Death Education e Spiritualità
Esperienze di intervento con studenti delle
scuole superiori italiane

di Brunetto Piochi

Introduzione

Anche se la nostra società presenta comunque richieste di spiritualità e atteggiamenti religiosi di vario tipo,
tuttavia la tendenza generale è verso una forma di censura significativa della mortalità nella sua realtà.
Nell’attuale cultura secolarizzata, la riflessione tradizionale e religiosa sull’aldilà si è progressivamente erosa
al punto che trovare un significato nella morte e nel morire crea difficoltà per le persone, I media si occupano
del tema in termini quasi esclusivamente sensazionalistici, in riferimento a episodi eccezionali o crudeli. Al
tempo stesso, gli adulti non riescono più a parlare di questi temi con i loro figli o educandi, sia perché essi per
primi si trovano in difficoltà sul tema, sia perché diffidano della capacità degli adolescenti di affrontare
l’argomento senza esserne eccessivamente turbati. In un certo senso, è vero che la morte ha preso il posto del
sesso come tabù culturale.
Tuttavia, il censurare la tematica legata alla morte e al lutto produce conseguenze pesanti sull’individuo e sulla
stessa società, ben descritte dalla Teoria della Gestione del Terrore. Proprio come avviene per l’educazione
sessuale, laddove la famiglia non sia in grado di offrire un percorso di crescita adeguato al bambino e
all’adolescente, diventa sempre più importante che tale ruolo sia svolto dalla scuola, come struttura sociale
dedicata alla formazione dell’individuo.
Nel mondo sono state implementate varie proposte di corsi di educazione alla morte anche all’interno di
curricula sia universitari che scolastici. In Italia, come per tutte le questioni legate al fine vita, la situazione è
ancora nella fase iniziale, ma esistono non di meno una serie di esperienze che provano a esplorare la possibilità
di agire in questo campo. La presente tesi prende in considerazione alcune di queste esperienze, realizzate nella
scuola secondaria di I e II grado e tutte riferibili alla scuola padovana della professoressa Testoni,
esaminandone i risultati e analizzandole per provare a enucleare i fattori comuni e trarre spunti generali che
possano servire per corsi o esperienze analoghe in altre scuole.
Dopo una introduzione generale sulla Teoria della Gestione del Terrore legato alla scoperta della mortalità,
esporrò le ragioni che, anche alla luce dell’attuale esperienza pandemica, rendono più che opportuna la
proposta di percorsi scolastici di Educazione alla Morte che integrino aspetti di spiritualità, e possibilmente
coinvolgano anche le discipline scientifiche. Nella seconda parte esporrò i punti metodologici comuni alle
diverse esperienze esaminate e infine riassumerò i principali risultati ottenuti come conseguenza di esse.
1. Teoria della Gestione del Terrore (TMT – Terror Management Theory)
Nell’Epopea di Gilgameš (testo di epoca sumerica, tra il 2600 a.C. e il 2500 a.C)., il protagonista, di fronte alla
morte dell’amico Enkidu, si trova a fare i conti con la propria mortalità: «Nel mio cuore vi è angoscia. Ciò che
mio fratello è adesso, lo sarò anch’io quando sarò morto… Ho paura della morte…». Inizia allora il suo
viaggio alla scoperta dell’immortalità. Lo storico greco Tucidide, intorno al 400 a.C., parlando dei violenti
conflitti fra le polis dell’antica Grecia suggerì che il terrore della morte ineluttabile avesse spinto la
popolazione a cercare l’immortalità attraverso tre vie: tramite azioni eroiche e nobili in grado di ripristinare la
giustizia, azioni ricompensate dalla divinità con una vita nell’aldilà; attraverso le memorie delle proprie gesta
eroiche; attraverso l’identificazione con il gruppo che sarebbe sopravvissuto alla propria morte.
In tempi contemporanei, l’antropologo culturale Ernest Becker in [1] ha osservato come gli esseri umani, in
quanto animali intelligenti, siano in grado di cogliere l’inevitabilità della morte che crea ansia in loro, facendo
sì che le persone impieghino la maggior parte del loro tempo ed energie per spiegarla, prevenirla ed evitarla.
Secondo Becker, gli uomini sono talmente terrorizzati dalla morte che trascorrono la vita costruendo / credendo
in elementi culturali che li aiutino a distinguersi come individui e dare senso e significato alla loro vita.
Come raccontato direttamente da uno dei suoi fondatori in [5], la TMT nasce, proseguendo le riflessioni di
Becker, per spiegare fenomeni quali la difesa della propria autostima e il pregiudizio nei confronti del diverso,
viste come elementi del sistema tramite cui le persone si proteggono da una ben radicata paura della morte. La
teoria ipotizza che, per gestire l’ansia e il potenziale terrore dovuto alla consapevolezza della mortalità, gli
esseri umani abbiano bisogno di rifarsi a una visione di un mondo perenne e sensato, al cui interno sentirsi
entità significative e non semplici creature finite e destinate, dopo la morte, all’oblio. Dopo aver raccolto una
serie di rifiuti senza scoraggiarsi, i fondatori della teoria misero insieme una serie di studi che finalmente
portarono alla prima pubblicazione nel 1989 sul Journal of Personality and Social Psychology. In uno degli
esperimenti presentati nella pubblicazione sono stati coinvolti 22 giudici negli Stati Uniti, a cui è stato
somministrato un test di personalità, che tuttavia solo in 11 casi (gruppo A) conteneva la richiesta di descrivere
pensieri e sensazioni sulla propria morte. Successivamente, a tutti i giudici è stato richiesto di decidere
l’importo della cauzione per una donna accusata di prostituzione. Ebbene, si è rilevata una differenza
significativa: la cauzione fissata aumentava in media di circa 9 volte nel gruppo A rispetto al gruppo di
controllo. La TMT spiega questa differenza con il fatto che i giudici spinti a pensare alla propria morte
tendevano ad attaccarsi maggiormente ai valori della società e di conseguenza giudicavano in modo più severo
il reato di prostituzione. Analogo risultato in un altro studio (sottoposto a 30 studenti di un corso universitario)
in cui si doveva valutare il premio assegnato a una donna che aveva contribuito fattivamente alla cattura di un
pericoloso criminale: gli studenti che avevano dovuto fare i conti con il pensiero della propria morte
proponevano un premio più che triplo rispetto al gruppo di controllo [7].
Secondo la TMT, a un certo punto dell’evoluzione umana la nostra corteccia celebrale divenne abbastanza
sviluppata da fornire consapevolezza di sé e capacità di pensare in termini di passato, presente e futuro. Tali
abilità cognitive, per lo più adattive, condussero però alla consapevolezza della mortalità e questa a sua volta
entrò in conflitto con le reazioni ancestrali di evitamento e fuga di fronte a un pericolo. Secondo la TMT, in
un animale “strutturato” per evitare la morte, la consapevolezza della morte inevitabile genera un continuo
potenziale di ansia, o terrore, che deve essere continuamente gestito. Il terrore è tenuto sotto controllo
utilizzando le stesse abilità cognitive responsabili della consapevolezza della morte, tramite il sostegno di una
fede in una visione del mondo e di se stessi che rifiuti la natura incerta e fugace della propria sopravvivenza.
Le visioni culturali del mondo sono state modellate a servizio di tale funzione dall’antichità sino ai giorni
nostri. Esse riempiono la realtà esterna di ordine, stabilità, significato e scopo, e offrono modalità attraverso
cui la gente riesce a credere di poter resistere alla morte, sia letteralmente, attraverso un’anima immortale, sia
simbolicamente, attraverso una morte che trascende l’identità, o anche, per la maggior parte di queste visioni
del mondo, in entrambi i modi. Una lettura psicologica motiva il sorgere di questi atteggiamenti: “Non appena
i genitori cominciano a richiedere al bambino alcune specifiche azioni per mantenere il loro amore e la loro
approvazione, il bambino capisce che, quando farà le cose giuste, nel mondo andrà tutto bene, mentre quando
farà le cose sbagliate si scatenerà l’inferno. […] In questo modo il bambino arriva ad associare il sentirsi al
sicuro con l’essere buoni e apprezzati, mentre l’essere cattivi e privi di alcun valore con la paura. […] Dopo
l’infanzia, la sicurezza psicologica comincia a fondarsi sull’essere un buon cristiano, un buon americano e via
dicendo, e sul dimostrare valore all’interno del contesto del particolare modello di visione culturale del mondo
interiorizzato dell’individuo. Il senso di tale valore durevole non si ricollega soltanto in modo implicito
all’incolumità e alla sicurezza, ma anche in forma esplicita all’immortalità letterale del paradiso e
all’immortalità simbolica di essere parte di entità che trascendono la morte, come per esempio la stirpe e la
nazione, o le ultime conquiste culturali nella scienza, nella politica e nelle arti. In questo modo un individuo
influente all’interno della società può considerarsi come parte immortale di una realtà duratura” [5].
Gli sforzi in tale direzione “dipendono dalla specifica visione culturale del mondo a cui aderisce l’individuo.
Dal momento che tali costrutti si configurano essenzialmente come fragili strutture sociali, le persone
reagiranno in modo negativo a tutto ciò o a tutti coloro che metteranno a rischio la fiducia nelle proprie visioni
del mondo o nella propria autostima e dunque la validità dei fondamenti della propria sicurezza psicologica”
(ancora [5]). Da qui il pregiudizio e le tipiche reazioni: rifiuto (questi individui sono ignoranti o malvagi, di
conseguenza il loro alternativo sistema di credenze andrà respinto); assimilazione/proselitismo (questa gente
si sbaglia, potrò allora aiutarla a vedere la luce, cosa che mi convincerà ancor più che il mio modo di vedere
sia quello giusto); conflitto (se uno dei due punti di vista è giusto e l’altro sbagliato, allora è il proprio a dover
prevalere); accomodamento, incorporando nel proprio punto di vista alcuni aspetti interessanti dell’altro (si
pensi a come molta musica nata come rottura è diventata invece popolare, ad es. il rock o il rap).
Da questo filone di ricerca è emerso un modello di gestione del terrore fondato su un duplice processo di difesa.
I pensieri espliciti di morte incitano le difese a rimuovere i pensieri legati alla morte dall’attenzione focale
attiva. “Si contrasta l’angoscia con la costruzione di anxiety buffers (tamponi contro l’ansia), all’interno di un
sofisticato apparato psicologico costituito da due elementi: difese distali consistenti in miti, religioni, filosofie
(cultural worldview); difese prossimali derivanti dalla costruzione dell’identità sociale e dell’autostima,
Dinanzi alla mortality salience [MS = emergere della mortalità], tali difese cancellano dalla coscienza il sapere
di essere mortali, proiettando in un futuro remoto la rappresentazione dell’evento inevitabile e regalando
all’individuo la sensazione di invulnerabilità” ([11] p. 39)
Sulla base di ciò è stata sviluppata una riflessione specifica, inerente alle rappresentazioni della morte, che ha
analizzato il ruolo della religione e del secolarismo nel modo contemporaneo di gestire la morte e il morire.
Questi studi si sono concentrati sulla dimensione ontologica di tali rappresentazioni, che mirano a descrivere
la sostanziale differenziazione tra la morte come passaggio o come annientamento assoluto. Da una
prospettiva TMT, queste cognizioni corrispondono generalmente alla negazione della morte attraverso una
immortalità, rispettivamente, letterale o simbolica. La prima consiste nella fede in vite successive (anima,
reincarnazioni, trasmutazioni, ecc.), comune a tutte le grandi religioni del mondo. La seconda consiste nella
convinzione che un residuo della propria esistenza persisterà nel tempo, avendo figli, accumulando enormi
fortune, facendo parte di una grande, e dunque perenne, tribù o nazione, o producendo qualcosa di importante
in politica, arte o scienza. Gli studi sulle rappresentazioni ontologiche della morte hanno mostrato che esiste
una profonda differenza tra queste due forme di cognizioni e i loro effetti psicologici nel tamponare l’ansia.

