L’assistenza è un’arte

Un’intervista rilasciata nel 2014 da Nicola Mosca, infermiere palliativista di Milano, ad una giornalista che collabora con la rivista dell’Associazione “Gli asini” (www.gliasini.it).

Ringrazio per avermi dato l’occasione di rispondere a domande riguardanti il lavoro di questi anni, ammetto di averci preso un po’ la mano e …. una semplice intervista si è quasi trasformata in un “testamento professionale”.

Ne parlavo con una cara paziente la quale mi chiese un chiarimento sul perché definirlo ”testamento professionale”, le stavo medicando le gambe e lei nel testamento vedeva già il possibile cambio di operatore… il turnover è una vera tragedia per chi si è abituato ad un operatore e una salvezza per chi ha la sfortuna di trovare un cattivo operatore e quindi non lo definirei un indicatore totalmente negativo. Io risposi che il nostro lavoro è tra i più belli e difficili del mondo, l’uomo è l’organismo più semplicemente complesso presente in natura e quando è ammalato lo è ancora di più. E aggiunsi: “Questo lavoro non lo si può fare bene per troppo tempo, così quando smetterò di fare l’infermiere andrò a fare il contadino” e lei mi disse: “Eh sì, la terra è bassa!”. Io la guardai, lei sdraiata a novanta centimetri da terra e io con una sua gamba tra le mani e la schiena curva le dissi: “Ma perché lei è alta?”.

Spero che le mie riflessioni non siano ritenute troppo critiche o competitive nei confronti dei medici: il mio scopo è focalizzare un punto di vista centrato sul ruolo infermieristico e, per far questo, prenderò come riferimento Cicely Saunders, un’ infermiera laureata in medicina.

Il nostro modello di cura è esclusivamente medico-centrico e questo non è sempre funzionale né per il medico né per il paziente, bisognerebbe invece iniziare a ragionare su modelli interdisciplinari di cura.

A domicilio non ci sono né divise e camici, né ambulatori e scrivanie, né porte da chiudere e parenti da far uscire. Niente di tutto questo, solo tu e la casa con il paziente e la sua famiglia dentro, una persona da sola non ce la può sempre fare. Recentemente abbiamo fatto una visita in quattro: due infermieri, un medico e uno psicologo. Attivazione urgente della durata di quattro ore per una giovane donna agonica e sofferente, il marito richiamato dal lavoro con urgenza, due figli, uno alla scuola materna e l’altra alle elementari che sarebbero tornati a casa di lì a poco, in casa tre nonni di cui uno svenuto, due sorelle convalescenti, diversi amici e un prete. Obiettivi: gestire farmacologicamente i sintomi della paziente, preparare il marito alla comunicazione con i figli, sfoltire le persone presenti in casa, sostenere il marito e i bambini dando loro la possibilità di stare vicino alla mamma e accompagnarla dignitosamente fino alla fine. Se fossi stato da solo, l’unico mio pensiero sarebbe stato quello di uscire di casa il prima possibile e questo anche se fossi stato un medico. Noi “vecchi infermieri” riusciamo a intuire con relativa precisione il valore di un medico e in questi vent’anni di lavoro ho avuto la fortuna di collaborare con medici splendidi sia sul piano professionale che umano. I migliori medici che ho conosciuto però erano donne e, non a caso, con almeno un infermiere in famiglia.

Il nostro lavoro si basa sull’idea che la morte possa essere vissuta come un’ esperienza positiva, di senso per la vita. Su questo tema preferisco tornare più avanti.

La storia delle Cure Palliative moderne è iniziata negli anni ’50 in Inghilterra con Cicely Saunders. Era una donna benestante, studiò filosofia e scienze politiche. Durante la seconda guerra mondiale, si arruolò come Infermiera volontaria poi finì gli studi nella scuola di Florence Nightingale fondatrice dell’assistenza infermieristica moderna. Iniziò a lavorare in alcuni centri che offrivano assistenza ai malati terminali. Cicely Saunders soffriva di scoliosi aggravata dagli sforzi che notoriamente la professione infermieristica richiede…. i letti fanno diventare tutti i pazienti alti uguali… Non potendo più fare l’infermiera, studiò per diventare assistente sociale e continuò a lavorare nei centri per malati terminali. In uno di questi centri, gestito da suore, osservò che la morfina veniva somministrata per via orale e con frequenza costante, metodo efficace per gestire il dolore senza creare dipendenza né assuefazione mentre ancora oggi gli antidolorifici oppioidi vengono somministrati solo al momento del dolore acuto. Cicely Saunders decise di ritornare a fare l’infermiera perché di questo voleva occuparsi, ma un amico medico le consigliò di iscriversi a medicina perché sono i medici che decidono le cure e sono i medici che abbandonano i pazienti e come infermiera non l’avrebbero ascoltata.

Si iscrisse così a medicina, in cinque anni diventò medico e da lì tutta la sua vita professionale e personale si concentrò sulle Cure Palliative: studio, sperimentazione, pubblicazioni scientifiche. Ha ricevuto più di sessanta lauree ad honorem, i massimi riconoscimenti, ma è stata anche una donna di grande fede: parallelamente al suo lavoro medico-scientifico c’era questa spinta molto forte.

Le Cure Palliative sono Donne, sono state fatte da donne e forse non è un caso. Forse perché l’esperienza del prendersi cura delle persone appartiene più alla sfera femminile. Io credo che tutti noi siamo fatti sia di maschile che di femminile e quindi le Cure Palliative non escludono a priori gli uomini. La donna è l’elemento di congiunzione del ciclo vitale, nascita e morte. Per questo motivo partecipai ad un congresso per ostetriche dove uno studioso disse che la nascita dovrebbe essere un momento privato, protetto in un ambito domestico e seguito solo da una persona, possibilmente una donna esperta che durante il parto stia seduta nell’angolo della stanza a lavorare a maglia. Nel mio immaginario, potrebbe essere una mamma che aiuta una figlia a partorire così come una figlia potrebbe aiutare una mamma a morire. Se veniamo al mondo con parto naturale il nostro primo pianto sarà consolato dalla nostra mamma.

Sul modello dell’hospice creato da Cicely Saunders nel 1967, anche grazie alle donazioni delle persone curate (uno di loro le diede 500 sterline dicendole: “Sarò una finestra nella tua casa”), sono stati strutturati molti hospice nel mondo, caratterizzati da un approccio globale, in grado di affrontare il dolore della malattia terminale, che è un dolore totale perché colpisce la parte fisica, psicologica, spirituale e sociale quindi tutta la dimensione umana. Per rispondere a tutto questo dolore, ci vuole un posto e un’équipe che sia in grado di prendersene cura. È interessante come, negli ultimi anni, le Cure Palliative si stiano diffondendo anche come interesse generale, nonostante alcuni operatori (fortunatamente pochi) non sappiano ancora cosa siano e certi medici (fortunatamente pochi) prescrivano le “cure pagliative”, non sapendo che non hanno nulla a che fare con la caccia (mio zio era un cacciatore e impagliatore) o con qualche cura alternativa che utilizzi i principi curativi della paglia. L’interesse per le Cure Palliative è generale anche perché coinvolge trasversalmente tante discipline: alcune équipe hanno nel loro interno anche il filosofo.

La morte è un mistero che coinvolge tutti ma mi domando: c’è anche un interesse che dipende da un vissuto sociale, di non senso, di mancanza di prospettive in una società che ha bisogno di Cure Palliative?

