Il lutto e il rito tratto dai ricordi d’infanzia
di Luciano Mazzoni Benoni
Tra memoria e rimozione, il tema del morire riemerge comunque dal nostro vissuto: riportando alla luce momenti, immagini flash di situazioni al momento soltanto registrate ma non rielaborate e quindi depositate così, allo stato grezzo, in attesa di una revisione consapevole.
Così per il contatto diretto che ebbi modo di vivere -in prima persona- nella mia infanzia nel quartiere Oltretorrente di Parma (anni ’50) con i rituali funebri della tradizione cattolica.
La forte fede trentina di mia madre ed il suo attaccamento alle pratiche religiose, la frequentazione quotidiana della parrocchia da parte dei miei familiari (risiedevamo in una casa proprio di fronte alla chiesa in via San Giuseppe), mi portava ad essere membro del nucleo più presente dei chierichetti: i quali assistevano il parroco ed il cappellano nelle celebrazioni e nelle altre pratiche liturgiche e para liturgiche. Si trattava di una occupazione permanente e pressoché quotidiana del mio tempo: che mi astraeva del tutto dal gioco come dallo studio e dalla compagnia dei coetanei.
Da quei borghi popolari, allora frequentati e rumorosi perché caratterizzati da una intensa vitalità popolare, ero in tal modo proiettato in un alta dimensione, vissuta anzitutto nel silenzio. Il silenzio associato al dolore del lutto, allora ancora avvolto in una situazione psicologica e sociale quasi di “sospensione”; così come quello del mio severo e duro parroco: un ruvido prete (associato nella memoria popolare alla figura quasi mitica del beatificando padre Lino Maupas) di poche parole, ma capace di gesti forti e assai spesso discussi perché provocatori e clamorosi. A tal punto che capitava, in quegli anni di imbattersi, sulle pareti di qualche chiesa o sui muri nelle case ancora squarciate dai bombardamenti, in alcune scritte di vernice indirizzate proprio contro suoi atteggiamenti, del tipo: “don Dagnino insulta i morti”. Veniva così espressa, nel linguaggio popolare di gente ancora rispettosa del mistero religioso della morte anche se allontanatasi dalla pratica religiosa per ragioni politiche (si pensi alla scomunica dei comunisti proclamata da Pio XII) e quindi ostile al clero (in special modo a quello interventista in materia politica, come don Dagnino – polemista e battagliero – tanto da guadagnarsi la fama di un altro famoso personaggio del cinema del tempo: don Camillo, in costante lotta contro Peppone). Ma cosa gli si addebitava? Il suo rifiuto, che aveva rasentato lo scontro fisico, di ospitare dentro la chiesa le bandiere rosse in occasione di funerali di comunisti.
Scene d’altri tempi e linguaggio oggi del tutto estraneo al clima secolarizzato del nostro tempo. Ma anche allora non accessibile a tutti. Quella frase in sé incomprensibile e intoccabile per anni restava per me un enigma (come era possibile per un parroco che onorava i defunti rendere loro oltraggio? – andavo chiedendomi; ma, per di più, come mai una scritta oltraggiosa contro una autorità veniva lasciata esposta al pubblico?). Frase che solo col tempo mi fu chiarita da alcuni anziani antifascisti cattolici: durante la guerra lui aveva opposto la medesima resistenza e con eguale grinta ai fascisti; ed ora si trattava di restare coerenti con il principio della estraneità della liturgia alla battaglia politica, allora intensamente e passionalmente vissuta. Di più: la questione si caricava di risentimento e di senso di ingratitudine: perché immemore di quel grande gesto coraggioso dopo la fucilazione di alcuni partigiani in piazza Garibaldi nel 1944? I loro corpi vennero lasciati abbandonati: nessuno osava avvicinarsi. Ebbene proprio quel prete, dotato di una carretta a mano (in quegli anni nei borghi non esistevano automobili ma tanti carri di legno, degli ‘scariolanti’: tanto numerosi erano i facchini e quello era l’unico mezzo di lavoro e di trasporto delle merci), osò presentarsi da solo in quella piazza: caricare quei corpi martoriati e portarli da solo fino al cimitero della Villetta. Nel silenzio e nello stupore di tutti: un fatto dimenticato dalla cronache e perfino dalla storia politica locale, per lungo tempo piuttosto egemonizzata dalla retorica e dalla propaganda ideologica della sinistra.