2. Educazione alla Morte (DeEd – Death Education)
L’Educazione alla Morte (d’ora in poi DeEd) viene incontro al bisogno degli individui di affrontare la morte
durante le loro vite, offrendo una base concettuale per comprendere che la vita ha una durata limitata e dunque
deve essere protetta e per affrontare i ricordi e i sentimenti negativi legati alla morte. Essa mira a facilitare una
migliore comprensione della morte, rispondendo alla necessità di promuovere la riflessione su temi
esistenziali, attraverso l’esplorazione delle preoccupazioni su finitudine, mortalità, malattie gravi, perdite e
dolore. Una DeEd di solito si attua mediante attività incentrate sulla condivisione di pensieri che migliorano il
senso positivo della vita e, quando possibile, promuovono prospettive sia nuove che tradizionali sull’aldilà, la
trascendenza, la spiritualità, e la religione. Queste attività favoriscono capacità di resilienza, rafforzamento
delle strategie per affrontare i ricordi travolgenti e sentimenti negativi legati alla morte.
Questo tipo di lavoro educativo si basa sull’idea, citata in letteratura come “ipotesi del buco nero” ([13]), che
la censura culturale della morte produce esiti psicologici negativi. Il concetto di “buco nero” riprende
metaforicamente il fenomeno astronomico rappresentato da una regione dello spazio-tempo dotata di un campo
gravitazionale così forte che niente può fuggire da esso. Psicologicamente, essa traduce la condizione in cui la
rimozione sistematica della morte e dei sentimenti correlati assorbe progressivamente anche altri sentimenti.
La difesa dal terrore della morte relega la paura all’inconscio, che a sua volta assorbe l’ansia e i sentimenti
negativi ad essa associati, che vengono così lasciati fuori dalla coscienza e non elaborati. Questa rimozione
sistematica inibisce semplicemente il riconoscimento di tutti i sentimenti e le emozioni, sia negativi che
positivi, riducendo l’abilità di riconoscere il contrasto tra positività e negatività.

2.1 Memento mori
Sant’Ignazio di Loyola considerava la morte il fulcro centrale della meditazione. Il pensiero di Sant’Ignazio ha
fortemente influenzato la spiritualità cristiana dal XVI secolo in poi: la contemplazione della morte da lui
proposta era la trasformazione cristiana del romano memento mori, il modo di considerare la vanità della vita
umana e la natura transitoria del mondo fisico. Un secolo dopo, il vescovo inglese J. Taylor (1613-1667, santo
della Chiesa d’Inghilterra) nel suo libro The Rules and Exercises of Holy dying suggeriva la meditazione sulla
mortalità come pratica importante nella disciplina quotidiana, al fine di rafforzare la virtù, migliorare il
carattere e raggiungere il distacco dai piaceri, orientando i propri interessi verso l’immortalità e l’aldilà.
Per la maggior parte delle persone, i fatti legati alla morte sono stati quasi completamente rimossi dalla vita
quotidiana. Quando la società preindustriale viveva in gran parte nelle fattorie o in villaggi dove animali e
persone morivano regolarmente e dove le prime pratiche mediche erano generalmente incapaci di prolungare
la vita degli animali e delle persone, la morte era prevista e fronteggiata direttamente e in tenera età. Di
conseguenza, c’erano dei rituali per affrontarla sia religiosamente che psicologicamente: la morte era una parte
normale della vita di una persona fin da bambino, ma oggi non è così.
Da quando la società agricola ha lasciato il posto all’economia tecnologica, la morte è stata spinta ai margini
del pensiero: la scienza e la medicina hanno cambiato il mondo e, con esso, il modo in cui si vive e si muore.
La maggior parte delle persone non capisce bene le moderne procedure mediche, così la morte diventa
competenza di esperti: la società rimuove la morte spostandola dalla casa all’ospedale e tende a prolungare la
vita degli anziani. Nel tentativo di sterilizzare la società dalle esperienze che circondano la morte e il morire,
è stato creato un mondo di confusione per tutti, ma soprattutto per i bambini e gli adolescenti.
In verità, la morte è sempre attuale. Tuttavia, per la maggior parte delle persone, la morte è qualcosa di cui si
legge, o si vede in TV e nei film, con cui si “gioca” nei videogiochi. Però, gli attori che muoiono nei film
sopravvivono nella vita, le figure dei cartoni animati si deformano e si riformano, i morti nei videogiochi
sprizzano sangue rosso vivo, ma poi risorgono magicamente. I media ogni giorno si occupano di temi inerenti
alla morte in modi sensazionalistica e non realistici, derivati da eventi eccezionali o violenti, che diventano
uno stillicidio quotidiano che crea assuefazione. “Abbiamo imparato a convivere con questa idea di morte
quotidiana, e sta diventando normale vedere barconi che si rovesciano, sacchi di plastica con un cadavere
dentro, morti in guerre lontane, esecuzioni di massa. […] La morte pubblica è lontana non solo perché è pur
sempre la morte degli altri ma anche perché non ci impressiona più, è diventata banale” [2]

2.2 La nascita della Death Education
Negli anni ’60 i lavori pionieristici di autori come H. Feifel, E. Kübler-Ross e C. Saunders incoraggiarono
psicologi, clinici e umanisti a prestare attenzione e studiare argomenti relativi alla morte. Negli ultimi decenni
del secolo scorso, la prospettiva del memento mori ha ricevuto un’attenzione particolare, grazie agli studi di
Robert Kastenbaum (1932-2013), uno dei pionieri dell’American Death Aware Movement, fondato negli anni
Settanta negli Stati Uniti. Sottolineando la scarsa diffusione delle riflessioni su questi temi, egli rilevava la
tendenza della medicina a rimuovere sistematicamente il potere della natura circa i confini tra la vita e la morte,
esternalizzando il processo del morire, confiscato alla famiglia dalle istituzioni sanitarie pubbliche.
L’esortazione a rinnovare la pratica del memento mori deriva dalla necessità di promuovere un’ampia
riflessione consapevole su temi fondamentali per la propria esistenza. Se questo compito era stato affidato alle
religioni nel corso della storia umana, nella cultura occidentale contemporanea tali temi sembrano solitamente
troppo difficili da affrontare, anche per il timore che parlarne possa avere effetti negativi.
Sono attualmente numerosi nel mondo i curricula specifici, formali o informali, inseriti nei programmi di corsi
di laurea in medicina, infermieristica e psicologia, che trattano della mortalità, preparando i professionisti a far
fronte alla morte e al dolore, attraverso la proposta di una varietà di attività volte a facilitare la comprensione
delle problematiche connesse alla morte e al lutto.
Di tali proposte aumenterà sicuramente il bisogno come conseguenza della pandemia di COVID-19. Non solo
essa ha isolato le persone, riducendo in generale i rapporti sociali, e in particolare gli adolescenti privati dei
normali contatti assidui con i coetanei, ma più in generale, come nota Bormolini in [2], ci ha costretti
violentemente a fare i conti con la nostra vulnerabilità, dopo che per molto tempo si sono alimentate attese
enormi e quasi miracolistiche nei confronti della scienza medica e si sono proposti nei mass media modelli di
salute perpetua, eterna giovinezza, eternità, aumentando enormemente le aspettative e di conseguenza il senso
di frustrazione causato dal fallimento.

2.3 Gli adolescenti di fronte alla vita e alla morte
“L’adolescenza è l’età in cui la sfida ai limiti biologici è particolarmente evidente. Violenza contro i compagni,
stalking e bullismo sono l’altra faccia della medaglia rispetto alla chiusura in se stessi e al suicidio. Alcuni
studi mostrano come gli adolescenti che adottano in misura significativamente maggiore comportamenti a
rischio per la propria e l’altrui salute siano quelli che non temono la morte.” ([11] p. 65)
Secondo i numeri riportati in [17], negli Stati Uniti, il suicidio è la seconda causa di morte tra i bambini e gli
adolescenti di età compresa tra 10 e 19 anni. In Italia il suicidio è la terza causa di morte più frequente dai 15
ai 24 anni, dopo incidenti stradali e cancro. I suicidi sono più diffusi (circa il 30% in più) nel Nord Italia che
nel Centro-Sud; è stato ipotizzato che questo sia legato al ruolo protettivo delle reti di familiari e amicali più
deboli al nord. I ragazzi muoiono di suicidio due volte più frequentemente delle ragazze. È difficile stabilire
una causa precisa per questi eventi traumatici; tuttavia, nella fascia di età 15-19 anni, c’è una maggior frequenza
di suicidi nelle scuole, spesso accompagnati da problemi come scarsa autostima e difficoltà nei rapporti con
amici e familiari (33%), depressione (13,8%) e problemi familiari (5,6%).
La situazione vissuta in seguito all’emergenza COVID-19 ha inevitabilmente amplificato il problema. Stefano
Vicari, primario dell’UOC di Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza dell’Ospedale Pediatrico
Bambino Gesù di Roma, nel corso di alcune interviste apparse sulla stampa nazionale in occasione della
presentazione del volume [25] ha dichiarato che “è anche causa del Covid-19 e di questo periodo (con o senza
lockdown) se sono aumentati atti autolesionistici e suicidari che hanno segnato una crescita di disturbi mentali
sia nei ragazzi che nei bambini: irritabilità, ansia, sonno disturbato. Da ottobre ad oggi, quindi dopo la prima
ondata Covid, abbiamo registrato un aumento dei ricoveri del 30% circa. Fino ad ottobre avevamo il 70% dei
posti letto occupati (8 in tutto), oggi il 100%. Nel 2011 abbiamo avuto 12 ricoveri per attività autolesionistica,
a scopo suicidario e non, mentre nel 2020 oltre 300, quindi quasi uno al giorno.” [23]
In una intervista del 21 marzo 2021 al quotidiano Corriere Fiorentini [24] la dottoressa Tiziana Pisano,
responsabile della psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza dell’ospedale pediatrico Meyer conferma il
“notevole aumento dei casi di disturbi alimentari, in particolare di anoressia: ci troviamo di fronte a un
aggravamento delle situazioni, ma anche a casi del tutto nuovi. Ma aumentano anche i disturbi d’ansia e di
depressione, diventano più invalidanti, impediscono di avere relazioni, di fare programmi. […] Gli adolescenti
non hanno l’abitudine a esprimere facilmente il dolore. In questo momento di particolare fragilità, la mancanza
di relazioni acuisce i problemi. E per molti, l’interazione con pochi amici o attraverso i social non può bastare”.
E il fenomeno non si limita all’Italia. Secondo l’indagine [3] svolta dal Centre for Disease Control and
Prevention, negli Stati Uniti durante il mese di giugno 2020 un giovane su 4 ha dichiarato di aver “pensato
seriamente al suicidio”: 25,5% del totale contro il 11% del totale su tutta la popolazione; in una analoga
indagine svolta nel 2018 le percentuali corrispondenti erano rispettivamente 10,7% e 4,3%. Nella stessa
indagine, il 40% degli intervistati ha dichiarato di aver avuto nello stesso periodo problemi legati a uso di
sostanze o a difficili situazioni psichiche. Su [22] e [10] si vedono analoghe considerazioni riferite al Giappone.