Le Cure Palliative in Italia erano, e in alcune zone lo sono ancora, in carico al volontariato, ad associazioni che attraverso donazioni pubbliche e private erogano servizi di supporto ai pazienti e agli operatori, come ad esempio la Fondazione Floriani, presente a Milano dal 1977, con la quale ho avuto la fortuna di collaborare. In seguito alla spinta di associazioni, movimenti e operatori, nel marzo 2010 è stata data alla luce la Legge 38. In Lombardia il decreto attuativo di riferimento è il 4610 del dicembre 2012 che prevede l’accesso diretto del paziente e della sua famiglia all’équipe di Cure Palliative da loro scelta e l’immediato avvio alle cure previo prescrizione del medico curante, ospedaliero o specialista. Di fatto molte persone ci conoscono tramite il passa parola professionale o amicale… recentemente ci è capitato di assistere la moglie di un paziente da noi assistito l’anno prima.

Le Cure Palliative fanno parte dei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) e la Legge 38 sancisce il diritto di tutti gli Italiani ad accedere alle Cure Palliative. Purtroppo non c’è ancora la consapevolezza di questo diritto, anche se sono già leggibili le prime cause civili e penali per omissione di Cure Palliative; d’altra parte, il tabù che circonda la morte porta a non affrontarla se non alla fine. Troppo spesso veniamo chiamati per interventi d’urgenza, per sedare dei sintomi. Io le chiamo, provocatoriamente, “prese in carico veterinarie” attivate su persone già agonizzanti. È un approccio che noi non condividiamo come prassi, dico noi perché mi riferisco alla nostra équipe.

Non lo condividiamo, non lo accettiamo perché non ha senso. Quando lavori in emergenza non hai tempo di fare un percorso e le Cure Palliative sono un percorso.

Questo è un PRIMO PUNTO fondamentale delle Cure Palliative, se ci si attiva quando non c’è più tempo, si sono lasciati soli il paziente e al sua famiglia nel dolore, nel vuoto. Noi stessi non veniamo compresi perché si agisce solo sui sintomi, farmacologicamente: fai un iniezione e poi il paziente muore e la famiglia associa la puntura alla sua morte. Insomma, non si è costruita alcuna fiducia, non c’è stato il tempo di prepararsi, di sistemare le cose. Invece è proprio il tempo prima, anche se non c’è il dolore fisico, il tempo più prezioso, anche perché è l’ultimo per intraprendere un percorso. Inoltre molti non accedono alle cure per mancanza di fondi e penso sopratutto ai pazienti non oncologici.

Un SECONDO PUNTO riguarda la comunicazione. Penso che le Cure Palliative debbano essere presenti già durante le cure attive, come la chemioterapia, affiancando il medico specialista e iniziando a instaurare un rapporto con il paziente e la sua famiglia. Invece questo non si fa e molti oncologi non comunicano e tengono agganciati i pazienti fino alla fine con la particolarità che quando il paziente non riuscirà più ad andare dall’oncologo, l’oncologo non andrà a casa del paziente. Il percorso di consapevolezza ha bisogno di tempo, incontriamo ancora tanti pazienti che credono di avere “cose che poi passano”. Non credo sia corretto affrontare la questione in modo anglosassone perché non siamo anglosassoni, ma neppure sia corretto non dire niente o peggio dire bugie; dobbiamo trovare lanostra modalità adattata di volta in volta alle diverse situazioni.

Il TERZO PUNTO è la riunione d’équipe. L’équipe è l’unico strumento in grado di affrontare il dolore totale. Ogni équipe ha la sua storia, la sua esperienza e le sue modalità operative ma tutte devono operare secondo le normative vigenti e nel rispetto della procedure validate. In un modello sanitario come quello della Regione Lombardia, in cui operano molteplici enti erogatori, spetta alle ASL vigilare per garantire che tutti lavorino in modo appropriato.

Infine il QUARTO PUNTO è il grande lavoro culturale da fare. “Cure Palliative” sono parole che recano con sé l’idea di qualcosa di negativo. Ne consegue che le persone si approcciano alle Cure Palliative come se fossero qualcosa di falso o sostanzialmente inutile. Invece le Cure Palliative sono reali, utilizzano farmaci veri e non solo morfina, sono fatte di esperienza, studi clinici ma anche di relazione, una relazione in grado di curare. Succede frequentemente che, entrando a casa e avvicinandoci al letto, il paziente ci riferisca che il dolore si sia ridotto dal momento in cui siamo arrivati. La nostra medicina ha bisogno di relazione, penso che una motivazione del successo delle “cure alternative” sia la risposta al bisogno di una buona relazione di cura, di un approccio olistico e, in questo senso, le Cure Palliative sono una novità e un’opportunità per la nostra medicina.

Cosa spinge ad approcciarsi alle cure palliative? Forse una frase molto interessante di Cecily Sounders lo spiega: “Sono stata infermiera, sono stata assistente sociale, sono stata medico. Ma la cosa più difficile di tutte è imparare ad essere un paziente.” Ecco, arrivi ad un certo punto e capisci che davanti a te c’è un percorso che devi condividere. Chi si occupa di Cure Palliative di solito ha una certa età, esperienza sufficiente per dare senso a quello che fa e al perché lo fa. Ci sono diverse motivazioni e ognuno ha le sue, conta sopratutto la storia personale. Perché si sceglie di imparare e fare una professione? Perché lo si fa?

Sono risposte che spesso si trovano nella storia dei primi anni di vita, nelle relazioni affettive, è lì che si muove tutto. Le Cure Palliative danno la possibilità agli operatori di giocare le loro capacità empatiche, di percepire la compassione e immaginarsi il dolore altrui. Con questo lavoro abbiamo la possibilità di rielaborare i nostri vissuti, di sentirci riconosciuti e riconoscenti e di respirare la voglia e il piacere della vita ogni volta che finiamo una visita. È un lavoro che mette in gioco competenze diverse. Sei portato a immaginare cosa faresti tu in quella situazione, cosa vorresti, cosa ti piacerebbe. Immedesimarsi è una strategia per trovare delle possibili soluzioni, insieme, in équipe, ma va anche detto che le Cure Palliative sono fatte di silenzio, ascolto, tempo e attesa. Non tutti gli operatori di Cure Palliative la vivono allo stesso modo. Per alcuni giovani medici sono anche la possibilità di lavorare da subito e senza specialità.

Non esiste la specialità in Cure Palliative, attualmente ci sono master post laurea e l’esperienza. Mi ricordo una giovane dottoressa piccola e pallida, con il terrore di avvicinarsi alle persone agoniche, sbiancava, era visibile la sua sofferenza; oppure un medico che faceva mille cose e quella delle Cure Palliative era “un di più”, forse il terzo lavoro, affrontato con superficialità. Durante una cena ad un congresso, un medico ha definito le Cure Palliative “la medicina dello scazzo” forse per il relativo rischio di fare dei danni o perché il medico è alleggerito dalla mancata aspettativa di guarigione del paziente. I medici più anziani si stanno realizzando nell’accademizzazione e nella lobbizzazione delle Cure Palliative, e questo mi ricorda la fine del jazz, della libera improvvisazione, della sperimentazione.

