RECENSIONE

L’imperfetto del lutto, di Ennio Cavalli

Di Laura Liberale

 

“Ennio Cavalli, nel suo mestiere di giornalista, è bravo a far domande alle persone. Ma quando scrive poesia dimentica la grazia del machete che apre breccia nel folto e nel sottobosco dell’interrogato. Nella poesia Ennio risponde. Senza nessuno che gli abbia rivolto la misericordia di una domanda, lui si mette a rispondere (…) E qui c’è la risposta, la reazione all’assurdo scippo di Paola Malavasi dal suo fianco, compagna fresca come il vetro al sole. Qui si va a scassinare la sua assenza senza nessuna supplica agli dei di riportarla indietro, senza lo straccio di un’intercessione. Qui si svolge una conversazione amorosa fitta e sorda, senza rumori intorno. L’acustica è da chiesa romanica deserta, da bosco di conifere prima del temporale, quando gli alberi stanno sull’attenti e i loro aghi tremano per il fulmine che si sta avvicinando.”

Questo è l’incipit della dedica che Erri De Luca scrive a Ennio e Paola – Ennio Cavalli e Paola Malavasi – dedica inserita come postfazione ne L’imperfetto del lutto (Nino Aragno Editore, Milano 2008), raccolta di poesie di Cavalli.

Nel 2005, Paola, la compagna Di Ennio, scrittrice da me molto amata, morì improvvisamente, a Venezia.

Ennio ce lo racconta nelle pagine del suo libro, o meglio, racconta a Paola stessa, perché la morte è quell’evento che, vissuto, ci toglie ogni possibilità di narrazione: diventiamo i “trapassati”, coloro che possono soltanto più essere narrati. Anche la nostra nascita, a ben pensarci, è un vissuto di cui ci appropriamo solo attraverso il racconto altrui, per completa dimenticanza. E così mi piace pensare che Ennio racconti a Paola – Paola “smemorata” nel varco della soglia – della sua morte, di come è stata, per restituirla a sé stessa, per placare la paura dell’oblio, per farla rinascere.

Lo dice anche lui, in una manciata di versi:

“Appena morti siamo come neonati,

neonati alla morte.

Non sappiamo chi siamo,

il nome che ci tocca…

Per questo ci legano un braccialetto al polso,

coi dati precisi.”

 

“Paolina, adesso ti spiego cos’è successo. Sei morta in un istante e quaranta minuti. L’istante in cui hai perso i sensi e i quaranta minuti di inutili tentativi per rianimarti. Un minuto per ognuno dei tuoi anni. Eravamo nella nostra camera d’albergo, a Venezia, al Monaco & Gran Canal. Era la mattina del 18 settembre 2005. Ci eravamo appena alzati, dopo la serata del Premio Campiello.

Ho voglia di un caffè!, hai detto tranquilla, uscendo dal bagno. Ho preso il telefono per ordinare la colazione. In quel momento il tonfo ovattato, sulla moquette. Mi sono girato. Il mio sguardo ti cercava nella stanza e con la coda dell’occhio ho visto l’altra, la tua ombra distesa, silenziosa.

Credevo fosse un malore, ho chiesto soccorso, ti ho messo un cuscino sotto la testa. Hai cercato di dire qualcosa, forse il nome di Lorenzo, il tuo bambino. Ti ho fatto una carezza: Amore, adesso arriva il caffè.

A un tratto i tuoi occhi azzurri hanno avuto come un calo di corrente, il bel colore è sceso di un tono, poi si è spento del tutto. Ma io ancora non capivo. Avevo smesso di capire.

Sono arrivati i soccorsi. Eri sempre distesa sul pavimento. Ho preso i tuoi occhiali dal comodino e li ho infilati nello zainetto, potevano servirti all’ospedale. Quaranta minuti più tardi, il medico del 118, senza smettere con le scariche elettriche e le iniezioni, ha scosso la testa: La signora è morta.

Sembrava la battuta di una fosca commedia. La signora è servita, come se fosse arrivato il caffè e la giornata potesse ripartire, a sorsi, a unghiate, come sempre. Invece sul vassoio della vita non c’era più nulla, non c’eri più tu. C’era la tua ombra celestiale, sulla moquette. Sei morta con la voglia di un caffè. Più bella che mai, senza l’amaro in bocca. Come un cucciolo d’orso al primo letargo. Come una sirena esiliata su una secca. Come la regina di Non Si Sa Dove, la bocca tappata da una foglia d’oro.

Sulla poltrona c’era il vestito da sera della sera prima. Per terra le scarpe col tacco che ti eri tolta appena rientrati in albergo. Dopo la festa del Premio, pioveva forte e noi senza ombrello, tenendoci per mano, ridevamo, correvamo.