2.4 La Death Education come prevenzione del suicidio nell’adolescenza
Molte iniziative di prevenzione primaria dei fenomeni suicidari sono state implementate in Europa e nel
mondo: per esempio, programmi scolastici di prevenzione del suicidio sono stati promossi dalla American
Foundation for Suicide Prevention; il Life Skills Education Program e il programma europeo EUREGENAS
hanno implementato iniziative formative all’interno della scuola per migliorare i fattori protettivi che riducono
i livelli di frustrazione degli studenti e le condizioni che ne causano l’isolamento sociale. Tuttavia, ciò potrebbe
non essere sufficiente a causa della mancanza di riflessione esistenziale sulla relazione tra i pensieri legati alla
morte e il senso della vita: la quasi totale assenza di qualsiasi forma di discussione razionale sulla mortalità
può abbandonare bambini e adolescenti all’aderenza irrazionale ad atteggiamenti pericolosi verso la morte,
contribuendo a una riduzione della resilienza nei confronti delle difficoltà.
Sfortunatamente, educatori e genitori, in generale tutti gli adulti, si dimostrano riluttanti a rispondere alle
domande dei bambini e degli adolescenti su morte e vita, credendo così di proteggerli da pensieri negativi.
Non abituati a riflettere su tali temi, a loro volta trasmettono questa incapacità di comprendere ed elaborare
l’argomento ai bambini, aumentando così rappresentazioni orribili della morte. I giovani e gli adolescenti
vengono lasciati soli nella ricerca di informazioni sulla morte e soggetti all’influenza dei media, i cui messaggi
irrealistici non li aiutano a gestire questo argomento in modo maturo. Tutto questo può essere particolarmente
pericoloso, soprattutto quando i bambini e ragazzi arrivano a credere che il suicidio possa essere una soluzione
ai loro problemi e non riescono a trovare uno spazio relazionale in cui discutere i propri pensieri negativi.
Per contrastare ciò, la DeEd può essere inserita nel contesto dell’istruzione formale, anche in una prospettiva
di prevenzione del suicidio o elaborazione della perdita traumatica. Essa infatti consente di intervenire nelle
rappresentazioni della morte e di affrontare la necessità di ricostruire un senso della vita. Come molte ricerche
hanno dimostrato, la DeEd può essere molto utile nella gestione del rischio di suicidio. In particolare, quando
gli studenti vivono in uno spazio in cui è presente il trauma del suicidio, la DeEd può trasformare il rischio
dell’”effetto Werther” (il verificarsi di altri eventi suicidari per imitazione provocati dall’identificazione e dalla
familiarità) in un’elaborazione positiva di pensieri mirati alla morte per valorizzare e rafforzare il senso della
vita. In letteratura si parla di un simile risultato anche come di “effetto Papageno”, con riferimento all’opera
“Il Flauto magico” di Mozart, in cui il protagonista (Papageno, appunto) viene salvato dal suicidio grazie
all’intervento di altri personaggi che gli mostrano un modo diverso di risolvere i suoi problemi.
La DeEd può fornire informazioni sulla morte supportate dal linguaggio appropriato per aiutare la
comprensione emotiva, innescare riflessioni sul significato della vita, rafforzare il pensiero critico e sostenere
la condivisione dell’apprendimento esperienziale con amici e compagni di classe. Fondamentale in questo
quadro il ruolo della DeEd per ridurre l’alessitimia (“mancanza di parole per [esprimere] emozioni”): un
costrutto psicologico che si riferisce a una ridotta consapevolezza emotiva, comportante l’incapacità sia di
riconoscere sia di descrivere verbalmente i propri stati emotivi e quelli altrui. In generale, la difficoltà
nell’identificare le proprie emozioni significa meno competenza personale e più difficoltà nel dirigere i propri
obiettivi. Quindi, le difficoltà nel descrivere i propri sentimenti sono legate a una diminuzione della resilienza
in tutti i suoi aspetti, cioè all’incapacità di affrontare positivamente le situazioni difficili nella vita.

2.5 Il senso del morire: spiritualità nella Death Education
Le ragioni socio-religiose dell’educazione alla morte si mescolano con le ragioni psicologiche. “L’esigenza
esasperata di razionalizzare ogni aspetto della vita e la perdita del senso del mistero hanno generato una
maggiore angoscia di vivere e una maggiore paura della morte. L’abbandono del patrimonio tradizionale di
riti e di simboli e la riduzione del ruolo del rito nella società impediscono agli esseri umani di rivolgersi alla
parte più profonda di se stessi, modificando lo sguardo umano sulla vita e sulla sua conclusione.” ([2])
Se chiediamo a qualcuno qual è il contrario della morte, di solito si risponde “vita”. Ma questo non è logico.
In termini di opposti, si può dire che il nero (assenza di colore) è l’opposto del bianco (combinazione di tutti i
colori), la luce “accesa” è l’opposto dell’essere “spenta” e la morte è l’opposto della nascita. In tal senso, la
morte può essere vista come una parte normale della vita, non qualcosa da temere o cercare di ignorare. Se si
vedono vita e morte come opposti, è inevitabile attribuire loro qualità contrarie: la vita è bella, piacevole e
felice, mentre la morte è malvagia, triste, orribile, difficile e significa dolore. E questo ci abbandona
inevitabilmente alla paura. Sembra logico supporre che una vita di significato, quella che include la morte
come parte del ciclo di vita, possa aiutare ad alleviare la temibile natura della morte nella mente
dell’adolescente. In quanto argomento di discussione socialmente accettato, la morte perderebbe il suo status
di tabù e le persone avrebbero l’opportunità di approfondirne il significato. Pochissime persone affermerebbero
consapevolmente che la morte non è normale o che sia in qualche modo una parte evitabile della vita. Se
dunque la morte è in effetti una parte della vita, come può essere l’opposto della vita?
Purtroppo la società valorizza la giovinezza e il vigore al punto da temere l’invecchiamento, che viene visto
come una sorta di lenta morte. La morte inizia dalla nascita, ma la società (con il forte aiuto della pubblicità)
è arrivata a vedere gioventù e bellezza in qualche modo statiche. È come se ci fosse una linea di demarcazione
che si attraversa all’improvviso per iniziare a morire, diventando meno efficienti, meno piacevoli e
“desiderabili”: da qui il suo aspetto spaventoso. Occorre trovare un modo per comprendere e accettare il
processo di invecchiamento, e per vedere la morte come un evento nel ciclo di vita.
Per quanto si sa, è l’ultima cosa che accade nella vita, eppure la morte ne è ancora un evento. Si nasce e, a
meno di una morte prematura, si cresce, si attraversa la pubertà, si diventa adulti. Per tutto il percorso, si cambia
fisicamente in un modo sperimentato da tutti. Si invecchia e si muore. Forse ci sono altre fasi dopo quella che
chiamiamo morte, ma a oggi non c’è modo di saperlo con certezza (affermazione che va però letta
correttamente nel suo significato). Non avrebbe senso considerare una nascita o una pubertà come fatti a sé, o
una vecchiaia come qualcosa di separato dalla vita, perché questi ne sono eventi, al pari della morte stessa.
Una riflessione sul senso della vita si gioverebbe molto dei riferimenti che sono stati sviluppati durante i secoli
dalle varie religioni, e in particolare per noi italiani dalla religione cattolica. Occorre però rilevare la
contraddizione fra le proposte “ufficiali” in questo campo e la realtà vissuta personalmente da molti giovani.
La stessa situazione pandemica ha creato in molti una specie di corto circuito sul piano spirituale: da un lato si
è avvertita fortissima la necessità di un appiglio, un rifugio, qualcuno o qualcosa che desse speranza e sollievo
in una situazione in cui l’essere umano ha riscoperto tutta la sua fragilità e solitudine. D’altro canto ormai per
la maggior parte delle persone si è compiuto un divorzio definitivo da riti e terminologia incapaci di offrire
una chiave ermeneutica efficace della realtà. Così ad esempio, in tanti, credenti e non credenti, si sono trovati
a seguire con convinzione la diretta della Messa celebrata in solitaria da papa Francesco, avvertendo però (più
o meno consapevolmente) in maniera straziante la contraddizione di dover impetrare da un Dio “padre buono”
la grazia di liberarci da un flagello che la scienza ci dice essere stato provocato dall’uomo stesso. Egli, che
secondo la promessa di Gesù Cristo sa di cosa abbiamo bisogno “prima” che glielo chiediamo (Mt 6,8) e ce lo
darà immancabilmente (Gv 16,23), avrebbe dovuto intervenire come “tappabuchi”, facendoci il miracolo che
nei secoli passati era generato dalle processioni (che fortunatamente in questo caso abbiamo saputo evitare).
Quando il miracolo non è avvenuto, ci siamo rivolti a nuovi “taumaturghi”: virologi, infettivologi ecc. e a
nuovi “talismani”, i vaccini, aumentando però la solitudine e la disillusione nei confronti di una dimensione
spirituale, pericolosamente confusa con quella religiosa che così malamente avevamo interpretato.
Come proporre allora all’uomo di oggi, in particolare ai ragazzi, una esperienza di spiritualità che sia
effettivamente salvifica e liberante, in grado di “dire” loro qualcosa che possa aiutarli a ritrovare slancio e vita
oltre l’attuale esperienza di frustrazione? “Occorre pensare a una spiritualità come una dimensione vitale che
va anche oltre i confini delle religioni e delle singole confessioni, ma sempre aperta al mistero dell’altro e del
mondo.” ([2]), dunque una “spiritualità che interpreti la presenza del male e della sofferenza come conseguenza
inevitabile dell’autonomia di un mondo finito e che ci porti a fare tutto ciò che è in nostro potere per ridurre o
impedire questo male o questa sofferenza. Una spiritualità che ricomponga la frattura che abbiamo operato tra
noi e quello che ci circonda, che risani la frattura del senso di fratellanza/sorellanza con tutti gli altri esseri con
i quali condividiamo la stessa origine “stellare” e una parte consistente del nostro patrimonio genetico. Una
spiritualità che ci restituisca il senso dell’interconnessione di tutto con tutto, che è la vera legge dell’Universo.
E che, così facendo, ci riporti indietro dal nostro autoesilio dalla natura, dalla pretesa di essere al di sopra di
essa, separati da essa.” ([4])