Anche per gli infermieri ci sono due “macro categorie”: una dell’infermiere laureato con il master in Cure Palliative, attento e rigoroso nelle procedure, presente a tutti i corsi di aggiornamento sia da fruitore che da docente; l’altra dell’infermiere più anziano, con più esperienza, osservatore e grande bevitore di caffè ma frequentemente più impacciato.

Infine, che dire degli operatori che non si sono mai occupati di Cure Palliative, non le conoscono e spesso le guardano con diffidenza non comprendendone il senso.

E poi, in questo momento di crisi, perchè sprecare soldi pubblici? In fondo le persone sono sempre morte e possono continuare a farlo anche senza le Cure Palliative. Ma questi operatori non pensano che la maggior parte degli accessi in pronto soccorso sono di origine ansiosa, provengono dalla paura ma a scopo tutelativo vengono fatti comunque tutti gli accertamenti del caso. Molte delle persone che non hanno avuto accesso alle Cure Palliative finiscono i loro giorni nei reparti di medicina dopo ricoveri d’urgenza o peggio su una barella del pronto soccorso. Non mi stupirei se, considerando i costi derivanti da situazioni di questo tipo, si evidenziasse anche l’economicità delle Cure Palliative.

L’occasione che intravedo è quella di un ritorno alla relazione nella cura. È un bisogno di tutti. Certamente le procedure e i protocolli aiutano l’operatore, ma è la relazione alla base delle cure di fine vita. Penso che la cura fondata sulla relazione sia una relazione in grado di curare, una relazione curativa.

Come e quando hai deciso di occuparti di cure palliative?

Ho studiato da infermiere perché non sapevo cosa fare. Ho avuto la fortuna di avere genitori che mi hanno lasciato libero di fare le mie scelte. Debbo però dire che, quando guardo alla mia infanzia attraverso mio figlio, ritrovo un bambino cresciuto da solo, con vissuti di abbandono, alcuni momenti di mancato accudimento, una relazione affettiva difficile, carente, dovuta a situazioni di stress, di troppo lavoro, di fatiche. Nel bene e nel male non ho avuto una guida. In seconda superiore mi ritirai da scuola e andai a lavorare in fabbrica, dopo circa tre mesi di officina meccanica decisi di tornare a scuola e di finire il biennio. A quel punto mio padre, su suggerimento di un collega ferroviere, mi disse: “Vai a fare l’infermiere”. Pagavano seicento mila lire al mese fin dal primo anno di studio, (in officina duemila e cinquecento lire all’ora), così decisi di provare ma senza una vera motivazione. Avevo i capelli lunghi, fumavo, bevevo e suonavo in un gruppo rock, orientato sempre alla sperimentazione. Per frequentare i tirocini nei reparti, rasavo i capelli ai lati e li nascondevo sotto il berretto bianco. Ottenuto il diploma, mi confessarono che in pochi credevano avrei finito e invece ho finito perché quello che cercavo era la possibilità di unire lo studio alla pratica. Poi il mio percorso formativo è continuato in modo “straordinario”, basti pensare che solo l’anno scorso ho conseguito la maturità in tecnico dei servizi sociali frequentando tre anni in due in una scuola pubblica serale a Quarto Oggiaro e l’anno prossimo farò una docenza per un master di primo livello dell’università di Milano sull’assistenza domiciliare per medici, infermieri e operatori della riabilitazione.

Fino agli anni settanta la professione infermieristica era accessibile solo alle donne in convitto e le scuole erano gestite da suore. Quando ho frequentato io, c’era ancora come direttrice una suora, non la ricordo fisicamente, l’ho vista poche volte perché era ammalata e poco presente ma ricordo il contesto: l’inaugurazione del triennio scolastico in una sala non troppo grande e molto affollata.

Quando iniziai ad occuparmi di Cure Palliative, mi ricordai soltanto una frase del discorso fatto dalla direttrice il giorno dell’inaugurazione: “…non dovete diventare dei piccoli medici ma dei grandi infermieri…”.

E’ una frase-chiave: l’infermiere fa cose che i medici non fanno e viceversa.

Io ho iniziato a lavorare a vent’anni e in vent’anni ho vissuto molte esperienze di approccio alle persone ammalate e, se non sei troppo chiuso in te stesso, con l’esperienza sicuramente qualcosa impari. Il medico invece inizia molto più tardi ad avvicinarsi davvero alle persone ammalate e l’aspetto relazionale non viene approfondito durante il percorso di studio ma si affina con l’esperienza.

Il medico poi è una figura idealizzata, maschile e quando è donna c’è sempre un po’ di diffidenza. Il suo principale obiettivo è guarire e, in alcuni casi, quando non è più possibile guarire abbandona il paziente. Quando ho iniziato a lavorare non esistevano gli OSS (Operatori Socio Sanitari) e noi infermieri avevamo un ambito di operatività vastissimo che andava dalla pulizia dei letti agli interventi di emergenza in assenza del medico. Poi hanno deciso di farci diventare dei laureati e di affiancarci delle figure intermedie cui delegare l’accudimento della persona, così adesso infermieri e infermiere, spesso, stanno dietro ai registri a scrivere e dicono agli OSS cosa fare. Mi raccontò un amico OSS che in RSA a volte gli infermieri non li guardano, non li salutano. Insomma, sono diventati dei piccoli medici maleducati. Questa confusione di ruoli è acuita proprio dalla laurea cioè dalla possibilità di anteporre al nome la parola dottore. È una parola che crea un conflitto di identità fra ruoli e che non è funzionale alla famiglia e al paziente. In questi anni ho conosciuto medici che facevano gli infermieri e infermieri che facevano i medici, medici e infermieri che facevano gli psicologi mentre invece è importante nell’équipe mantenere ruoli definiti, seppur sfumati quando serve, perché ci vuole flessibilità e la flessibilità garantisce tempi brevi di intervento quando servono.

È importante definire i confini dei ruoli perché sono il collante per ogni elemento dell’équipe che altrimenti non starebbe insieme. Il lavoro di accudimento che è stato tolto all’infermiere è fondamentale ed è questa la dimensione che ho ritrovato quando ho iniziato a fare le Cure Palliative. È importante perché prendersi cura insieme a un famigliare è una modalità di condivisione, l’inizio di un percorso di accompagnamento, ti fai carico totalmente della persona e ho scoperto che, quando questo accadeva, per me era bello.

La laurea degli infermieri dovrebbe rinforzare questo aspetto, di responsabilità e di tutela nei confronti del paziente.

Ti racconto la storia di nonno Giuseppe accaduta in un ospedale vicino a casa sua. Un giorno, il telegiornale raccontò di un prode e moderno frankenstein, dottor non ricordo, capace di riattaccare i pezzi del corpo. Questo era quello che aveva capito nonno Giuseppe guardando il telegiornale e, quando per un incidente perse il pollice della mano sinistra, non se ne preoccupò molto se non per il fatto di non riuscire più a ritrovarlo. Strappato e lanciato da una catena metallica in qualche angolo dell’officina meccanica. Giunto in ospedale, il dottor non ricordo gli riattaccò il dito con un intervento che prevedeva l’inserimento del dito ricucito nell’addome per facilitarne la cicatrizzazione ma il dito, forse per dispetto, si distaccò. Il dottor non ricordo, offeso da quel dito ribelle, propose a nonno Giuseppe di tagliare l’alluce del piede destro e di riattaccarglielo al posto del pollice sinistro garantendo la riuscita dell’intervento! Nonno Giuseppe, che era un campione di bocce e a bocce voleva tornare a giocare, accettò. Quando il dottor non ricordo uscì dalla stanza l’infermiere, rimasto solo, gli disse sottovoce: “Signor Giuseppe… non lo faccia quell’intervento!”.

