Il REQUIEM di Anna Achmatova

Di M. Bardotti e S.Cardellini

Anna Achmatova (1889-1966) scrisse questo ciclo di poesie dal titolo Requiem negli anni che vanno dal 1935 al 1940, quando suo figlio Lev (avuto con il primo marito Nikolaj Gumilëv fucilato nel 1921) fu imprigionato per cinque anni nelle carceri di Leningrado. A queste poesie, il primo aprile 1957, l’Achmatova aggiunge una prefazione che riportiamo nella traduzione di Carlo Riccio:

Nei terribili anni della “ežovščina” ho trascorso diciassette mesi a fare la coda presso le carceri di Leningrado. Una volta un tale mi riconobbe. Allora una donna dalle labbra bluastre che stava dietro di me, e che, certamente, non aveva mai udito il mio nome, si ridestò dal torpore proprio a noi tutti e mi domandò all’orecchio (lì tutti parlavano sussurrando):

–        Ma lei può descrivere questo?

E io dissi:

–        Posso.

Allora una specie di sorriso scivolò per quello che una volta era stato il suo volto.[1]

L’autorevole Adriano Dell’Asta, Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a Mosca, proprio nell’introdurre il libro che contiene Requiem, Poema senza eroe e le traduzioni dell’Achmatova di alcune poesie di Giacomo Leopardi, scrive:

«La domanda dell’Achmatova che sta all’origine di Requiem, la domanda radicale che non si chiede più soltanto chi sia l’uomo, ma si chiede addirittura se sia ancora possibile parlare dell’uomo nella particolare condizione storica che si è creata, “a sorridere / Era solo chi è morto – lieto della pace” […]. La domanda radicale dell’Achmatova e dalla quale nasce Requiem è quella circa la possibilità di dire un mistero che ha assunto la forma ultima dell’indicibile […]. In questo senso il mondo dal quale nasce Requiem è un mondo dove sembra impossibile ogni domanda, ogni ragione e ogni parola, tanto più quella poetica […]. Eppure è proprio da questo mondo che abbiamo la rinascita non solo del volto dell’uomo ma addirittura del suo sorriso; e questa rinascita avviene esplicitamente attraverso la poesia».[2]

Sì, l’Achmatova a quella domanda radicale risponde “posso”. La poesia ancora può descrivere tutto questo. L’animo umano può risorgere da tutta questa violenta negazione dell’umano.

Dei dieci canti che compongono il Requiem (più i versi della dedica, introduzione ed epilogo) riportiamo qui di seguito l’ottavo, scritto il 19 agosto 1939, nella traduzione di Carlo Riccio.

 

Alla morte

Tu lo stesso verrai – perché non subito allora?

T’aspetto – ho molta pena.

Ho spento la luce e aperto l’uscio

A te, così semplice e prodigiosa.

Prendi per questo l’aspetto che vuoi,

Penetra come un proiettile avvelenato

O furtiva avvicinati come un esperto bandito,

O avvelenami col delirio del tifo.

O con una storiella da te inventata

E a tutti nota fino alla nausea,

Ch’io veda l’azzurra sommità del berretto

E il capofabbricato pallido di paura.

Ora tutto è uguale per me. Turbina lo Enisèj,

Brilla la stella polare.

E l’estremo terrore offusca

Il bagliore turchino degli occhi adorati.

 
[1] A. Achmatova, Requiem, Poema senza eroe, Traduzioni da Giacomo Leopardi, tr. di C. Riccio, Istituto Italiano di Cultura, Mosca 2011, p. 42.
[2] Ivi, pp. 14, 16.

L’autore

Massimiliano Bardotti, poeta, ideatore e conduttore del corso di scrittura: La Poesia è di Tutti. Autore del libro “Il Dio che ho incontrato” (Ed. Nerbini). Cofondatore del progetto P.O.A. (Progetto Ospitalità Artisti): progettoospitalitaartisti.wordpress.com

L’autore

Serse Cardellini, poeta, filosofo, antropologo delle religioni, operatore socio-sanitario e operatore in medicina tradizionale cinese. Cofondatore del progetto P.O.A. (Progetto Ospitalità Artisti): progettoospitalitaartisti.wordpress.com

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