3. La scienza di fronte al mistero
Alcune fra le esperienze studiate in questa sede hanno coinvolto docenti delle discipline scolastiche di Italiano
e Filosofia. Non sono invece stati in alcun caso coinvolti insegnanti di discipline scientifiche, neppure nel caso
di Licei Scientifici: anche la lezione sulla fisica del suono e sugli effetti del suono delle campane tibetane
nell’esperienza [19] è stata tenuta da esperti esterni e non da un docente di Fisica della scuola.
L’insegnamento delle materie scientifiche nella scuola italiana, e non solo, risente di una impostazione
meccanicista risalente alle idee filosofiche dei secoli dal XVII al XIX e presenta una serie di caratteristiche
che trovano il loro sviluppo più coerente nelle idee di Galileo e Newton. Questa visione, applicata un po’ a
tutte le discipline scientifiche, presenta un mondo in cui tutto è regolato da un approccio causa-effetto, dove le
uniche quantità che contano sono quelle misurabili e in cui tutto è esattamente prevedibile, ove si conoscano
le misure precise di tutte le quantità in gioco. Come scrisse Laplace (1749-1804) nel suo Trattato sulla
probabilità “Un’Intelligenza che, per un dato istante, conoscesse tutte le forze da cui è animata la natura e la
situazione rispettiva degli esseri che la compongono, […] nulla sarebbe incerto per essa e l’avvenire, come il
passato, sarebbe presente ai suoi occhi”. Lo sviluppo continuo della tecnologia ci garantirebbe che prima o
poi arriveremo a una precisione illimitata e dunque a illimitata conoscenza, capacità di prevedere e dominio
sulla natura, identificata in toto con ciò che è visibile e misurabile.
Questo approccio si è ormai esteso fino a diventare una chiave interpretativa della realtà e lascia ben poco
spazio al mistero e quindi alla spiritualità. Quest’ultima viene associata in modo più o meno consapevole alla
religione con tutto l’armamentario di dogmi e tradizioni che, soprattutto nel nostro Paese, sono quelli propri
della religione cattolica, spesso nati da una interpretazione letterale dei testi sacri e trasmessi acriticamente ai
ragazzi durante le lezioni di catechismo pre-sacramentale. E qui il corto circuito diventa completo, perché un
adolescente mediamente istruito non può che rifiutare affermazioni e linguaggi manifestamente inconciliabili
con una visione scientifica della realtà. Risulta qui evidente l’errore di una Chiesa che (da Galileo a Darwin a
Freud…) ha sempre “remato contro” le nuove teorie salvo poi ricredersi, costantemente in ritardo sui tempi.
Tuttavia la scienza, a partire dal ventesimo secolo si trova costretta sempre di più a fare i conti con il fatto che
alcune cose non solo non le conosciamo ma non sono conoscibili o comunque misurabili. Si supera qui la
classica distinzione fra il “come” e il “perché” di un dato evento che aveva di fatto rappresentato il
“compromesso” fra scienza e fede: si tratta di scoperte che mettono in crisi proprio la conoscenza del “come”
e ci costringono a rinunciare alle conseguenza dell’illusione meccanicistica sopra ricordata. Faremo adesso
alcuni esempi applicati a varie discipline i quali, pur nella brevità e mancanza assoluta di esaustività,
dimostrano come inevitabilmente invece il mistero possa e debba costituire parte della nostra visione
dell’universo e della nostra stessa esistenza e come dunque sia lecito e doveroso proporre ai ragazzi esperienze
di spiritualità come approccio significativo per un approfondimento del senso della vita e della morte.
Albert Einstein è noto per essere l’inventore della Teoria della Relatività, ma il premio Nobel che vinse nel
1921 non gli fu attribuito per questa ma per una scoperta sulla natura della luce che è alla base di un’altra
teoria: la fisica quantistica, alle cui “stranezze” peraltro Einstein si oppose strenuamente negli anni successivi
(è celebre la sua frase “sono convinto che Dio non gioca a dadi” in risposta a una lettera del fisico tedesco
Born), salvo doversi alla fine arrendere davanti all’evidenza delle prove. La teoria della relatività ci ha messo
di fronte al fatto che spazio e tempo sono solo due aspetti della stessa realtà: si parla infatti di “sistema spaziotempo”
che si modifica in funzione della velocità o della massa di ciò a cui ci riferiamo, costringendoci dunque
a riesaminare le basi stesse del nostro “situarsi”. La fisica quantistica va ancora oltre e sta attualmente mettendo
in discussione la realtà stessa del tempo che risulta essere descrivibile più come una collana di grani temporali
anziché come una curva continua lungo la quale situarsi: su cosa questo significhi realmente non c’è accordo
neppure fra gli scienziati ma certo questa visione mette in dubbio alcune granitiche “certezze”.
La fisica quantistica presenta del resto molti aspetti che ci costringono a rivedere le nostre intuizioni su come
“evidentemente” funziona la realtà. Molti fenomeni sono descrivibili a studenti di una scuola superiore: ad
esempio, una serie di paradossi legati al comportamento del fotone, che a volte sembra muoversi come un’onda
altre come una particella e che sembra “cambiare comportamento” a seconda che ci sia o meno qualcuno o
qualcosa da cui sia osservato. Il comportamento del fotone, come pure quello di tutte le particelle subatomiche
è descritto da una funzione, la quale ha valori calcolabili dovunque, ma soltanto probabilistici (i “dadi” di Dio
a cui si riferiva Einstein) e dunque non ci permette di conoscere a priori l’esatto svolgersi degli eventi a partire
da date condizioni iniziali. Solo l’intervento di un osservatore permette di “fermare” e misurare lo svolgersi
degli eventi; finché la misura non avviene è come se la particella avesse in sé “contemporaneamente” tutte le
possibilità. Ancora più significativa per il discorso che stiamo sviluppando l’osservazione che le misure che
possiamo rilevare hanno un limite invalicabile di precisione (la costante di Planck). “Se conoscessimo tutte le
variabili fisiche che descrivono una cosa con precisione infinita, avremmo informazione infinita. Ma non
possiamo” ([8]) e questo demolisce definitivamente l’illusione di poter descrivere in maniera precisa e
definitiva la realtà presente e i suoi sviluppi. E’ questo il “principio di indeterminazione di Heisenberg”
enunciato nel 1927: se misuriamo la posizione e la velocità (o meglio il prodotto velocità x massa) di una
particella, sappiamo che entrambe le misure hanno inevitabilmente una imprecisione che la meccanica classica
sperava di poter ridurre sempre più grazie alla precisione degli strumenti di misura; invece, il prodotto di tali
imprecisioni non potrà mai scendere al di sotto del valore della costante di Planck. Per quanto piccolo sia il
valore di tale costante (si tratta di circa 6×10-34 cioè 0,000….0006 dove fra la virgola e il 6 troviamo 33 zeri),
questa affermazione ha delle conseguenze enormi e non rimediabili sulla nostra pretesa di conoscenza esatta e
completa della realtà. “Il principio di indeterminazione non significa che noi non possiamo misurare con
grande precisione la velocità di una particella e poi misurare con grande precisione la sua posizione. Possiamo.
Ma dopo la seconda misura la velocità non sarà più la stessa: misurando la posizione perdiamo informazione
sulla velocità” ([8]) e la stessa cosa vale per altre importanti coppie di grandezze.
Quasi contemporaneamente, anche la matematica si è trovata davanti a una analoga crisi. Nel congresso
mondiale dell’anno 1900 Hilbert, uno dei più celebri matematici dell’epoca, aveva invitato a lavorare sulla
costruzione di una teoria “completa” cioè una teoria che permettesse di dimostrare la verità (o falsità) di
qualunque affermazione si volesse valutare. Ma nel 1930 Godel dimostrò che questo non è possibile: qualsiasi
teoria matematica abbastanza complessa non riuscirà mai a dimostrare la verità o la falsità di tutte le questioni
che può porsi. Anche la scienza che viene considerata certezza per antonomasia (si dice “sicuro come 2+2 fa
4”) deve riconoscere che non tutto è definitivamente conoscibile.
La cosmologia è riuscita a descrivere in maniera molto precisa l’universo e il suo funzionamento. È noto che
l’universo è “nato” 13,8 milioni di anni fa con il “Big Bang”, espressione coniata in senso dispregiativo nel
1949 proprio per sostenere l’ipotesi contraria di un universo perenne e immutabile: l’ipotesi di una “creazione
improvvisa” ricordava troppo il racconto biblico della Genesi e non si accordava con la visione scientista
prevalente. Risultava ancora più sospetto che il primo a sostenere quella che sarebbe poi diventata la teoria del
Big Bang fosse stato uno scienziato che era anche un prete cattolico, Pierre Lemaitre nel 1927. Ma è
perfettamente spiegabile con le conoscenze attuali come si potesse dare la possibilità di un evento che facesse
scaturire una energia/materia (quasi) infinita da una infinitesima variazione casuale delle proprietà delle
particelle che componevano un universo “estremamente vicino alla condizione di totale omogeneità e
isotropia” ([21]). Questa è attualmente l’ipotesi più convincente della moderna cosmogonia, coerente con tutti
i dati osservativi finora raccolti: il nostro universo è tale che in ogni momento la somma algebrica delle varie
forme di energia esistenti è pari a zero, con continue variazioni infinitesime intorno a tale valore nullo. “In un
universo a energia totale nulla non c’è bisogno di nessuno strano meccanismo che concentri nella singolarità
iniziale enormi quantità di materia ed energia perché nel punto c’era energia nulla e il sistema che ne è scaturito
e che noi chiamiamo universo, ha ancora energia nulla” ([21]). Anche se è lecito ipotizzare che la “casualità”
dell’infinitesima variazione iniziale sia in realtà un atto deliberato di un dio-creatore, mediante una parola
(dabàr ebraico, logos greco). o una danza vibrante come nelle mitologie indù, questo non riguarda la scienza.
Noi siamo in grado oggi di descrivere l’evoluzione dell’universo e come si sono formate le stelle, i pianeti, le
galassie ecc. come prodotto della energia iniziale; i potenti strumenti esistenti e costruibili (si pensi alle
macchine sotto il Gran Sasso o al CERN di Ginevra e le analoghe progettate, ancora più potenti) ci chiariranno
sempre meglio quali particelle sono intervenute e con che ruolo. Ma esiste un limite invalicabile: c’è un
“grano” di tempo immediatamente successivo al Big Bang su cui non abbiamo e non potremo avere
informazioni perché gli eventi che si svolgono in questo lasso di tempo sono inconoscibili non solo allo stato
attuale della scienza ma in via teorica generale. Si tratta di un intervallo temporale molto piccolo (circa di
10-33 secondi, ancora uno 0,… seguito da 32 zeri prima di arrivare a una cifra diversa) di fronte a cui si arresta
la nostra possibilità di analisi delle realtà in gioco. Dopo quell’istante comincia a nascere la realtà così come
la conosciamo e possiamo analizzare: prima, dobbiamo accettare che ci sia il mistero.
Il mistero persiste anche se volgiamo lo sguardo all’essere umano e al suo cervello. La teoria darwiniana
dell’evoluzione ci ha messo in condizione di comprendere i meccanismi che dai primi organismi hanno
condotto alla complessità attuale; la scoperta della struttura del DNA (1953) ha posto le basi per una
comprensione sempre più chiara dei meccanismi che regolano l’evoluzione e la crescita degli organismi
viventi. Tuttavia è noto che la specie umana condivide molto del suo DNA con altre specie: il genoma
dell’Homo Sapiens è comune al 99% con quello dello scimpanzè (su 3,2 miliardi di paia di basi che lo
compongono soltanto 30 milioni sono diverse). Le basi del DNA danno luogo a circa 20.000 geni codificanti,
cioè che hanno influenza diretta sullo sviluppo dell’individuo. Tuttavia il 98,5% del genoma umano è “non
codificante” ovvero non è direttamente coinvolto nel programmare lo sviluppo dell’individuo. Il genoma di
una ameba unicellulare, l’amoeba dubia, ha più di 200 volte la quantità di DNA rilevata nel genoma umano;
il pesce palla, presenta invece circa un decimo del genoma umano, pur avendo un numero di geni comparabile.
La maggior differenza tra l’uomo e il pesce palla, invece, sembra proprio essere la quantità di sequenze non
codificanti. La combinazione dei geni e gli effetti del genoma non codificante, insieme alle condizioni
ambientali, producono l’unicità e irripetibilità di ogni singolo essere umano sulla base di criteri non definibili
in quanto basati su calcoli probabilistici e soprattutto sulla interazione con la mutevole realtà al contorno.
Anche la conoscenza del cervello umano ha fatto negli ultimi decenni passi da gigante con lo sviluppo delle
neuroscienze e con l’applicazione di strumenti sempre più sofisticati che ci hanno permesso di conoscere il
funzionamento della struttura cerebrale e delle sue regioni e il ruolo dei neuroni che la compongono. Tuttavia
ciò che sembra contare non è tanto il singolo neurone quanto le sinapsi, cioè le connessioni che i neuroni
stabiliscono fra loro e qui il problema diventa estremamente arduo perché nel cervello vi sono circa 86 milioni
di neuroni e le connessioni possibili fra i neuroni, che ne costituiscono il “connettoma”, sono un numero
enorme. Quello che è stato possibile fare con il connettoma dei 302 neuroni di un verme lungo circa 1mm detto
Caenorhabditis elegans (programmare un computer con tutte le connessioni e il loro effetto, in modo da far
agire una riproduzione del verme in modo assolutamente identico al verme originale) non è riproducibile per
l’essere umano non soltanto per la enorme quantità di connessioni che aumenta esponenzialmente rendendo
ingestibile un computer con un programma dello stesso tipo, ma perché lo sviluppo di ognuna delle esattamente
959 cellule del Caenorhabditis elegans presenta un percorso molto ben definito e costante in tutti gli individui,
a differenza di quanto avviene nell’embriogenesi dei mammiferi, nella quale il numero e l’esatta funzione delle
cellule presenti non è definito a priori. Inoltre ogni uomo nel corso della sua esistenza si rapporta con altri e
stabilisce dunque connessioni anche con essi e con le loro reti neurali. A loro volta questi contatti mutano il
sistema di connessioni e di nuovo la casualità probabilistica viene a giocare un ruolo centrale e conduce
all’impossibilità di applicare predizioni definitive sull’individuo e sul “connettoma” sociale di cui è una parte.
Davvero, per dirla con Shakespeare, “ci sono più cose fra cielo e terra di quante ne sogni la tua filosofia”.
Non ha fondamento la pretesa di riuscire, se non adesso in un qualche futuro, a conoscere, prevedere, definire
e in definitiva “possedere” la realtà, né tantomeno è più lecito identificarla con quello che i nostri sensi ci
trasmettono e che il senso comune ci suggerisce. Restare aperti al mistero e alla scoperta è l’unico modo sensato
per non perdersi. Credo che questo pensiero possa essere offerto ai ragazzi come dono per la loro crescita.