Ecco, quella frase si sarebbe dovuta urlare alla presenza del dottor non ricordo e non detta sottovoce, per aiutare nonno Giuseppe a capire tutti i pro e i contro di quell’intervento. Il principale scopo della laurea dovrebbe essere quello di darci quelle nozioni scientifiche che ci consentano di poter argomentare in modo autorevole su questioni riguardanti le scelte di percorsi di cura, di cui gli infermieri dovrebbero essere i gestori e non i meri esecutori o, peggio, il complemento di prescrizioni mediche.

Abbiamo la fortuna di avere un codice deontologico tra i più significativi e moderni nella storia delle professioni sanitarie e che sarebbe stato d’aiuto al nonno Giuseppe: articolo 20: “L’infermiere ascolta, informa, coinvolge l’assistito e valuta con lui i bisogni assistenziali, anche al fine di esplicitare il livello di assistenza garantito e facilitarlo nell’esprimere le proprie scelte”; articolo 24: “L’infermiere aiuta e sostiene l’assistito nelle scelte, fornendo informazioni di natura assistenziale in relazione ai progetti diagnostico-terapeutici e adeguando la comunicazione alla sua capacità di comprendere”.

La storia del nonno Giuseppe è vera e, strano a dirsi, anche il secondo intervento non riuscì e nonno Giuseppe si trovò senza pollice sinistro e senza alluce destro, circa sei anestesie totali, un quantitativo indefinibile di antibiotici e circa un mese di ricovero in ospedale. La cosa buona è che il dottor non ricordo non si fece più vedere.

Di questo nonno Giuseppe ne fu dispiaciuto, visse male il fatto che il dottor non ricordo sparì. Nonostante tutto, nonno Giuseppe era pronto a condividere anche il fallimento di quel medico e a perdonarlo, se solo glielo avesse detto prima…

Purtroppo assistiamo a interventi chirurgici utili solo all’esperienza del giovane chirurgo, a pazienti morti con la chemioterapia in corso, fino alla fine, effetti collaterali compresi, o con le flebo in corso per edema polmonare. Nella fase finale della vita, il corpo non beve più anche perché non è più in grado di metabolizzare e di smaltire i liquidi in eccesso che, invece di passare dai reni, finiscono nei polmoni e si muore soffocati o meglio annegati.

Tutto questo perché non siamo in grado di ammettere l’impotenza della medicina, l’infallibilità del medico, la fragilità e la non permanenza dell’uomo per cui non si rifiuta un altro intervento, un’ altra terapia, un’ altra flebo a dispetto della qualità della vita.

La malattia si introduce in un momento di vita e andrebbe vissuta nel modo migliore possibile in tutte le sue fasi. Non sempre la malattia è causa di morte, ma ci avvicina nella percezione e anche solo in questo senso è un’occasione per prepararsi. Nei bambini tale percezione non è evidente ed è disarmante la semplicità con cui affrontano la malattia e le sofferenze: i bambini vogliono solo sentirsi sufficientemente bene per poter giocare, ascoltare una storia, stare con i propri genitori, i fratelli, i giocattoli e basta. Nel nostro lavoro ci approcciamo più volte al giorno alla fragilità e al concetto della non permanenza e questa esperienza ci porta a filtrare e selezionare le cose della vita privilegiando solo quelle per noi più significative. Stare a contatto con la morte paradossalmente aiuta a vivere meglio. La morte è stata tolta dalla nostra società, spostata dalle case agli ospedali.

Oggi, l’unica morte visibile e degna di racconto è quella spettacolare, violenta, improvvisa, magari di gruppo, le altre non esistono. Questa non cultura della morte credo abbia origine anche da scelte di carattere politico/economico. La nostra società è fondata sull’illusione dell’immortalità, ogni bene di consumo non dura più di una vita umana, il tempo è infinito, il potere e i soldi servono a potersi curare meglio e di conseguenza a vivere di più. Riportare la morte a casa, quando è possibile, non è solo una grande esperienza per chi la vive, ha anche una valenza sociale e politica.

Tornando alla mia storia, ho avuto sempre una modalità di approccio molto aperta, libera, empatica, di ascolto, anche quando lavoravo in ospedale. Credo sia dovuto alla mia esperienza di bambino ma anche alla mia esperienza di autodidatta nel mondo artistico che è un mondo creativo. L’arte ha la capacità di allenare la sensibilità, di mantenerla. Mi è sempre piaciuto creare con i colori, con gli oggetti, con la musica. A un certo punto ho trasferito questo bisogno e piacere nel lavoro con le Cure Palliative. La creazione di un gruppo di lavoro, di un’equipe è un atto creativo.

 “L’assistenza è un’arte; e se deve essere realizzata come un’arte, richiede una devozione totale ed una dura preparazione, come per qualunque opera di pittore o scultore; con la differenza che non si ha a che fare con una tela o un gelido marmo, ma con il corpo umano, il tempio dello spirito di Dio. È una delle Belle Arti. Anzi, la più bella delle Arti Belle”.

(Florence Nightingale), Infermiera.

Dopo qualche anno di ospedale chiesi l’aspettativa di un anno per andare in Olanda a registrare un CD con un sassofonista tedesco. Siccome non me la diedero, mi licenziai e per circa cinque anni mi occupai principalmente di musica. Ho fatto anche corsi e seminari di teatro, collaborato con coreografi e registi, composto musiche per balletto, film, documentari, ho fatto anche l’artista di strada con un piccolo pianoforte portatile costruito insieme a un amico falegname. Poi, tornato in Italia, speravo di continuare con la musica ma era difficile campare. L’Italia è fatta di eccellenze e di schifezze, chi sta nel mezzo fa fatica a trovare una connotazione professionale. Io che in ambito musicale non ero un’eccellenza, ma neanche una schifezza, faticavo. Per arrivare a fine mese davo lezioni private ai bambini, suonavo con più gruppi musicali, ero impegnato un giorno e una notte per due ore di concerto, pagato sempre per due ore di lavoro, prove comprese. La maggior parte dei musicisti non esistono fiscalmente e con un figlio in arrivo non poteva più andare per le lunghe. Poi il percorso creativo in quella direzione cominciava ad esaurirsi e se dovevo farlo solo per soldi tanto valeva fare un altro lavoro. Il pianoforte per me è stato un aiuto, è come se avessi fatto un percorso analitico. In ogni caso, avevo bisogno di guadagnare. Grazie all’aiuto della direttrice del centro in cui feci il servizio civile, ricominciai a fare dei turni in RSA, poi in un ambulatorio cardiologico, infine aprii la partita IVA e decisi di iniziare a lavorare con una cooperativa che erogava cure domiciliari. Lì ho trovato il mio ambito. Avendo lavorato in rianimazione, avevo esperienza nella gestione della ventilazione, delle stomie e dei presidi che sono un ambito piuttosto tecnico.

Così mi affidarono i pazienti affetti da SLA. È iniziata così.