Ti hanno rimessa a letto, come se dovessi continuare a dormire. Come se ti fossi svegliata giusto in tempo per partecipare alla tua morte, per morire tra le mie braccia. Ti hanno coperta col lenzuolo, ma io vedevo i tuoi capelli biondi. Poi ti hanno portata su un’isola, a San Michele. Ti ho raggiunta in vaporetto, con la busta di una boutique in mano. Conteneva le cose che avevi comprato, passeggiando con me per Venezia. Le ho consegnate per la vestizione. Eri sempre più sola, all’obitorio, in un mondo di piastrelle bianche e di alluminio. Ti ho parlato sottovoce. Ho scacciato una mosca. Non ho più resistito a vederti così.

Sono scappato tra le tombe dei poeti, lì vicino. Brodskij, Pound. Nell’Isola di San Michele sono sepolti anche Diaghilev e Strawinsky. Ci eravamo sempre proposti una visita, senza mai deciderci. Ho girato senza meta, reparto luterano, reparto greco-ortodosso. Li ho scovati, uno per uno. Accanto alla tomba di Brodskij c’è un secchiello da spiaggia, un secchiello da bambino, pieno di pioggia e di penne da scrivere. Ne ho lasciata una anch’io, a nome tuo. Pound ha solo il nome sulla lapide, tra edera e bacche. Per Strawinsky, sul marmo basso, qualcuno ha ricostruito uno spartito di sassi e cortecce. Sul sacello di Diaghilev sono esposte scarpette ammuffite da ballerino e uno zoccolo spaiato col sopra di scorza di betulla.

Mi distraevo così, senza allontanarmi troppo dal posto dove ti avevo lasciata. Avevi il nullaosta per stare tra gli artisti altre ventiquattr’ore. La cosa ti avrebbe fatto sorridere. Anche tu volevi ballare a piedi nudi nella vita, come Isadora Duncan sulla scena. Sublime, tenace, vigorosa. La Duncan morì strozzata da una sciarpa impigliatasi nelle ruote dell’automobile, sul lungomare di Nizza. E tu? Quale sciarpa si è impigliata, in quali ruote, nella stanza sul Canal Grande, la mattina che dovevamo tornare a casa? (…)”

 

Quale tempo verbale usare per quell’ineffabile che è la morte? Come esprimere il non-tempo con la nostra scrittura lineare?

Dirla forse col paradosso, con la domanda sconfitta, che sa a priori l’assenza di risposte.

 

“Dov’eri adesso?

Dove sarai l’anno che fu?

Del domani cosa ricordi?

Ridi e piangi senza confini?

Ti mancherei, se fossi lì? (…)”

 

Quali storie raccontarci per lenire il dolore? A quali tradizioni attingere, a quale Sapienza?

Rifarsi piccoli, credere alla Parola, alla riconciliazione con quel che siamo sempre stati e non mancheremo mai di essere, una volta guarita l’infezione della ma̅ya̅ .

 

“Dovrebbero dirla agli adulti, non ai bambini,

agli adulti che non trovano pace

la favola che un giorno ci si ritrova in Cielo,

al completo, la frutta sul tavolo,

l’amore com’era.

Fine della vertenza, concilio ecumenico.

Felici, storditi non meno di prima.
Ma senza questa spina infetta,

senza questo freno in gola.”

 

Come riuscire a tornare al normale, al quotidiano della vita, quando l’assenza ha esteso le sue faglie ovunque?

Non interrompere il dialogo, il filo del discorso che tesseva il mondo per i nostri occhi e per quelli amati. Accettare la perdita della “fame” di mondo, confidando nel ritorno del desiderio.  

 

“Per il resto non è cambiato granché.

C’è sempre fila alla posta.

Ogni tanto il traffico si blocca

ai piedi di un motociclista esanime.

Se arriva un acquazzone, ritiro i panni

espongo i fiori.

I conviventi del piano di sotto

continuano a spostare mobili.

Ah sì, hanno aperto un nuovo Sma,

davanti a casa.

Sul banco del pesce c’è il pescespada,

sul banco della carne la carne danese,

fra i tipi di pane puoi scegliere quello scuro di Vèroli.

Io, questa sera non mangio.”

 

E non farsi impigliare nella rete della colpa. Siamo sì sopravvissuti al nostro amore, ma è così che il Tempo gioca la sua illusione: con i prima e con i dopo. Cosa sarà il prima e cosa il dopo nel Senza-Tempo?

    

 

 

 

 

L’autrice

Laura Liberale, laureata in Filosofia (Università di Torino), è dottore di Ricerca in Studi Indologici (Università La Sapienza di Roma) e ha conseguito il Master in Death Studies & the End of Life (Università di Padova).

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