4. Analisi delle esperienze
Presentiamo adesso lo studio di una serie di esperienze di DeEd in scuole italiane, secondarie di I e II grado e
corsi universitari (l’analisi specifica di queste ultime non rientra in questa tesi, anche se nel seguito vi faremo
comunque riferimento). Due di queste esperienze trovano una motivazione specifica nell’avvenimento di
alcuni suicidi fra compagni o coetanei dei ragazzi coinvolti; in questi casi l’esperienza è stata sollecitata dalla
scuola o dalla comunità locale. Negli altri casi, invece, si tratta di studi sugli effetti di un corso di educazione
alla morte fra adolescenti italiani. In tutti i casi l’esperienza è stata concordata con gli Istituti e gli insegnanti
e sono stati interessati anticipatamente le famiglie e gli stessi studenti. Gli effetti prodotti da ogni esperienza
sono stati studiati, oltre che su relazioni finali redatte dai partecipanti, mediante la somministrazione e l’analisi
di questionari iniziali e finali, con l’utilizzo di gruppi di controllo formati da studenti di altre classi dell’Istituto
che non avevano partecipato al corso. I questionari sono stati predisposti e analizzati usando varie scale note
in letteratura e opportunamente tradotte ove non presenti in lingua italiana ([17], [12]) o con altri metodi
comunemente usati in questi contesti ([18]).
Le esperienze studiate variano molto in durata e frequenza: si va dal corso [17] sviluppato su non più di tre
incontri al lavoro descritto in [19], che è durato cinque mesi per due ore settimanali all’esperienza che su base
volontaria è stata ripresa in due anni successivi ([13] e [20]). Facendo un esame comparato, si possono
individuare alcune linee generali che cercherò di riassumere brevemente di seguito.
• I corsi proposti sono stati tutti condotti da equipe miste, composte da esperti esterni e da docenti della
classe. Questo fatto può essere molto importante perché la presenza degli esperti garantisce validità
scientifica e coerenza semantica alla proposta, mentre la presenza degli insegnanti curricolari permette il
collegamento con la quotidianità, rassicura i ragazzi e offre la possibilità di continuare in seguito il lavoro
di approfondimento ove necessario. Purtroppo questo va a scapito della randomizzazzione e può
rappresentare un limite dello studio teorico (si devono infatti scegliere per l’esperienza quelle classi i cui
docenti siano interessati e disponibili), tuttavia è un suggerimento prezioso per la ripetibilità e la sperabile
standardizzazione della proposta. Di solito sono intervenuti i docenti di italiano e di filosofia; come
argomentato nel capitolo dedicato sarebbe estremamente significativo riuscire a coinvolgere anche gli
insegnanti delle discipline scientifiche soprattutto in quegli indirizzi scolastici dove, almeno in teoria, la
scienza riveste un ruolo centrale.
• Tutti i percorsi si sono sviluppati in una parte formale ed una informale: quella formale consiste
generalmente in lezioni sulla morte, meditazione (secondo le tradizioni occidentale e orientale) e
conoscenza dei messaggi delle varie religioni, discussioni collettive. Talvolta questa fase è introdotta da
film sul tema della morte e di come le varie culture e religioni l’hanno affrontata. Ad esempio il film di
animazione “Coco”, prodotto da Disney Pixtar nel 2017, è stato usato in [17] con ragazzi di scuole
secondarie di I grado in due città del nord-est d’Italia in cui i suicidi si verificano in maggiore misura
rispetto al resto della regione. Il film, ambientato in Messico durante i Día de Muertos, descrive le
avventure di un giovane, il quale incontra diversi ostacoli, per seguire la sua passione per la musica. La
visione del film ha permesso ai partecipanti di svolgere attività di psicodramma volte a drammatizzarne il
ruolo, identificandosi con la storia e interiorizzando così il messaggio.
• La parte informale comprende una serie di azioni attive richieste agli studenti: ad esempio, può essere
chiesto loro ([19]) di (a) cercare documenti su morte, perdita, spiritualità, religiosità, meditazione e
riflessioni sull’aldilà; (b) condividere i propri sentimenti e sensazioni in piccoli gruppi di discussione; (c)
delineare e quindi produrre un progetto scenico per comunicare i propri sentimenti; (d) pianificare una
presentazione finale per conferenze pre-programmate. Molto importanti in questa parte alcune attività
ispirate, in senso lato, all’arte terapia. In particolare in queste esperienze si tratta di:
o Attività di Photovoice, un metodo di indagine che, attraverso la fotografia, coinvolge direttamente i
soggetti inducendoli a riflettere su specifiche tematiche a partire da una immagine: un esempio
significativo è certamente la pratica internazionalmente nota come “Before I die I want to…” ([12]: si
veda il successivo paragrafo dedicato). I partecipanti venivano fotografati oppure era loro proposto di
scattare o esaminare alcune foto, e poi era chiesto di attribuire all’immagine una didascalia. Nella
esperienza [17], ad esempio, ai partecipanti (studenti di scuola secondaria di I grado) è stato chiesto
di fare delle foto riguardanti il tema “Nella mia vita vorrei”, offrendo dunque loro l’opportunità di
pensare ai propri sogni e ai progetti futuri. Attività basate sulla fotografia sono ampiamente utilizzate,
sia nell’area dell’educazione che in quella del cambiamento sociale, con l’obiettivo di produrre
un’evoluzione positiva negli individui, nei gruppi e nella comunità. In ambito educativo, la tecnica
Photovoice risulta particolarmente utile per migliorare il benessere e ridurre la discriminazione
sociale, l’isolamento o l’esclusione, nonché per cambiamenti personali positivi attivi e può dunque
essere vantaggiosa anche nell’area dell’educazione alla morte. In [15] la produzione di Photovoice è
stata proposta a studenti universitari come un modo per incoraggiarli a dibattere sulla morte e la
spiritualità al fine di aprire, nei loro laboratori, il dialogo sull’aldilà, i loro punti di vista ed emozioni:
l’esperienza ha confermato che, nonostante la maggiore ansia da morte, il gruppo che aveva seguito
il corso DeEd aveva un maggior livello di felicità e una minore alessitimia rispetto a quello di
controllo, confermando che questo tipo di attività facilita la gestione della comunicazione.
o Realizzazione di cartelloni o cortometraggi (a seconda dell’età), spingendo dunque i ragazzi stessi ad
agire come protagonisti, proponendo il tema anche a un pubblico esterno. Ancora nell’esperienza [17],
sono stati formati dei gruppi di lavoro con lo scopo di creare poster che illustrassero le emozioni dei
partecipanti, il loro futuro e il loro senso della vita. Tutti hanno spiegato le loro foto, creando una
legenda per ogni immagine con gli altri membri del gruppo, e i risultati sono stati poi presentati a tutta
la classe.
o Psicodramma, proposto in varie forme (oltre alla sopra ricordata [17], in particolare in [16] e [19]: cfr.
la descrizione più in dettaglio nel successivo paragrafo dedicato). L’azione scenica di tecniche
psicodrammatiche adattate al contesto scolastico, insieme a una riflessione su cosa significhi la morte
per la filosofia e alla possibilità di attivare la propria dimensione spirituale interiore, aiutano ad
esprimere, elaborare e superare perdite.
• Alcune esperienze hanno incluso momenti specifici di meditazione (anche con l’aiuto di strumenti, come
le campane tibetane [19]) ma in tutte è stato forte il richiamo ad una spiritualità non legata necessariamente
ad una visione religiosa, ma come esperienza di crescita interiore dell’individuo. L’apprezzamento della
sfera spirituale si rivela molto importante per l’elaborazione della perdita e la riflessione sul futuro. Prestare
particolare attenzione alla spiritualità / religiosità rafforza sentimenti positivi come speranza, forza e pace.
In questo modo, gli studenti potevano meglio riconoscere le emozioni negative come correlate all’ansia da
morte. Offrire ai giovani una prospettiva strutturalmente diversa da quelle meramente materialistiche che
caratterizzano la cultura contemporanea è un valore e un obiettivo da sostenere fortemente: “Grazie a
questi incontri ho potuto capire che la morte non è la fine di tutto. Sento che è molto più un passaggio che
una fine inevitabile” (Luigi [20]). “Ora considero la morte come l’inizio di una nuova grande avventura,
proprio come, alla nascita, finisce il mondo del bambino nel ventre della madre, e questo è solo l’inizio
della vita” (Francesca, [20])
• Alcune di queste esperienze ([13], [18], [20]), per la presenza di operatori nell’equipe, hanno potuto
includere la visita a un locale Hospice, visita che è risultata particolarmente significativa nelle parole degli
stessi ragazzi e ha portato a interessanti riflessioni sulle modalità di vivere dignitosamente il periodo finale
dell’esistenza, tematica che per ovvi motivi anagrafici non è sempre chiara alle persone e in particolare
agli adolescenti. Si sono potute riscontrare una più profonda serenità e un accresciuto senso di empatia
verso coloro che muoiono; gli studenti hanno anche notato quanto il personale si prende cura degli altri e
ne hanno avvertito il senso di umanità e dedizione. Hanno riferito di sentirsi più sereni sapendo che ci sono
persone che si sarebbero prese cura di loro nelle fasi finali della loro vita e che avrebbero potuto vivere
bene in quest’ultima fase, a proposito della quale, è stata evidenziata l’importanza di prestare grande
attenzione a chi muore: “La morte non si può evitare, ma si può accettare e assicurarsi che il paziente o
chi sta per morire non viva male questa situazione ma che possa godersi gli ultimi giorni come se non
fossero proprio gli ultimi” (Marco, [18])
• Molte di queste esperienze hanno previsto un’attività che, seppure non specificamente esaminata dalla
ricerca perché successiva alla compilazione e all’analisi dei questionari, tuttavia a mio parere e sulla base
di analoghe esperienze personali costituisce un grosso punto di forza. I lavori dei ragazzi hanno dato luogo
a una presentazione pubblica sotto forma di una lezione aperta ([15]), una mostra didattica sul lavoro fatto,
rivolta agli altri studenti e alle famiglie o addirittura una mostra pubblica all’interno di un convegno
conclusivo, laddove l’iniziativa era stata promossa dall’ ente locale ([13]).
• Tutte le esperienze hanno avuto comunque un forte impatto emotivo, testimoniato in espliciti riferimenti
nella relazione finale. Gli studenti sono rimasti piacevolmente sorpresi scoprendo che la condivisione dei
loro pensieri più oscuri li ha portati più vicini gli uni agli altri, meno spaventati e più pronti ad affrontare
il dolore e parlare apertamente. “Questa esperienza mi ha permesso di toccare i miei sentimenti, anche
quelli di cui a volte ci si vergogna o si ha paura. Quando abbiamo pianto tutti insieme all’Hospice, ho
capito che è normale, che sono vivo, che piangere significa scavare dentro di noi e toccare i nostri
sentimenti. Ho toccato il mio e quelli dei miei amici, ho toccato quelli degli altri che partiranno e quelli
che hanno ancora tempo per restare qui. Parlare di vita o di morte per me è parlare di questo: di ciò che
sono, di ciò che provo, di ciò che non mi fa paura e di ciò che, come piangere, mi dà forza” (Carlo, [18]).
“Attraverso questo corso, ho imparato che potevo chiedere aiuto dopo una perdita per elaborare meglio
il dolore, e questo mi rassicura” (Matteo, [20]).