Cecily Saunders scriveva anche che la cosa più difficile è imparare ad essere un paziente, finché improvvisamente non ti trovi ad esserlo. Cinque anni fa non vedevo più bene da entrambi gli occhi, feci due visite oculistiche che esclusero problemi di vista e mi fecero fare un TAC cerebrale urgente che risultò negativa. Ma i sintomi aumentavano insieme alla stanchezza. Fino a ricoverarmi nel reparto di neurologia dove, dopo una risonanza magnetica con mezzo di contrasto, mi dissero che forse avevo la sclerosi multipla. Per il caposala non c’erano dubbi, quindi avevo la sclerosi multipla.

Aspettavo il risultato dell’esame del liquor. Ho scoperto che dopo il prelievo spinale del liquor, oltre al mal di testa, viene da piangere. È un effetto che succede quasi a tutti e mi è venuto un dubbio: vuoi vedere che l’anima sta nel liquor? Intanto mi fanno delle flebo di cortisone ma il sintomo non migliora. Di notte non dormo, mi danno una pastiglia di Stilnox e di giorno delle gocce di Valium. Arriva il risultato del liquor: strano, sembra negativo. Il caposala non ci credeva e il medico, per confortarmi, mi disse che esistono delle forme di sclerosi multipla con liquor negativo e che comunque avremmo dovuto ripetere l’esame più avanti. Capisco che sto guarendo perché l’infermiera mi sveglia per darmi la pastiglia per dormire. Mi dimettono con un arrivederci. Le diagnosi di alcune malattie neurologiche si fanno con la clinica e con le caratteristiche della progressione, cioè aspettiamo di vedere come va… mi dice il dottore… ci rivediamo… io faccio risonanze cerebrali di controllo che dicono: “sclerosi multipla in fase non attiva”. Smetto di fare risonanze e aspetto i sintomi che fortunatamente non arrivano.

Nel frattempo mi viene chiesto di assistere un ragazzo della mia età malato di Sclerosi Laterale Amiotrofica. Non faccio parola a nessuno della mia malattia e assisto F. fino alla fine, avvenuta a Natale. Pur non avendo nessuna formazione specifica, sono tutti contenti del mio lavoro e il mio capo mi chiede di collaborare alla realizzazione di un progetto specifico per l’ assistenza a “questi pazienti”. Che caso …COINCIDENZA… accetto. Intanto mi domando perché pensano che io sia stato così bravo e attento nell’assistenza: non sapevano che per me il pensiero più ostinato era riuscire a far verniciare in tempo le ultime tre miniature dell’esercito fantasy di F. e ci sono riuscito!

È stata “Compassione” o solo mettersi nei panni dell’altro per illudermi di prendere in cura me stesso? Noi “operatori ammalati” siamo portatori sani di un conflitto d’interesse: perseguiamo obiettivi anche a scopo personale … una buona assistenza la speriamo anche per noi. In fondo le rivoluzioni le hanno fatte con il sangue di chi aveva fame, ma alla fine e per fortuna hanno mangiato sempre tutti.

Qualcosa di simile a quello che è successo a me sarà successo a moltissime altre persone ma la differenza sta nel saper leggere quello che ci accade e trovarne una relazione e un senso per le nostre scelte.

Dicevi che hai trovato il tuo ambito. Qual è la differenza di lavorare in ospedale o a casa dei pazienti?

La casa è uno dei luoghi di cura più idonei. L’ospedale è il luogo per gli interventi chirurgici, la diagnostica, le terapie intensive, la stabilizzazione clinica. Un posto per problemi acuti, improvvisi, importanti e non risolvibili al domicilio. Quando lavoravo in ospedale, c’era un’associazione che si occupava dell’umanizzazione ospedaliera… ma se devi lavorare sull’umanizzazione significa che l’ospedale è disumano! Si dovrebbe lavorare per garantire il diritto di essere curati, per chi lo volesse, a casa tra i propri affetti, con i propri tempi e in modo adeguato.

Lavorare nelle case dà la possibilità di vivere a pieno la relazione, ci sono esperienze che solo nelle case si possono vivere. Nelle case conserviamo tutto il bello e il brutto di ognuno di noi. Le case raccontano storie, una la ricordo così: donna anziana, bambina nella seconda guerra, nella memoria la deportazione, la fame, il dolore, nelle mani la forza, negli occhi l’orgoglio. Insomma una donna fiera arrivata alla fine con fatica e serenità. In quei giorni si sposava il figlio negli Stati Uniti e lei partecipò al matrimonio in video conferenza. Indossava pigiama e pantofole dalla vita in giù e un abito elegante sopra, era seduta sul tavolo con il bicchiere pieno di acqua al posto di spumante. Un sorriso ripetuto, con gli ospiti americani che, dall’altra parte del continente, si fermavano davanti ad uno schermo gigante dove la mamma dello sposo faceva brindisi virtuali. Sullo sfondo una parete addobbata, in giro un caos pazzesco, viveva a casa della figlia, divorziata, con due bambini, giocattoli ovunque. Dormiva in cameretta con i nipotini che le sono stati vicini fino alla fine.

Poi ricordo “Gaetano”: la sua famiglia era composta da moglie anziana ipovedente e da un figlio con problemi psichiatrici; tutte le volte che abbiamo proposto l’hospice, Gaetano ha sempre rifiutato. Quando dovevano fare una iniezione sottocutanea, la moglie ascoltava le indicazioni telefoniche e le comunicava al figlio che, dopo la terza fialetta rotta per l’incapacità di dosare la forza, riempiva la siringa e la dava alla mamma che faceva poi la puntura al marito andando a tentoni. E’ stata un’avventura ma alla fine ci siamo riusciti e Gaetano è morto a casa sua come voleva lui.

Un amico contadino mi disse che l’unico padrone dei contadini è la terra. È la terra che chiama e decide i tempi del lavoro, dopo la pioggia, con il sole, dopo la neve. La terra non fa festa e non ha né sabati né domeniche libere e neanche i turni di lavoro o il par-time!!! Anche la malattia non va in ferie, non ha né sabati né domeniche libere né orari.

Anche nelle Cure Palliative ci sono le urgenze cliniche ma sopratutto assistenziali che vanno vissute per quello che sono: eventi che hanno bisogno di una risposta efficace e in tempi brevi. Così capita che, mentre stai andando con tua moglie a Milano, l’unica sera in cui, dopo mesi, riesci ad uscire, ti chiamano per una paziente tracheostomizzata che fa fatica a respirare! Che fai? Mentre stai per arrivare all’uscita dell’autostrada, che guarda caso è quella della sua città… che fai? Guardi tua moglie, guardi l’ora, le ventuno, alle ventuno e trenta dobbiamo essere a Milano… e mentre pensi metti la freccia ed esci dall’autostrada per andare dalla paziente e ci stai tre ore, risolvi il problema mentre tua moglie resta in auto e nel frattempo si addormenta. Non ero reperibile io, ma ero il più vicino. Poi succede quell’unica volta che arrivi in ritardo e quella volta cancella tutte le altre in cui sei arrivato in tempo.

Anche la terra non perdona se si sbagliano i tempi. Le case sono spesso lontane tra loro, c’è la strada, il traffico ed è importante che un’ équipe non abbia un territorio di operatività troppo esteso.

