TRE POESIE DI LÈRMONTOV SULLA MORTE

TRE POESIE DI SCHIELE SULLA MORTE

di Massimiliano Bardotti

Se dovessi dare un tratto e un colore alle parole poetiche di Michail Lèrmontov (1814-1841) non esiterei a rifarmi ai dipinti di Egon Schiele (1890-1918). Vi trovo un’affinità elettiva fra i due artisti, entrambi morti in giovane età. Affinità di sacri fuochi autunnali.

Michail Lèrmontov, Liriche e poemi, (tr. di T. Landolfi) Einaudi, Torino 1982, pp. 37, 65, 68.

 

Morte

Arde il tramonto in fascia fiammeggiante,
Lo ammiro silenzioso alla finestra;
Forse risplenderà su me, domani,
divenuto insensata e fredda salma;
Un sol pensiero nel deserto cuore:
Quello di lei. – Oh sí ch’ella è lontana,
Né una sola cadrà lacrima sua
Sopra il mio corpo pallido e immoto.
Non baceranno con labbro l’addio
Né fratello né amico le mie guance:
Per compassione da straniere mani
Sarò sepolto nella nuda terra.
Affonderà il mio spirito in immenso
Abisso!… Ma tu! – Oh, piangi, mia cara!
Nessuno, al par di me, poteva amarti
Con tanto ardore e con tanta purezza.

Morte

Della giovane vita è rotto il filo,
È compiuta la via, sonata è l’ora,
Tempo è d’andare dove non son futuro,
Né passato, né eterno, né pur anni,
Ove non sono attese né passioni,
Né pianto amaro, né gloria, né onori,
Ove il ricordo giace in fondo sonno,
E nella stretta cella della tomba
Non sente il cuore che il verme lo rode.
Tempo è. Son di terrene cure stanco.
Dovrebbero il fragore di piaceri
Senz’anima, di inutili pensieri
Le torture, la turba di sé amante,
Che a forza di saggezza è fatta sciocca,
Ed il perfido amore delle donne
Allettarmi nel punto della fine?
Dovrei dunque voler vivere ancora,
Per soffrire secondo già soffrii
Ed amare altrettanto? Onipotente!
Non potevo durare, Tu lo sai;
Che mi cinga l’inferno tutto intero,
Ch’io mi tormenti – sono pronto, pronto –
Due volte più che nei passati giorni,
Ma lontano dagli uomini, lontano.

 

La morte

Accarezzato da fioriti sogni
Calmo dormivo e mi destai d’un tratto,
Ma sogno era esso pure il mio risveglio;
E nel credere rotta la catena
Di fallaci visioni, doppiamente
Dall’immaginazione ero ingannato,
Ove sia solo questa che ci crea
Quel nuovo mondo, il quale ci costringe
L’insensibile terra a disprezzare.
Mi pareva che col suo freddo spiro
Morte m’andasse già diacciando il sangue;
Lento ma forte mi batteva il cuore
Con non so quale fremito dolente,
E il corpo, a tal vedendosi, cercava
Rattenere dell’anima impaziente
Gli slanci, ma il compagno antico questa
Con dispetto ascoltava, e le rampogne
Facevano penoso il lor distacco.
Infra due vite, orribilmente a mezzo
Fra speranze e rimpianti, non all’una
Io pensavo, né all’altra: un solo dubbio
Il petto m’agitava, dubbio estremo!
Io non capivo come si potesse
Felicità provare o amare pene
Soffrire mai, lontano dalla terra,
dove la prima volta avevo inteso
D’essere vivo e che era sconfinata
La mia vita, e cercato avidamente
Di conoscere me stesso, e tanto amato
E perso, amato col mortale corpo
Senza di cui non comprendevo amore.
Così pensavo, e persi il sentimento.
L’istante appresso ero daccapo vivo,
Ma non vedevo intorno a me gli oggetti
Terreni e più non ricordavo i miei
Dolori, gli angosciosi turbamenti
Pel prossimo destino e per la morte:
Comprensibile e chiaro m’era tutto
E su nulla me stesso interrogavo,
Come fossi tornato ove vissuto
Avevo a lungo e tutto m’era noto;
E solo una gravezza del mio volo,
Appena percettibile, il fugace
Mi rammentava mio terreno esilio.