4.1 “Before I die I want to…” : “Prima di morire voglio…”
Tra le tante strategie di Photovoice, spiccano i progetti intitolati “Before I die I want to” (acronimo BIDIWT).
Storicamente, la prima forma è stata il “Before I Die – wall”, un progetto di arte pubblica globale che
riattualizzasse la riflessione sulla morte. Il primo “wall” è stato creato nel 2011 su una casa abbandonata a
New Orleans dell’artista Candy Chang, dopo un lungo periodo di depressione causato dalla morte di una
persona molto cara. Da allora, oltre 2000 muri “Before-I-die” sono stati creati in oltre 70 paesi in tutto il
mondo. A loro volta, KS Rives e N. Kenney hanno realizzato nel 2008 una indagine fotografica per le strade
di New York, chiedendo a persone scelte casualmente “Cosa vuoi fare prima di morire?” Mentre gli
interlocutori stavano rispondendo alla domanda, veniva scattata una foto Polaroid e la frase veniva riportata
sulla stampa della foto. Le attività basate su foto sono ben note in letteratura e si rivelano utili per stimolare
lo sviluppo individuale e comunitario.
In [12] quest’ultima esperienza BIDIWT è stata utilizzata come attività introduttiva di corsi formali di DeEd
con studenti universitari italiani di psicologia (Psy) e servizio sociale (SoS); la prima fase della ricerca ha
considerato la produzione internazionale di 1343 foto (210 dall’India; 12 dal Giappone; 670 dagli Stati Uniti
e 451 dall’Italia), analizzando i testi delle loro didascalie, indagando su somiglianze e differenze secondo la
geolocalizzazione dei partecipanti e confrontandole con quelle del gruppo di studenti italiani.
I bisogni / desideri espressi sono stati analizzati secondo la piramide motivazionale (o dei Bisogni) di Maslow.
Le prime quattro categorie individuano “bisogni da carenza” (Deficiency needs o D-needs; a loro volta divisi
in fisiologici e di sicurezza) e la quinta i “bisogni di crescita personale” (Growth or Being needs o B-needs).
In particolare i B-needs spingono le persone a realizzare il potenziale personale, l’autoappagamento, alla ricerca
della crescita e delle esperienze di punta. L’analisi ha prodotto i seguenti interessanti risultati:
• Bisogni FISIOLOGICI: fame, sete, sonno, termoregolazione, ecc. Sono i bisogni connessi alla
sopravvivenza fisica dell’individuo. Sono i primi a dover essere soddisfatti a causa dell’istinto di
autoconservazione. Questo tipo di desideri è in realtà il meno menzionato in generale, a riprova
dell’esistenza di un benessere sostanziale fra le persone che hanno partecipato all’indagine.
• Bisogni di SICUREZZA: protezione, tranquillità, prevedibilità, soppressione di preoccupazioni e ansie,
ecc. Devono garantire all’individuo protezione e tranquillità (Prima di morire… mi piacerebbe “avere una
casa”, “una macchina”, “trovare un lavoro, …”). Anche queste esigenze hanno generalmente ottenuto
molta poca rilevanza, eccetto nelle risposte del gruppo dall’India.
• Bisogni di APPARTENENZA: essere amato e amare, far parte di un gruppo, cooperare, partecipare, ecc.;
Questa categoria rappresenta l’aspirazione di ognuno di noi a essere un elemento della comunità (Prima
di morire… mi piacerebbe “saper perdonare “,” mantenere le amicizie e l’affetto in famiglia ”, “
sviluppare l’intimità con i propri cari ”e “realizzare i sogni dei [miei] bambini”). In Oriente (India e
Giappone), questa esigenza era avvertita molto meno che in Occidente; in termini percentuali, era più
rilevante per gli italiani che per gli altri gruppi.
• Bisogni di STIMA: essere rispettato, approvato, riconosciuto, ecc. L’individuo vuole sentirsi competente
e produttivo. Questa categoria “autostima” era la più importante nel gruppo indiano. Includeva didascalie
che descrivevano la capacità di “autocontrollo”, “auto-valorizzazione”, “rispetto di sé” e il conseguimento
di successo “negli studi”, “nello sport”, “nel lavoro”, “nell’arte” e “nell’amore” o “il desiderio di vivere
pienamente”. Alcuni avevano espresso il desiderio di incontrare celebrità e personaggi famosi dello sport
e dello spettacolo.
• Bisogni di AUTOREALIZZAZIONE: realizzare la propria identità in base ad aspettative e potenzialità,
occupare un ruolo sociale, ecc. Si tratta dell’aspirazione individuale a essere ciò che si vuole essere
sfruttando le nostre facoltà mentali e fisiche. (Prima di morire… vorrei “conoscere il mondo”, “risolvere
i problemi dell’umanità” o “garantire giustizia e pace nel mondo “, insieme a “accettare i limiti”,
“rispondere in modo creativo alle perdite” e “raggiungere la piena felicità”). Questa è la categoria più
importante per gli Stati Uniti, il Giappone e per i gruppi italiani. É importante sottolineare che non ci sono
grandi differenze rispetto al genere tra Oriente e Ovest. Ciò suggerisce un cambiamento progressivo oltre
la tradizione che, soprattutto in Oriente, allontanava le donne dalla dimensione di autorealizzazione.
La tabella seguente illustra i valori e le percentuali relative:
Fisiologici Sicurezza Appartenenza Stima Autorealizzazione
India 5 2,38% 44 20,95% 25 11,90% 64 30,48% 72 34,29%
Giappone 0 0,00% 0 0,00% 2 16,67% 0 0,00% 10 83,33%
USA 23 3,43% 56 8,36% 106 15,82% 233 34,78% 252 37,61%
Italia 12 2,66% 19 4,21% 131 29,05% 131 29,05% 158 35,03%
La seconda parte della ricerca [12] ha coinvolto 100 studenti, in due gruppi di 50 ciascuno, provenienti da SoS
e Psy: i questionari sono stati analizzati, fra l’altro, a proposito del ruolo delle rappresentazioni ontologiche di
morte, se come annientamento (cioè la fine di tutto) o come passaggio (cioè credenza in un aldilà). I risultati
sono illustrati in Figura: si noti in particolare come la categoria legata al bisogno di autorealizzazione sia
significativamente più forte nel gruppo che vede la morte come un passaggio.