Ma anche questi fatti e siffatte situazioni venivano necessariamente avvolte nel silenzio: tra rispetto – paura – timore di aizzare scontri (che dal piano verbale rischiavano sempre di trasferirsi a quello fisico) in un tessuto popolare dilaniato dal clima della guerra fredda e sobillato da accesa una lotta politico-sindacale. Sicché perfino in famiglia non si poteva parlare a voce alta di certe questioni politiche: per evitare di essere tacciati di anti-comunismo. Ma quel popolo si ritrovava unito nei suoi riti: quelli funebri, come quelli musicali.
Risale forse ad allora la mia attenzione per le ‘cose ultime’: presenti a tinte forti sia nel linguaggio (nella dottrina di parlava dei cosiddetti ‘quattro novissimi’, un concetto ormai espunto dalla catechesi: morte, giudizio, inferno, paradiso) come nella vita quotidiana e tanto più nella vita liturgica: nella quale ricorreva continuamente il richiamo quasi allarmante alla morte, accompagnata dal tema sempre incombente del giudizio e del castigo divino con esiti di vero terrore specie sui noi bambini (di qui alla sua presenza, sempre fonte di paura e talvolta di incubo, nella dimensione onirica infantile).
Venendo ora più a considerare più da vicino lo specifico di quei riti, balza alla memoria anzitutto la loro collocazione: si trattava di riti essenzialmente familiari, perché vissuti nella casa e condivisi dall’intero circondario. Anche nei casi (piuttosto rari) di decessi in ambito ospedaliero, la salma veniva accolta nella casa; così, nell’intimità familiare parentale e vicinale, fra le mura domestiche si svolgevano i diversi momenti previsti in successione: prima benedizione, rosario, ultima benedizione e chiusura del feretro; ed infine dalla casa ci si trasferiva nella chiesa parrocchiale, talvolta in processione con preghiera, per il rito funerario vero e proprio (seguito poi nella sepoltura al cimitero).
Ciascuno di quei momenti suscitava in me, fanciullo, una molteplicità di interrogativi, anche assai profondi e privi di risposta: anzi taluni quasi da reprimere, dato che parevano mettere in discussione le verità apprese sempre in coincidenza cronologica nella parallela ed assidua pratica della ‘dottrina’ (allora secondo il famigerato ‘Catechismo di Pio X’). Domande che, se da una parte si depositavano silenziosamente nel mio intimo, dall’altra riesplodevano apertamente allorquando -mentre nessun laico avrebbe osato porre pubblicamente tali quesiti- era lo stesso parroco a dar voce alle umanissime reazioni umane di protesta contro quella che appariva (alla luce delle credenze di allora) come la volontà divina. Il caso più clamoroso oltre che doloroso fu in occasione di una perdita particolarmente acuta che turbò tutto il quartiere: la scomparsa di una giovane sposa e madre, deceduta durante il parto, a seguito di una patologia allora ricorrente, che veniva trasmessa nel linguaggio popolare mediante una irrisolvibile ed enigmatica sentenza medica, secondo la quale “si trattava di decidere chi salvare: il bimbo o la madre?” . Ebbene in quel caso, a fronte di un padre sconvolto e di una intera comunità impietrita per la perdita così assurda e dura di colei che aveva deciso di offrire la propria vita per salvare quella del neonato, fu lo stesso don Dagnino a rivelare con inattesi ed irrituali gesti di protesta il suo dolore, nella incredulità di tutti e nel mio sbigottimento personale (considerato che io seguivo tali suoi atti a pochi passi di distanza, cogliendone anche la mimica facciale e perfino talvolta il respiro alterato). Mentre officiava la santa Messa più volte ebbe a picchiare con forza dei pugni sull’altare e sul leggio dell’ambone, durante le letture: dando così sfogo a quello che rappresentava evidentemente anche per lui un serio dubbio di fede.
Quesiti tutti tremendamente seri ed ombre dense, che solo dopo tanti decenni sono riuscito a rielaborare e a dissipare: ma che costituirono un robusto anche se ingombrante e pesanti viatico per la mia ricerca spirituale, prima, e per i miei studi antropologici poi.
L’articolo è tratto dalla relazione dell’autore in occasione dell’incontro “L’ultimo viaggio della vita” (Associazione Il Mondo YogaStudio – Parma, ottobre-novembre 2016)
L’autore
Luciano Mazzoni Benoni. Studioso di antropologia delle religioni e di teologia spirituale
Pubblicista, autore di pubblicazioni, Direttore della Rivista Uni-versum / ed. Diabasis