A differenza dell’ospedale e nonostante la reperibilità nelle ventiquattro ore, noi non siamo fisicamente a casa dei pazienti, per cui la famiglia deve farsi carico dell’accudimento e del primo intervento d’urgenza su indicazione telefonica nell’attesa dell’arrivo del medico o dell’infermiere. A casa ci si può dare il tempo necessario, e la calma non è sinonimo di lentezza ma del tempo che serve al paziente, alla famiglia e agli operatori per ascoltarsi, comprendere, affrontare ed elaborare quel particolare momento. A volte facciamo visite fatte di silenzi, di sguardi, di poche parole, di caffè, di bicchieri d’acqua e di tanto ascolto. Poi le domande arrivano perché la malattia ce l’hanno addosso loro. A casa prendiamo in carico i pazienti spesso abbandonati quando gli specialisti sentono finito il loro compito, le cure attive, la guarigione ma… nel momento in cui non c’è più niente da fare, c’è ancora molto da fare: dare la migliore qualità di vita al paziente e alla sua famiglia in un momento particolare della vita. La casa è il luogo più appropriato al raggiungimento di questo obiettivo.

Quando lavoriamo a casa delle persone, il nostro ruolo si amplia a mediatori e facilitatori nella relazione di cura. Insieme fino al rispetto della volontà: morire a casa con i propri affetti.

Gli hospice sono la giusta alternativa quando non ci sono le condizioni per un percorso domiciliare, spesso la scelta di ricovero è motivata dalla paura e dal desiderio di “spostare la sofferenza” quando non si riesce a vedere altro. Altre volte è la volontà di non pesare troppo sui propri cari. Io non consiglio, “la scelta giusta è quella che fa stare meglio adesso e che non farà stare peggio dopo”. Il nostro lavoro si fa a casa ed è bello quando riesce; le visite di cordoglio sono momenti intensi, dietro a un bicchiere d’acqua o a un caffè ci si dice: “È andata come doveva andare”, io ringrazio perché non avremmo potuto fare tutto da soli. Poi tengo a freno il mio ego mentre una sensazione di leggerezza mi invade e nella testa rimbomba la parola “Dignità”.

È possibile riportare Dignità nel fine vita?

Forse la Dignità si è persa nell’illusione d’immortalità. È un problema che riguarda tutta la nostra società, non è sufficiente il nostro lavoro e bisogna lavorare su più piani differenti. Negli ospedali non si dà dignità alla morte e in quello che facciamo noi c’è anche la volontà di togliere la morte dagli ospedali, quando possibile, e riportarla a casa, dove far riprendere contatto con la morte è un passaggio difficile ma importante, necessario per poter dare un senso migliore alla vita. Il posto dove fare questo, a mio avviso, è tra i propri affetti. Pur essendo la giusta risposta in alcuni momenti, penso che l’hospice non risponda a questi requisiti, nonostante lo sforzo nella ricerca dei colori, negli arredi, nei metodi o altro; una buona alternativa, ma resta un’alternativa.

Hai lavorato subito in équipe?

Quando ho iniziato a lavorare nell’ambito dell’assistenza domiciliare non sapevo nulla di Cure Palliative, per la verità non sapevo neanche che esistessero. Feci due mezze giornate di affiancamento con due colleghi e già dal terzo giorno dovevo fare circa venti visite, senza navigatore… quasi una catena di montaggio. Ricordo un collega che guidava con i guanti in lattice, non toglieva mai la giacca e lasciava sempre l’auto accesa per non perdere tempo tra una visita e l’altra. Ricordo che andavo nelle case dei pazienti ma facevo anche altro se necessario, dallo sturare water al cambiare lampadine bruciate. Ma mi accorsi che, per i pazienti con malattie complesse, era necessario una gestione in équipe. La cooperativa per cui lavoravo era interessata, ma i costi erano alti, così siamo entrati in collisione. Tuttavia, grazie a quella collaborazione, ho avuto la prima esperienza importante sull’ascolto dei pazienti e sulle prime direttive anticipate di trattamento. Mi era venuta l’idea di mettere in contatto i pazienti tra di loro: siccome la malattia degenerativa ti costringe ad affrontare argomenti come la ventilazione, l’alimentazione e la comunicazione artificiali, ho pensato che poteva essere importante mettere in contatto persone che avevano già fatto queste scelte con chi le doveva ancora fare. Di fatto facevo il postino: loro mi dettavano le lettere e io le portavo ad altri in occasione delle mie visite programmate. Significava ridare anche un po’ di socialità perché queste malattie portano prima alla morte sociale poi a quella biologica. La scelta del percorso di cura andrebbe affrontata prima dell’emergenza. Noi abbiamo assistito pazienti anche nel percorso di autodeterminazione rispetto alle volontà di cura, perché un conto è decidere rileggendo la propria storia prima di avere un’insufficienza respiratoria e un conto è decidere in rianimazione con il medico che ti dice: “…la fai o no la tracheotomia?”. È come avere una pistola puntata alla testa, non sei lucido così qualcun altro deve decidere per te. Le lettere sono state inserite in una raccolta intitolata: “Giuseppina non voleva la tracheo, Carmine invece sì”; sottotitolo: “Spero che il tempo faccia bello”.

Questa esperienza ha permesso involontariamente di raccogliere ufficialmente le prime direttive anticipate sulle scelte di cura, punto sul quale abbiamo focalizzato la nostra attenzione in questi ultimi anni di lavoro. Il titolo “Giuseppina non voleva la tracheo, Carmine invece sì” propone due delle tre possibilità che le persone ammalate hanno: scegliere un percorso di cura, non sceglierlo oppure scegliere di non scegliere. È compito professionale, morale ed etico di ogni operatore sanitario informare e poi chiedere cosa ci si aspetta dal percorso di cura intrapreso.

Purtroppo il consenso informato dipende da chi informa e il primo lavoro che dovrebbe fare chi informa è quello di non avere convinzioni personali in merito alle giuste cure. Non esiste la scelta giusta, ma le scelte giuste e ognuna di esse è il frutto di elaborazioni personali, contestualizzate, stimolate e mediate dall’ascolto dell’operatore che non dà consigli né risposte a domande non fatte. La società civile si sta confrontando in merito alle esperienze di Welby, di Eluana Englaro e per ultimo, del cardinale Martini.

È colpa della Chiesa se il processo normativo in merito alle direttive anticipate di trattamento non esiste?

Io, più che della Chiesa, ho paura del calcio e delle logica calcistica che coinvolge trasversalmente sia il mondo religioso che quello laico, partendo dai calcetti dell’oratorio fino ai campetti comunali. È la logica dell’uno contro l’altro, del bianco contro il nero, del sì alla PEG a destra e del no alla PEG a sinistra. Non esiste la scelta giusta ma esistono le scelte giuste. Forse è un bene che non ci sia una normativa specifica e dettagliata se non per garantire a tutte le persone la libertà di scegliere, di non scegliere o di scegliere di non scegliere un percorso di cura.

Le lettere sono testamenti, fotografie di speranze nella quotidianità della malattia. Ne riporto alcune:

Ciao E., mi chiamo C., tramite N. ho ricevuto la tua lettera, scusa se non ti ho risposto prima ma sono molto…. impegnato!!! dottori, fisioterapisti, infermieri ecc…!!! Grazie per avermi scritto spero di risentirti ancora dato che facciamo parte di questo club. Un abbraccio. Ciao. C.

Cara G., penso sia ora che anche io mi presenti come tu hai già fatto. Ho quasi 60 anni portati malino per ovvi motivi, sono stato e sono un progettista antincendio, e naturalmente lavoro ancora. Lavoro per due motivi: 1- per mangiare 2- per non pensare al resto. Ho una moglie adorabile e una cagnetta simpatica. Non ti nego che se potessi tornare indietro mi piacerebbe avere una megastanza con tantissimi giocattoli tipo pista elettrica trenini ecc… in parole povere sono un bambinone ormai cresciuto. Un abbraccio, E.