4.2 Psicodramma
Le tecniche psicodrammatiche sono abbastanza diffuse all’interno delle attività di gruppi che affrontino
questioni personali profonde. Molte delle ricerche studiate usano in modi e proporzioni diverse questo tipo di
attività: ad esempio, in [13] le avventure del protagonista del film che avevano visto sono state “rivissute”
personalmente dai ragazzi con tali mezzi. Particolarmente interessanti sembrano però due esperienze che fanno
un uso centrale di questa metodologia.
Al fine di poter parlare della morte senza provocare ansia eccessiva, i ricercatori nell’esperienza presentata in
[16] hanno ipotizzato che l’introduzione di un Bibliodrama potesse aiutare a raggiungere questo obiettivo. La
tecnica del Bibliodrama utilizza il gioco di ruolo in storie bibliche e può essere usata con qualsiasi gruppo, in
cui mettere in scena specifici testi. Questa attività è una forma particolare di psicodramma, che può essere
condotto come seminario per le religioni abramitiche o gruppi interreligiosi, prestando particolare attenzione
all’uso della drammatizzazione. Tale tecnica di arteterapia esplora in profondità il sottotesto simbolico che
attualizza la narrazione biblica esplorandone il significato psicologico, nella vita di tutti i giorni, come specchio
nel quale i partecipanti possono riconoscersi. L’uso di una storia della Bibbia non era inteso come
discriminatorio verso i non credenti in alcuna delle religioni abramitiche, tanto più che non c’è in essa alcun
esplicito riferimento a Dio: essa è stata scelta pensando che una storia tratta da un testo sacro potesse esaltare
le dimensioni di spiritualità e trascendenza. Inoltre, essendo una storia riferita a un tempo e luogo molto
distanti, poteva mitigare l’intensità o l’impatto psicologico dei problemi affrontati.
Dopo la spiegazione dell’esistenza di vari testi sacri (es. Testi piramidali, Poemi orfici, Vangeli, Tao Te Ching,
Corano, ecc.) fra i quali la Bibbia è alla base di molte religioni occidentali, è stato proposto ai ragazzi di mettere
in scena un Bibliodramma ispirato alla storia di Naaman (2Re 5,1-19), leader stimato, forte e coraggioso a cui
viene diagnosticata la lebbra, malattia incurabile e temibilissima che implicava un forte stigma sociale.
I partecipanti dovevano interpretare alternativamente in ogni parte della storia il ruolo di Naaman e di tutti gli
altri personaggi. Inoltre, i personaggi di ogni scena potevano essere affiancati dalle figure dei “doppi”, altri
partecipanti che, tenendo la mano sulla spalla del personaggio, avrebbero parlato per conto di questi, dando
voce a quelle che consideravano le sue emozioni profonde. La funzione del doppio viene normalmente attivata
in momenti diversi durante una sessione di psicodramma, quando c’è bisogno di prestare attenzione a ciò che
qualcuno sta provando. Per quanto riguarda il bibliodramma in oggetto si ha un intervento nella prima scena
(quando il medico comunica a Naaman la diagnosi di lebbra), nella seconda scena (quando Naaman deve
decidere se fidarsi del profeta che, secondo una sua prigioniera, può curarlo); nella terza scena (quando
Naaman si adira con il profeta all’annuncio che la “cura” consiste nel tuffarsi per 7 volte dentro il Giordano).
Ogni studente ha interpretato poi questa immersione prendendo in mano una coperta blu e completando come
riteneva opportuno la frase: “Potrò entrare in questo fiume quando…” davanti a tutti gli altri. Alla fine
dell’attività del bibliodramma, è stato chiesto agli studenti di esprimere come si erano sentiti durante
l’interpretazione dei personaggi.
Anche l’esperienza [19] ha utilizzato tecniche psicodrammatiche in alcune fasi: ad esempio, ai partecipanti è
stato chiesto di camminare liberamente per la stanza, quindi di toccare un compagno di classe sulla spalla e
condividere con lui / lei un sorriso e un pensiero su quel giorno specifico. In un’altra attività, la classe è stata
divisa in tre sottogruppi ai quali è stato chiesto di rappresentare mediante tre scene in modalità “sculture
animate” la vita di una persona sia nei suoi aspetti sicuri che in quelli incerti. Il primo gruppo rappresentava il
gioco dell’altalena, il secondo metteva in scena un aeroplano che volava attraverso una tempesta e il terzo
rappresentava una nave che navigava su un mare agitato. Infine, ai tre gruppi di studenti, divisi in coppie, è
stata data la possibilità di esprimere le proprie idee sulla vita e sull’esistenza seguendo l’esperienza appena
vissuta. In una successiva sessione, ogni partecipante è stato invitato a vestirsi e indossare un mantello d’oro,
impersonando la parte di un uomo saggio che rivela qualcosa di non convenzionale e saggio sul futuro.
Poiché l’esperienza [19] è stata realizzata in un contesto che aveva vissuto recentemente le morti, seppur non
collegate ma a due giorni di distanza una dall’altra, di due ragazze della scuola (una per incidente stradale e
una per suicidio), le attività di psicodramma hanno offerto agli studenti l’opportunità di parlare ad alta voce
alle ragazze coinvolte negli incidenti come se fossero effettivamente presenti, esprimendo liberamente i loro
sentimenti circa le perdite subite.

Conclusioni
Fra gli effetti più evidenti di queste attività, va anzitutto ricordata la riduzione della alessitimia, riduzione
rilevata in tutti i casi nel gruppo che aveva seguito il corso DeEd, mentre nel gruppo di controllo questa
variabile rimane in generale costante. Coerentemente con quanto previsto dalla letteratura, i partecipanti al
corso hanno migliorato la loro capacità di descrivere i propri sentimenti, hanno diminuito il pensiero orientato
all’esterno, rafforzato l’attenzione alle dimensioni interne e la capacità di parlare di tutto questo con meno
difficoltà. La possibilità di comunicare le proprie emozioni difficili ha prodotto sia un senso di liberazione che
una maggiore empatia per gli altri, attivando la discussione sui significati quotidiani, dai temi esistenziali più
semplici a quelli più importanti. I ragazzi hanno imparato a parlare fra loro della morte e dei problemi connessi
ed è stato espresso (con felice stupore !) da loro stessi il piacere per la migliore capacità raggiunta di
riconoscere, esprimere e condividere pensieri e emozioni personali. Poiché l’alessitimia è nota in letteratura
come correlata positivamente alla tendenza alla depressione e negativamente al benessere personale, questa
riduzione ha comportato un miglioramento generale nella qualità della vita dei ragazzi.
Particolarmente interessanti a questo riguardo alcuni risultati riportati in [16]. La maggior parte degli studenti
alessitimici con una struttura psicologica positiva, piuttosto che un atteggiamento evitante verso la morte,
hanno ottenuto una maggiore diminuzione di alessitimia alla fine del corso, dimostrando che coloro che
soffrono della mancanza di un’adeguata riflessione sul senso di vita, morire e aldilà possono ottenere i massimi
benefici da un intervento del genere. Ciò può essere dovuto al fatto che il loro livello maggiore di alessitimia
era collegato alla negazione culturale della morte e della spiritualità, e la possibilità di parlare di questi temi e
di affrontare le emozioni che suscitano li hanno aiutati ad aprire la loro competenza emotiva.
Inoltre, un livello più elevato di alessitimia appare correlato alla propensione alla fantasia in opposizione alla
positività, confermando che gli studenti che non sono in grado di gestire le proprie emozioni e hanno un basso
grado di positività cercano rifugio nella fantasia. In questo studio, tali soggetti vedono la morte come possibile
via di fuga, pur temendola. Questo risultato paradossale rafforza l’idea che nell’adolescenza sia molto
importante gestire i problemi legati alla morte, aprendo l’orizzonte al dialogo sul senso della trascendenza e
sulla possibilità di affrontare la paura della morte in modo sereno comunicando con gli altri. Possiamo anche
interpretare la tendenza a fantasticare di coloro che temono maggiormente la morte come un probabile effetto
culturale, legato alla negazione e alla repressione della morte, che potrebbe essere ridotto se a questi soggetti
fosse data la possibilità di accedere in modo razionale e competente agli strumenti che la tradizione religiosa
ha sviluppato nel corso dei secoli e che viene sempre più eclissato dalla tecnologia nella società postmoderna.
In generale, punteggi più alti di paura della morte sono associati a livelli più alti di alessitimia e punteggi più
alti di alessitimia sono associati a punteggi di spiritualità più bassi. Rafforzare la spiritualità in un corso DeEd
può ridurre l’alessitimia, l’ansia da morte e la paura di annientamento. Come confermato da precedenti ricerche
sull’ansia da morte, in [14] è stata trovata una relazione non lineare tra paura della morte e livello di religiosità:
la paura della morte inizialmente aumenta con la religiosità del soggetto, da livello basso a medio, ma poi la
paura della morte diminuisce con l’aumentare della religiosità, dal livello medio a quello alto. Questo risultato
suggerisce che l’ansia da morte è maggiore quando il contenuto religioso è considerato superficialmente nelle
riflessioni degli adolescenti sulla morte, ma può anche essere ridotto fornendo opportunità per un esame più
approfondito di tali questioni.
Gli studenti hanno in generale riconosciuto l’importanza e il valore di un dibattito aperto sui problemi legati
alla morte per condividere preoccupazioni e ansie e per conoscere meglio i compagni di classe. Come già
descritto in letteratura, i risultati mostrano che gli studenti hanno percepito queste attività come un
insegnamento a cogliere l’importanza di migliorare la propria esistenza e ad apprezzare e godersi appieno la
vita. Non si sono rilevati significativi effetti di aumento della paura della morte negli studenti coinvolti in
queste esperienze: questo è molto interessante e significativo perché una delle ragioni addotte solitamente dagli
adulti per evitare di affrontare questo tema è quella di non voler impaurire o impressionare i giovani. Al
contrario, i risultati delle ricerche esaminate offrono un valido argomento per promuovere l’educazione alla
morte su base teorica agli adolescenti.
Gli studenti che in [13] hanno partecipato all’educazione alla morte, utilizzando tecniche di psicodramma e
attività di produzione artistica di film, hanno riportato una significativa diminuzione della loro
rappresentazione della morte come annientamento, che al contrario nel gruppo di controllo risultava aumentata
significativamente. Nonostante un tempo non certo sufficiente per osservare gli sviluppi e il cambiamento, un
altro risultato importante rilevato in [19] è stato l’aumento dell’accettazione neutrale della morte, percepita
adesso come evento naturale; questo è noto essere correlato negativamente con la depressione e positivamente
con il benessere psicologico. In generale, le varie ricerche confermano ciò che la letteratura TMT ha
ampiamente dimostrato empiricamente, vale a dire il ruolo della rappresentazione simbolica e letterale
dell’immortalità come efficace cuscinetto contro l’effetto paralizzante dell’essere consapevoli della mortalità.
Nonostante l’aumento della salienza della mortalità implicato dalle problematiche inevitabilmente intrinseche
ai corsi di educazione alla morte, i risultati confermano che un insieme efficace di attività volte a riflettere
sulla morte e potenziare processi paralleli di creazione di significato su temi esistenziali, è adatto agli
adolescenti. Da segnalare però come i maggiori beneficiari dell’esperienza siano stati in tutti i casi i ragazzi di
maggiore età: questo suggerisce che l’effetto di un corso di educazione alla morte sia tanto maggiore quanto
più matura e la persona e quindi quanto più in grado sia di coglierne gli aspetti centrali. Di conseguenza sembra
opportuno proporre (a meno di necessità specifiche) questo tipo di attività a partire dal triennio della scuola
secondaria di II grado.
A proposito del ruolo della spiritualità e della religione, ad esempio in [18], gli studenti hanno testimoniato di
aver acquisito consapevolezza dell’importanza di fare qualcosa che trascenda le semplici cure mediche, poichè
la realtà interiore è rilevante tanto quanto quella fisica. Secondo alcuni partecipanti, questa era una qualità
spirituale che non richiedeva che la religione fosse definita come tale. Hanno anche riferito di sentirsi più
consapevoli che la vita spesso contiene eventi e situazioni negative che non possono essere evitati e, sebbene
la morte sia difficile da accettare, si sentono più preparati ad affrontarla e persino ad accettare la loro paura di
essa. Conoscere e comprendere i vari modi in cui gli umani hanno gestito la consapevolezza di essere mortali
attraverso la religione ha fatto capire agli studenti che, poiché la morte è una tappa obbligatoria per ogni
persona, è necessario che tutti si preparino durante la vita ad affrontarla. Affrontare il tema della morte li ha
aiutati a capire che non si possono dare giudizi parziali sulla vita e sulle altre persone ma vale la pena di cercare
di vedere sempre la bellezza, vivendo le proprie emozioni senza evitarle. Alcuni partecipanti hanno affermato
che questa esperienza ha dato loro diversi punti di vista da cui guardare la morte.
Gli anni del liceo presentano un periodo particolarmente vulnerabile in cui i comportamenti di assunzione di
rischio sembrano essere correlati allo scetticismo sulla continuazione non corporea nell’aldilà. L’intervento di
educazione alla morte può essere utilizzato per contrastare la normalizzazione e la familiarizzazione con il
suicidio che la censura delle esperienze di morte può invece facilitare. Se consideriamo traumatica l’esperienza
del suicidio di un pari, è importante aiutare gli adolescenti a esplorare e spiegare cosa sta succedendo quando
incontrano tale esperienza: la cospirazione del silenzio in questo caso semplicemente li abbandona alla loro
solipsistica negazione del dolore e della sofferenza. I progetti specifici ([17] e [13]) hanno permesso ai giovani
che sono entrati contatto con esperienze di suicidio, poiché vivono in aree in cui il suicidio affligge la vita della
comunità e della scuola, di approfondire il senso di questa realtà senza subire conseguenze negative, anzi
sviluppare più abilità esistenziali. Davanti a qualsiasi tipo di perdita, l’educazione alla morte può migliorare le
capacità degli adolescenti di promuovere la trasformazione del disagio in una crescita post-traumatica, vale a
dire la loro capacità di trasformare un fattore di stress più o meno grave in un guadagno esistenziale
Un intervento di Death Education a scuola, che affronti adeguatamente e consapevolmente il tema della morte
e l’elaborazione di un lutto sembra ridurre il terrore e l’angoscia verso la fine della vita. Misurando gli effetti
di queste esperienze, è infatti possibile confermare ciò che altri progetti hanno già dimostrato, ovvero che non
è la rimozione della morte che aiuta nella gestione del lutto. Ciò è reso possibile invece grazie all’apertura di
un’ampia riflessione sul futuro, sul senso della vita nonostante i suoi limiti e sul dolore che spesso ci affligge.
Dare a qualcuno la possibilità di raccontare ed elaborare sentimenti e pensieri sulla perdita diminuisce la paura
nichilista della morte come punto di non ritorno.
In particolare, la cultura generale postmoderna e secolare con la concomitante crisi della fede religiosa sostiene
progressivamente lo sviluppo di una convinzione, negli adolescenti, che non esiste aldilà oltre la morte. Se si
considera l’importanza della convinzione nell’immortalità rispetto al tamponamento del terrore della morte,
come indicato dai ricercatori di TMT, è possibile confermare che un percorso di educazione alla morte,
finalizzato a riflettere su contenuti di spiritualità, con l’aiuto di attività artistico-espressive e discussioni
collettive, può essere utile nella gestione dell’ansia da morte negli studenti.

