiteriale vecchia e già da lontano si scorge un meraviglioso angelo ripiegato sopra una lapide, dove lì riposano lo scultore e poeta americano W. W. Story (autore di questo “Angelo del dolore”) assieme a sua moglie Emelyn.

 

 

L’angelo del dolore: tomba di William Wetmore Story (1819-1895) e della moglie Emelyn (1820-1895)

Subito dopo, a non più di dieci passi da questo contrito angelo, abbiamo la tomba del poeta Percy Bysshe Shelley (1972-1822), di cui sopra abbiamo già detto essere amico e ammiratore di Keats. Anch’egli è di origini britanniche, considerato fra i più influenti lirici del Romanticismo, il quale sembra legare insieme grandi nomi poetici attorno al tema della morte. Lo stesso D’Annunzio apre le sue pagine della Contemplazione della morte con i versi della poesia Il Gombo, contenuta in Alcyone, proprio in memoria della morte di Shelley avvenuta in mare l’8 luglio del 1822 nelle coste liguri del Golfo dei Poeti. Lì, a Villa Magni, nei pressi del borgo antico di San Terenzio, lo attendeva sua moglie Mary (autrice del romanzo Frankenstein) reduce da un aborto, alla quale fu invece consegnato racchiuso in un cofanetto il cuore del marito e le sue ceneri che, il 21 gennaio 1823, furono portate al Cimitero Acattolico di Roma dove lì si trova la tomba del poeta, nella cui lapide v’è incisa la scritta cor cordium (cuore di tutti i cuori) e i tre versi del canto di Ariel (si noti che Shelley diede proprio questo nome alla sua imbarcazione, il cui personaggio rappresenta lo “Spirito dell’Aria”), tratto dalla Tempesta di Shakespeare:

 

Nothing of him that doth fade,

But doth suffer a sea change

Into something rich and strange

 

Niente di lui si dissolve,

Ma subisce una metamorfosi marina

Per divenire qualcosa di ricco e strano

 

Qui di seguito la poesia di Shelley intitolata To Night (Alla Notte):

 

I

Avvìati svelto sull’onda d’occidente

spirito della Notte!

fuori dell’antro offuscato d’oriente

dove hai intrecciato tutto un lungo giorno

di solitudine sogni di gioia e paura

che ti rendono terribile e cara –,

sia veloce il tuo volo!

 

II

Avvolgi la tua forma in un grigio manto

intessuto di stelle;

acceca coi capelli gli occhi al giorno,

bacialo fino a stremarlo,

poi vaga su città, su terra e mare

tutto toccando con la bacchetta oppiata –

vieni, a lungo cercata!

 

III

Quando mi sono alzato e ho visto l’alba

ho preso a sospirarti;

con la luce più alta, svanita la rugiada,

il meriggio che gravava su fiore e albero,

e il giorno allo stremo che non si decideva

ospite odioso a togliersi di mezzo,

ho preso a sospirarti.

 

IV

Morte è venuta, tua sorella, gridando:

vuoi forse me?

Tuo figlio Sonno, soave occhivelato

come un ape meridiana ha sussurrato:

mi anniderò al tuo fianco?

vuoi forse me? E io di rimando,

no, non te!

 

V

Morte verrà quando sarai morta,

presto, troppo presto –

Sonno verrà quando sarai sparita;

all’uno e all’altro non chiederei la grazia

che chiedo a te, amata Notte –

sia veloce il tuo volo che si avanza,

vieni presto, presto![4]

 

Dando le spalle alla tomba di Shelley, incontriamo subito la tomba del poeta della Beat generation Gregory Nunzio Corso (1930-2001), nato a New York da madre abruzzese e padre calabrese, amico di Ginsberg che lo fece conoscere agli altri membri della scena letteraria beat quali Kerouac, Ferlinghetti, Burroughs, ecc.

 

 

In primo piano la toma di Gregory Corso e dietro quella di Shelley

Egli conobbe gli scritti di Shelley durante la sua permanenza in carcere. Poi visse a lungo in Europa, circa dieci anni a Parigi e, tra gli anni ’70-’80, trascorse gran parte del suo tempo in Italia e in particolare a Roma. Adorava leggere Shelley, com’egli stesso scrive in Ho toccato un manoscritto di Shelley: «Le mie mani si sono intorpidite davanti alla bellezza / Quando si sono infilate nella Morte e si sono serrate!».[5]

Prima di morire aveva espresso il desiderio che, dopo i funerali nella chiesa di Our Lady of Pompeii (Nostra Signora di Pompei) a Greenwich Village, le sue ceneri venissero seppellite in Italia, nel cimitero acattolico di Roma, accanto alla tomba del poeta Shelley, cosa che avvenne non con poche difficoltà, in quanto Corso era Cattolico e morì nel Minnesota.

Nel 1987 esce, in prima edizione italiana per le Edizioni di San Marco, Dove my casa?. Il titolo, con la sua singolare commistione linguistica, intende sottolineare tutta la natura oriunda di Gregory. Qui è contenuta un’importante poesia intitolata Spirit, i cui versi sono anche stati scolpiti sopra la sua lapide. E ci auguriamo che in questo nuovo viaggio attraverso la “morte”, Gregory Corso possa avere riconosciuto e raggiunto la propria casa.

 

Spirit

is Life

It flows thru

the death of me

endlessly

like a river

unafraid

of becoming

the sea

 

Spirito

è Vita

Fluisce attraverso

la mia morte

inesauribile

come un fiume

che imperturbabile

diviene

mare

 

Oltre alla mia traduzione, offriamo qui di seguito anche quella di Marisa Di Maggio contenuta in Dove my casa?, Edizione di San Marco, Padova 1987, p. 13.

 

Lo Spirito

è Vita

Attraversa

la mia morte

all’infinito

come un fiume

che non ha paura

di diventare

mare

 

Una meditazione conclusiva su questi tre poeti e sulle medesime tombe impone una domanda: cosa c’è fra loro in comune? La risposta è: l’acqua. Sulle loro lapidi Keats dice che “il suo nome fu scritto sull’acqua”, Shelley riprende l’immagine shakespeareana della “metamorfosi marina” e Corso la metafora del “fiume che diviene oceano”. Questi tre poeti è come se vedessero nella morte un ritorno a quelle acque primordiali, uterine, da cui tutto ha avuto origine. Keats, Shelley e Corso sono tre spiriti dell’acqua.

 

 

Testo e foto di Serse Cardellini

 

 

[1] Shelley’s Poetry and Prose, by Donald H. Reiman and Neil Fraistat, Norton & Company, II ed., New York-London 2002, pp. 407-408 (la traduzione è mia).

[2] Il Cimitero Acattolico di Roma, (a cura di) Johan Beck-Friis, Casa Editrice ALLHM – Malmö, Svezia 1956, rist. Roma 2013, p. 9.

[3] John Keats – Percy B. Shelley. Amore e Fama, (a cura di) G. Palmery, Il Labirinto, Roma 2006, p. 27.

[4] Ivi, pp. 77, 79, 81.

[5] Questi versi di Gregory Corso sono anche citati nel foglio Amici del Cimitero Acattolico di Roma, n. 40, anno 2017, p. 4.

L’autore

Serse Cardellini, poeta, filosofo, antropologo delle religioni, operatore socio-sanitario e operatore in medicina tradizionale cinese. Cofondatore del progetto P.O.A. (Progetto Ospitalità Artisti): progettoospitalitaartisti.wordpress.com