La morte e le api

di Laura Liberale

La luna, dicono, una volta mandò un insetto agli uomini con la seguente consegna: ‟Va’ dagli uomini e di’ loro: Come io muoio, e morendo vivo; così anche voi morirete, e morendo vivrete.

L’insetto partì col messaggio, ma mentre era in cammino lo raggiunse la lepre, che gli domandò: ‟Che incarico ti hanno dato?”.

L’insetto rispose: ‟Mi manda la luna dagli uomini, a dir loro che come lei muore e morendo vive, così anche loro moriranno e morendo vivranno”.

La lepre disse: ‟Visto che come corridore tu vali poco, ci vado io”. Dette queste parole scappò via, e quando arrivò dagli uomini disse: ‟La luna mi manda a dirvi: Come io muoio e morendo perisco, allo stesso modo anche voi morirete e sarete finiti per sempre.

Poi la lepre tornò dalla luna e le disse quello che aveva detto agli uomini. La luna la rimbrottò incollerita, dicendo: ‟Come ti permetti di dire alla gente una cosa che io non ho detto?”.

E subito la luna afferrò un pezzo di legno e colpì la lepre sul muso. Da quel giorno la lepre ha il muso spaccato, ma gli uomini credono a ciò che la lepre ha detto.[1]

Questa bella storia africana potrebbe recare, come sottotitolo: “Dell’eterno ritorno”. La luna, col suo periodico “riempirsi” e “svuotarsi”, è infatti uno dei simboli più antichi legati al ciclo di nascita e morte. Ma nel racconto c’è un’altra figura interessante. No, non è la lepre (animale “lunare” per eccellenza; in India, per esempio, è proprio la forma della lepre a esser vista nelle macchie scure dell’astro), bensì il piccolo, diligente e preciso insetto, non meglio specificato.

Mi piace pensare, fin troppo prevedibilmente, che si tratti di un’ape, da tempo immemorabile animale-archetipo. Perché l’ape? Perché condividiamo con essa una socialità basilare: l’ape rappresenta la vita attiva, laboriosa, dedita al gruppo, virtuosa. “Le colonie di api sono veri e propri prodigi di collaborazione, la loro vita infatti è simile a quella di una comunità umana (…) Siamo tutti singoli individui, ma operiamo tutti quanti per un bene più grande. Non siamo mai davvero soli. Ognuno di noi è in una piccola cella; anche se dentro le nostre celle siamo soli, i sei lati della mia cella toccano altre celle. Questo imperativo ci emoziona ed entra in sintonia con noi, perché anche la nostra specie prospera quando gli individui sono ben integrati nello spazio comune”[2]. Poi per la sorprendente e sofisticata capacità comunicativa (oltre al “vocabolario” chimico, si pensi alla tipica danza vibratoria e a forma di 8): chi meglio di lei potrebbe farsi messaggero e tramite con gli uomini? “La conversazione nell’alveare è molto simile al processo della narrazione, perché le api sommano le informazioni in modelli coerenti che insieme raccontano una storia. Forse la narrazione riguarda il paesaggio che devono attraversare volando per trovare fiori ricchi di nettare, oppure le vespe che attaccano all’entrata dell’alveare, contro le quali le operaie devono mobilitarsi, anche sacrificando se stesse per salvare la colonia. Qualunque sia il messaggio, ascoltare è importantissimo (…) Anche noi usiamo la storia e l’ascolto per connettere noi stessi a un tutto più vasto. In questo modo condividiamo con le api il miracolo della fusione degli individui con la collettività tramite una comunicazione intensa, così essenziale perché la comunità stessa funzioni in modo fluido”[3]. E in effetti l’insetto del racconto africano non delude le aspettative lunari, quanto a esattezza del messaggio. Infine, in numerose tradizioni, api e miele sono da sempre legati alla sfera spirituale e mistica, della guarigione e della rigenerazione.

Nel pantheon indiano troviamo una dea che di nome fa Bhramarī, l’Ape; la sua storia, che potremmo definire, tra le altre cose, un inutile tentativo di ingannare la morte, è narrata nel Devībhāgavatapurāṇa (X, 13): v’era un tempo un potentissimo demone chiamato Aruṇa, il Rossastro, il cui scopo era quello di sconfiggere gli dèi. A tal fine, egli praticò una strenua e duratura ascesi, per millenni, accumulando il calore necessario ad ardere il trimundio e a garantirsi la protezione di Brahmā. Quest’ultimo si recò a far visita al demone e gli concesse un dono. Aruṇa domandò: “Che io non abbia mai a morire”, al che, Brahmā lo fece ragionare sull’impossibilità della sua richiesta, non essendo neanche gli dèi esenti da morte. Aruṇa disse allora: “O Dio, concedimi dunque di non essere ucciso né in guerra, né da qualsivoglia arma, né da uomo o donna, né da bipede o quadrupede, e garantiscimi un esercito tale da vincere gli dèi!”. Brahmā rispose: “E sia!”.

Intanto gli dèi si recarono da Śiva per decidere il da farsi, mentre Aruṇa e le sue schiere si mostravano ovunque vittoriose. Fu stabilito di prendere rifugio in Parameśvarī, la Suprema Signora dell’universo, e di venerarla come si conveniva. Ella finalmente apparve, più radiosa di milioni di soli, fu accolta dagli inni di lode degli dèi e concesse loro il dono richiesto: la sconfitta di Aruṇa. Dal suo splendido corpo scaturirono, a migliaia, le api; esse ricoprirono la terra intera e oscurarono il cielo, poi uccisero i demoni, permettendo così il ristabilirsi dell’ordine divino. A missione ultimata, quei nugoli infiniti vennero riassorbiti nel corpo della suprema Dea.

 

[1] L’origine della morte, in Radin P. (1979), Fiabe africane, Torino: Einaudi.

[2] Winston, M.L. (2017). Il tempo delle api, Milano: il Saggiatore, pp. 197-198.

[3] Winston, M.L., cit., pp. 277-278.

L’autrice

Laura Liberale, laureata in Filosofia (Università di Torino), è dottore di Ricerca in Studi Indologici (Università La Sapienza di Roma) e ha conseguito il Master in Death Studies & the End of Life (Università di Padova).

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