 

Ed ecco nello spazio senza fine
Innanzi a me fu squadernato un libro
Con gran fragore da un’ignota mano.
E molto v’era scritto. Ma soltanto
La mia tremenda sorte, per me, chiara
Con parole di sangue era tracciata:
Incorporeo spirito, va’ e torna
Sulla terra. E d’un tratto il libro sparve
E si fece deserto il cielo azzurro;
Angelo o triste demone d’inferno
Gli eterei campi non fendeva al volo,
Solo i foschi pianeti, nella loro
Corsa, appena gettavano favilla.

Io fremetti, leggendo la mia sorte.
Che? Volare di nuovo sulla terra
Per rivedere i mali, il cui motivo
Era soltanto in fanciulleschi errori?
Le umane sofferenze avrei veduto,
D’occulte pene le cause da nulla,
Saputo il mezzo a far felice l’uomo,
Senza però poterglielo insegnare. 

Ma tal era, e giù venni. E in prima vidi
La tomba con il ricco monumento
Dove il mio corpo avevano sepolto.
E volli penetrare nella tomba,
E scesi nella lunga cella in cui
Marciva il mio cadavere, e vi stetti.
Qui si vedevan l’ossa, là la carne
A brindelli pendeva turchiniccia,
Vidi le vene col sangue rappreso.
Disperato sedevo e contemplavo
Come in fretta sciamavano gli insetti,
Il cibo della morte divorando.
Un verme ora strisciava dalle occhiaie,
Ora riscompariva nel deforme
Teschio. E che? ognuno dei suoi movimenti
Di convulso dolore mi straziava.
Alla perdita assistere dovevo
D’un amico vissuto tanto a lungo
Coll’anima mia, solo, ultimo amico
Che ne aveva diviso gioia e pena,
E volevo aiutarlo: invano, invano.
I presti segni della distruzione
Procedevano – e ancora, ancora vermi:
Si disputavano il restante cibo,
E rosero l’infetta, umida pelle.
Restavan gli ossi, e sparvero anche quelli,
E fu polvere là dov’era il corpo.

E pieno d’una tal cupa speranza,
Sopra i miseri resti io mi gettai
Cercando di scaldarli con il fiato,
Coll’immortale mia vita avvivarli.
Oh quanto dato avrei delle terrene
Delizie per sentire un solo istante
Qualche calore in essi. Invano: solo
Obbedienti all’eterna legge, freddi
Restarono, come il disprezzo freddi.
Furiosamente maledissi allora
E mio padre, e mia madre, e il mondo tutto.
Disperato in eterno, testimone
Della crudele distruzione, a lungo
Contro Dio mormorai, pregar temendo,
E volevo vituperare il cielo,
Volevo dire…
Ma mi morì la voce, e mi destai.

 

Egon Schiele, Io eterno fanciullo, (tr. di S. Alfonsi) Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1990, p. 73.

 

Autoritratto

Io sono per me e per quelli

ai quali la morbosa sitibonda smania d’esser liberi

tutto a mio avviso effonde,

ed anche per tutti, perché tutti amo – anch’io.

Sono tra i distintissimi il più distinto –

e tra chi rende, il massimo. –

Sono umano, amo la morte e amo la vita.

Morte e ragazza, 1915

Uomo di stato

Allo scopo,

Muri, gradinate di muri,

Monti dopo monti uniformemente. –

Vita mortale, morte.

 

Quattro alberi, 1917

Bosco d’abeti

Entro a visitare

la cupola rossonera della fitta abetaia,

che vive senza rumori e a gesti osserva.

Gli assi oculari si rinserrano,

respirando visibile aria bagnata.

Vero! – È tutto morto in vita.

L’autore

Massimiliano Bardotti, poeta, ideatore e conduttore del corso di scrittura: La Poesia è di Tutti. Autore del libro “Il Dio che ho incontrato” (Ed. Nerbini). Cofondatore del progetto P.O.A. (Progetto Ospitalità Artisti): progettoospitalitaartisti.wordpress.com