Caro E., vogliamo conoscerci personalmente? Magari qualche pomeriggio per trovarci tutti insieme con le nostre carrozze a fare una passeggiata. Un abbraccio, G.

Cara G., sono C., grazie mille della tua lettera mi ha fatto molto piacere, anch’io non volevo fare la tracheo avevo paura poi la situazione si è aggravata molto, non arrivare al limite! e purtroppo nell’urgenza ho preferito farla. Adesso sono contento, è tutta un’altra cosa. Io non sono nessuno per dirti queste cose, comunque quando sarà ora vai tranquilla!! ciao in bocca al lupo. C.

Ciao G., ho saputo che sei nonna anche tu auguri. So che hai le crisi respiratorie, non preoccuparti pensa solo alla tua nipotina. Io sono stanco di stare in casa. Io e te andiamo a fare una gita a Como pensa che bello correre sui prati, urlare a squarciagola e far sapere al mondo intero che a noi non importa della nostra bastarda malattia. Ciao un bacione e un abbraccio da N.

Cara G., non sapevo che tu fossi una sub, visto che mi parli di respiratori. Bando agli scherzi, non ti mettere in mente cose strane. Certamente ti manca il fiato, ma molto è dovuto dal nostro “amico” panico, che amplifica ogni disfunzione. Come ti ho già detto in precedenza, quando ti manca il fiato pensa a qualsiasi cosa o conta. Siamo sempre i migliori. Un abbraccio, E.

Caro E., ti ringrazio di avermi scritto, sicuramente hai ragione ci troviamo nella stessa situazione e mi sono detto tante volte perché a me? Però rimango senza risposte e penso: perché non doveva succedere a me? Sicuramente ti sei posto anche tu queste domande. Non sono uno sportivo sfegatato, ho seguito un po’ la rossa però l’anno scorso non mi ha dato soddisfazione. Spero in quest’anno che ci siano delle novità. Anche io sono ammalato da 5 anni vivo la mia vita su 4 ruote, per quello sono appassionato di rossa… Mi accontento della vita che posso avere e delle situazioni che vivo sperando nella ricerca. (che marca e modello di telefonino hai?). È una mia idea… poi ne riparliamo, saluti e alla prossima, E.

Caro E., ti ringrazio della tua lettera, ho seguito i tuoi consigli e mi sono trovata bene. Spero che il tempo diventa bello per uscire e il morale diventa allegro. Ti saluto e un abbraccio, G.

C
aro C., ho pensato a quello che mi hai scritto sulla tracheo. Io però non me la sento di farla. Perché mi sembra un accanimento terapeutico. Adesso è arrivata la primavera e usciamo con la 4 ruote a prendere un po’ di aria fresca. Così dimentichiamo tutto. Tanti saluti, un abbraccio. G.

Che rapporto c’è tra cure palliative ed eutanasia?

Morire non è un momento di morte ma è un momento di vita sopratutto se si riesce a viverlo senza dolore, senza sintomi che portano alla percezione dell’abbandono, del non senso, della fine della dignità che può spingere anche a gesti estremi come il suicidio assistito. Abbiamo seguito diversi pazienti che vedevano in questo una soluzione al proprio sentire in quel momento ma abbiamo proposto in alternativa le Cure Palliative che non hanno niente a che fare con l’eutanasia, il suicidio assistito o la “dolce morte”. Un conto è prendersi cura della persona e della sua famiglia con l’obiettivo di garantire la migliore qualità di vita, altro è far finire una vita che di qualità non ne ha più. Inoltre, sebbene le Cure Palliative non abbiano come obiettivo di migliorare la quantità di vita, talvolta la qualità incide anche sulla quantità. La persona non sofferente mangia un po’ di più, dorme meglio, recupera un po’ di forze. Ma non dimentichiamo mai ci trovarci di fronte a un momento della vita che ci porterà alla perdita. Spesso non prendiamo in carico dei pazienti ma letteralmente raccogliamo dei pazienti e la loro famiglia dopo un duro percorso di sofferenze e delusioni. Vite complicate dal percorso di malattia, uno degli obiettivi prioritari delle Cure Palliative è la semplificazione fino all’essenzialità delle terapie, delle fatiche. La storia di ognuno di noi potrebbe essere contenuta in un sacchetto pieno delle piccole cose importanti della nostra vita.

Citerò Bruno Munari per spiegare “il segno d’intelligenza” che le Cure Palliative secondo me sono tenute a dare: “Complicare è facile, semplificare è difficile. Per complicare basta aggiungere, tutto quello che si vuole: colori, forme, azioni, decorazioni, personaggi, ambienti pieni di cose. Tutti sono capaci di complicare. Pochi sono capaci di semplificare. Per semplificare bisogna togliere, e per togliere bisogna sapere che cosa togliere, come fa lo scultore quando a colpi di scalpello toglie dal masso di pietra tutto quel materiale che c’è in più della scultura che vuol fare.

Teoricamente ogni masso di pietra può avere al suo interno una scultura bellissima, come si fa a sapere dove ci si deve fermare nel togliere, senza rovinare la scultura?

Togliere invece che aggiungere vuol dire riconoscere l’essenza delle cose e comunicarle nella loro essenzialità.

Eppure quando la gente si trova difronte a certe espressioni di semplicità o di essenzialità dice inevitabilmente: “questo lo so fare anche io”, intendendo di non dare valore alle cose semplici perché a quel punto diventano quasi ovvie. In realtà quando la gente dice quella frase intende dire che lo può rifare, altrimenti lo avrebbe già fatto prima.

La semplificazione è il segno dell’intelligenza, un antico detto cinese dice: “quello che non si può dire in poche parole non si può dirlo neanche in molte”.

Qualche tempo fa, riflettevo con una collega sul senso della parola “rianimare” in Cure Palliative.

Essendo stato un infermiere di rianimazione per me questo temine medico indicava semplicemente il ripristino delle funzioni vitali. Etimologicamente significa “ridare anima”, cioè quella parte invisibile della persona piena di mistero e in grado di dare emozioni e sentimenti. Può quindi esistere una rianimazione in Cure Palliative che definirei meglio come una “rianiemozione”: curare i sintomi della malattia per dare respiro al corpo e spazio all’anima. La morte arriva prima nelle cose, quando entriamo in casa questo si respira: luci basse, tende, tapparelle e persiane chiuse, polvere sugli stereo e sui cd, sulle fotografie e spesso il televisore acceso ad alto volume per distrarre. Spegnere il televisore, far rientrare la luce del sole, riguardare le fotografie e riascoltare la musica, dare la possibilità di potersi emozionare ancora, nonostante tutto: anche queste sono Cure Palliative.

Settimana scorsa ho fatto un balletto con una paziente che prendeva in giro il suo medico di base tornato abbronzato da un congresso. Ho impresso le sue risate e quelle delle sue figlie durante quel balletto fatto solo di movimenti delle braccia e della testa, sono stati solo pochi minuti ma intensi, rimarranno per sempre nella memoria di noi che restiamo ed è per me un privilegio esserci stato.