 

Bibliografia
[1] Becker, E. The Denial of Death, Free Press, 1973 [ed.ital. Il rifiuto della morte, Edizioni Paoline, 1982]
[2] Bormolini, G. La morte come dono. Rimanere umani al tempo del coronavirus. In Aa.Vv., Pandemia
2020, M&J Publishing House, 2020
[3] Czeisler, M.E. Mental Health, Substance Use, and Suicidal Ideation During the COVID-19 Pandemic —
United States, June 24–30, 2020 – CDCP Weekly Report / August 14, 2020 / 69(32);1049–1057
(https://www.cdc.gov/mmwr/volumes/69/wr/mm6932a1.htm)
[4] Fanti, C. La versione migliore di noi stessi. In Aa. Vv., La goccia che fa traboccare il vaso, Il Segno dei
Gabrielli editori, 2020, pp. , 16-19
[5] Greenberg, J. & Arndt, J. Terror Management Theory, in Aa. Vv., The Handbook of Theories of Social
Psychology, Sage Pubns Ltd, 2011 (traduzione kabulmagazine.com)
[6] Pani, R. e Di Paola, A. Senso di vuoto e bisogno di annullarsi : adolescenti e giovani adulti a rischio di
suicidio, CLUEB 2013
[7] Rosenblatt, A., Greenberg, J., Solomon, S., Pyszczynski, T., & Lyon, D. Evidence for terror management
theory: I. The effects of mortality salience on reactions to those who violate or uphold cultural values. Journal
of Personality and Social Psychology, 1989, 57(4), 681–690. https://doi.org/10.1037/0022-3514.57.4.681
[8] Rovelli, C. Helgoland, Adelphi Ed. 2020
[9] Ruffin, R.T. Death Education in Secondary School in the United States of America. A Religious
Perspective. PhD Thesis, Univ. Of SouthAfrica, 2011
[10] Tanaka, T. & Okamoto, S. Increase in suicide following an initial decline during the COVID-19 pandemic
in Japan, Nature Human Behaviour, 5, February 2021, 229–238
[11] Testoni, I. L’ultima nascita. Torino, Bollati Boringhieri, 2015
[12] Testoni, I.; Iacona, E.; Fusina, S.; Floriani, M.; Crippa, M.; Maccarini, A. & Zamperini, A. (2018)
“Before I die I want to …”: An experience of death education among university students of social service and
psychology. Health Psychol. Open 2018, 5, 2055102918809759
[13] Testoni, I.; Ronconi, L.; Palazzo, L.; Galgani, M.; Stizzi, A., & Kirk, K. (2018). Psychodrama and
moviemaking in a death education course to work through a case of suicide among high school students in
italy. Frontiers in Psychology, 9, Article 441. https://doi.org/10.3389/fpsyg.2018.00441
17
[14] Testoni, I.; Ronconi, L.; Noppe Cupit, I.; Nodari, E.; Bormolini, G.; Ghinassi, A.; Messeri, D.; Cordioli,
C. & Zamperini, A. (2019): The effect of death education on fear of death amongst Italian adolescents: A
nonrandomized controlled study, Death Studies, 2020;44(3):179-188. doi: 10.1080/07481187.2018.1528056
[15] Testoni, I.; Piscitello, M.; Ronconi, L.; Zsák, É.; Iacona, E.; Zamperini, A. (2019). Death Education and
the Management of Fear of Death Via Photo-Voice: An Experience Among Undergraduate Students. J. Loss
Trauma 2019, 24, 387–399.
[16] Testoni, I.; Biancalani, G.; Ronconi, L. & Varani, S. Let’s Start with the End (2019). Bibliodrama in an
Italian Death Education Course on Managing Fear of Death, Fantasy-Proneness, and Alexithymia with a
Mixed-Method Analysis. OMEGA J. Death Dying 2019, 30222819863613
[17] Testoni, I.; Tronca, E.; Biancalani G.; Ronconi, L. & Calapa G. (2020) Beyond the Wall: Death
Education at Middle School as Suicide Prevention Int. J. Environ. Res. Public Health 2020, 17, 2398 doi:
10.3390/ijerph17072398
[18] Testoni, I.; Palazzo, L.; De Vincenzo, C. & Wieser, M.A. (2020) Enhancing Existential Thinking
through Death Education: A Qualitative Study among High School Students. Behav. Sci. 2020, 10(7), 113;
https://doi.org/10.3390/bs10070113
[19] Testoni, I.; Ronconi, L.; Biancalani G.; Zottino, A. & Wieser, M.A. My Future (2020): Psychodrama
and Meditation to Improve Well-Being Through the Elaboration of Traumatic Loss Among Italian High School
Students. Front Psychol. 2020; 11: 544661.
[20] Testoni, I.; Palazzo, L.; Ronconi, L.; Donna, S.; Cottone P.F. & Wieser, M.A. (2021) The hospice as a
learning space: a death education intervention with a group of adolescents. BMC Palliative Care (2021) 20:54;
https://doi.org/10.1186/s12904-021-00747-w
[21] Tonelli, G. Genesi: il grande racconto delle origini, Feltrinelli 2019
[22]https://www.repubblica.it/esteri/2021/02/16/news/giappone_suicidi_tra_adolescenti_aumentano_a_livell
i_record-287754356/
[23] https://www.orizzontescuola.it/boom-di-tentativi-di-suicidio-tra-bimbi-e-ragazzi-a-molti-mancano-lascuola-
e-lo-sport/
[24] https://corrierefiorentino.corriere.it/firenze/notizie/cronaca/21_marzo_19/covid-meyer-conferma-lallarme-
piu-giovani-in-2-mesi-dieci-ragazzi-hanno-pensato-suicidio-1fab0aac-88ef-11eb-b154-
b909ec381a43.shtml
[25] Aa.Vv., Bambini, adolescenti e Covid-19. L’impatto della pandemia dal punto di vista emotivo,
psicologico e scolastico. Erickson, 2021

L’autrore

Brunetto Piochi si è diplomato nell’anno 2021 alla Scuola di Alta Formazione TuttoèVita in accompagnamento spirituale nella malattia e nel morire.

Stampa l’articolo:

Death Education e Spiritualità