Eutanasia e Cure Palliative sono due cose distinte e separate, l’unica cosa che le accomuna è la richiesta fatta in entrambi i casi di non soffrire. Eutanasia significa chiedere di morire, sospendere la terapia è un’altra cosa. Così come la medicina si assume la responsabilità di iniziare dei percorsi terapeutici dovrebbe assumersi le stesse responsabilità nel sospenderli quando il paziente lo richiede.

Il desiderio di morire può avere radici diverse, complesse e che hanno bisogno di tempo e attenzione per essere ascoltate, decifrate e comprese. Le Cure Palliative sono un accompagnamento al fine vita, un fine vita di qualità e, prima di dire che questa qualità non esiste, bisogna provare a darla. Provarci davvero. Se solo noi infermieri fossimo più attenti a quanto riportato nel nostro Codice deontologico, questo obiettivo sarebbe più semplice da raggiungere. Vi si legge:

Articolo 34: L’infermiere si attiva per prevenire e contrastare il dolore e alleviare la sofferenza. Si adopera affinché l’assistito riceva tutti i trattamenti necessari;

Articolo 35: L’infermiere presta assistenza qualunque sia la condizione clinica e fino al termine della vita all’assistito, riconoscendo l’importanza della palliazione e del conforto ambientale, fisico, psicologico, relazionale, spirituale;

Articolo 36: L’infermiere tutela la volontà dell’assistito di porre dei limiti agli interventi che non siano proporzionati alla sua condizione clinica e coerenti con la concezione da lui espressa della qualità di vita;

Articolo 37: L’infermiere, quando l’assistito non è in grado di manifestare la propria volontà, tiene conto di quanto da lui chiaramente espresso in precedenza e documentato;

Articolo 38: L’infermiere non attua e non partecipa a interventi finalizzati a provocare la morte, anche se la richiesta proviene dall’assistito;

Articolo 39: L’infermiere sostiene i familiari e le persone di riferimento dell’assistito, in particolare nella evoluzione terminale della malattia e nel momento della perdita e della elaborazione del lutto.

Le Cure Palliative sono anche un percorso di consapevolezza e di scelte condivise con il paziente e con la famiglia. Abbiamo assistito pazienti che hanno rifiutato i trattamenti invasivi, altri che li hanno accettati, altri che non hanno voluto scegliere e qualcun altro ha dovuto scegliere per loro, altri che non hanno avuto il tempo e la possibilità di scegliere e dopo hanno tentato il suicidio e infine altri che hanno chiesto l’eutanasia. E’ importante che le scelte siano il frutto di un percorso, un percorso raccontabile da tutti gli elementi che ne hanno fatto parte. La differenza tra eutanasia e Cure Palliative è importante. Welby chiedeva ai medici la sospensione della ventilazione ma per lo stato Italiano è omicidio di consenziente. Ad oggi, la ventilazione e l’alimentazione artificiale sono percorsi a senso unico. Quando si sospende la ventilazione la persona muore perché la malattia è in uno stadio talmente avanzato che non gli consente più di respirare. Ma la malattia è invisibile, così quello che si vede è solo la sospensione di una terapia vitale e, se non si sta attenti, è facile pensare che sia quella la causa della morte. Anche l’emotrasfusione è una terapia vitale, anche la dialisi, però queste vengono frequentemente sospese con più serenità e senza il rischio di essere accusati di omicidio di consenziente. Forse anche qui il tempo gioca un ruolo fondamentale, nella dialisi passa più tempo dalla sospensione della terapia alla morte, tempo utile a chi resta per comprendere, accettare e tutelare queste scelte. È impossibile dare una risposta univoca perché ogni paziente è un mondo a sé, l’importante è esserci. Faccio l’esempio di un paziente che aveva fatto la scelta di sottoporsi all’intervento di tracheotomia e iniziare la ventilazione invasiva perché in tal modo avrebbe comunque continuato a comunicare con gli occhi e per lui comunicare era il senso. A questo paziente, però, nessuno aveva detto che presto o tardi anche gli occhi si sarebbero bloccati.

Per quel paziente sapere che in tal caso avrebbe potuto chiedere la sospensione della ventilazione, gli avrebbe consentito di vivere quella scelta con minor difficoltà e di vivere il resto della sua vita con minor angoscia. Ecco, questo intendo quando dico che la comunicazione è importantissima e va affrontata per tempo allo scopo di dare alla persona la possibilità di scegliere davvero consapevolmente. Quando non era possibile la ventilazione domiciliare, i pazienti finivano i loro giorni in ospedale o in hospice. Ora possono stare a casa e la malattia diventa di tutta la famiglia, quindi anche le scelte dei percorsi di cura coinvolgono tutti.

Nelle Cure Palliative è decisamente importante l’aspetto spirituale. Io ho una storia agnostica, ma ho trovato sostegno nella meditazione. Ti consiglio questa lettura: “Il libro Tibetano del vivere e del morire” di Sogyal Rimpoche, è un libro per me molto significativo. La morte è un’esperienza che condividiamo con tutti gli esseri viventi. Saunders diceva che la cosa più difficile è imparare a essere pazienti, cioè prepararsi a un passaggio obbligato che, come la nascita, ci tocca tutti. A questo passaggio ci si può preparare così come ci si può preparare al parto. Anzi l’esperienza dell’assistenza alla nascita potrebbe essere utile a impostare un percorso di preparazione alla morte, al passaggio.

Non a caso in entrambe le situazioni la relazione è particolarmente importante. Una mattina andai a fare un prelievo ad un uomo di centotré anni, devo ammettere che mi impressionò bucare quella pelle e durante il prelievo chiesi: “Come si fa ad arrivare a centotré anni?” e lui rispose: “Un giorno dopo l’altro” e poi mi disse che non aveva paura di morire. Io avrei voluto chiedergli: “Allora perché fa il prelievo?”, invece chiesi: “Come si fa a non aver paura della morte, quanto tempo ci vuole per prepararsi a non aver paura della morte?” e lui rispose: “Eh.. non basta una vita”. Probabilmente era un segreto… io credo che non esistano regole né modalità ma solo possibilità e condizioni per poter provare a cercare il proprio modo prima che il terrore congeli tutto come il ghiaccio. In questo caso sarà possibile solo l’analgesia rivendicata dagli anestesisti sia in Cure Palliative che nel parto. Quando la morte spaventa o quando il dolore del parto spaventa, la risposta è l’analgesia, ecco trovata la soluzione più veloce ed efficace: anestetizzare.

Eppure anche il dolore a volte ha un senso. Ricordo un paziente che dopo aver perso totalmente il dolore, ne chiese al medico ancora un po’ perché lo aiutava a tenere i pensieri lontani e a sentirsi più vivo. Quando la famiglia o il paziente non sono in grado di affrontare un percorso di Cure Palliative domiciliari, ci si orienta verso un ricovero in hospice. In alcuni casi, pur essendoci i requisiti per un percorso domiciliare, i famigliari decidono ugualmente per il ricovero anche se il paziente non vorrebbe.

Ecco una domanda classica: “…quando il papà non è più in grado di capire possiamo ricoverarlo in hospice?…”, è il bisogno di togliere, spostare e allontanare dalla casa quello che fino a poche decine di anni fa era di casa: la morte di un famigliare. In questo modo si nega la possibilità di un percorso attivo, condiviso, portato avanti insieme a persone che sono sì professionisti, ma prima di tutto persone che si occupano di altre persone.

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Intervista a Nicola Mosca