La morte abitata
di Laura Liberale
Nell’antica tradizione hindū, il campo crematorio si configura anche come sede di attività rituale diversa da quella semplicemente connessa con l’incinerazione. Ci si riferisce ad alcune pratiche tantriche esoteriche, riservate ad adepti dotati di disposizione “eroica”. Una di esse è lo śavasādhana, la “pratica col cadavere”, così descritta in una delle sue forme (Avalon, 1978, 565): nel cimitero, il praticante si siede sopra il cadavere, tracciando sulla sua schiena uno yantra, un diagramma rituale. Qualora il rito abbia successo, ci viene detto che la testa del morto si volge verso il celebrante e la sua bocca domanda − ma è la Dea stessa a parlare per suo tramite − quale sia il favore richiesto. Secondo la descrizione data dal Kaulāvalīnirṇaya di Jñānānandagiri Paramahaṃsa, l’adepto deve recarsi di notte in un cimitero e procurarsi il cadavere di un giovane guerriero caduto in battaglia. Dopo averlo lavato, deve venerarlo e ripetere un mantra in onore di Durgā. Se è in grado di uscire indenne dalle tremende visioni che gli si presenteranno nel corso della pratica, riuscirà ad attingere la mantrasiddhi, vale a dire la supremazia su ogni fenomeno attraverso i mantra. In Nīlatantra XVI, si prescrive che la pratica avvenga in un cimitero negletto, preferibilmente quello di un fuori casta o di un appartenente a una delle caste più infime. Tra i cadaveri suscettibili d’uso rituale vengono elencati i seguenti: quello di un bambino di più di due anni; di un fanciullo di cinque anni; di un feto abortito di sette-otto mesi; di un fuori casta; di un qualsiasi uomo, fatta eccezione per i brahmani; di un animale, fatta eccezione per le vacche. Proibiti sono invece: quello di una donna; di un bambino di sei anni; di un uomo morto soltanto da un giorno e una notte, o in un luogo solitario, o durante un rapporto sessuale, o di fame; di un anziano; di un eunuco, o di un effeminato; di un lebbroso. Il praticante, senza lasciarsi intimorire dall’eventuale rianimazione del cadavere, deve continuare a meditare sino all’attingimento del favore richiesto alla Dea. Il rito si conclude con un sacrificio animale e, nei giorni successivi all’ottenimento della supremazia, numerosi divieti devono essere osservati[1].
Apprendiamo poi che, nel culto della Dea, ai campi crematori si aggiungono talvolta dei luoghi ritenuti omologhi quali: case abbandonate, zone isolate, grotte, foreste, quadrivi. Proprio in posti simili vanno seppelliti i tre teschi (di un uomo, di un bufalo, di un gatto), o i cinque di: un uomo, uno sciacallo, un serpente, un cane, un toro (chiamati collettivamente pañcamuṇḍa), in un rito che si ritiene possa garantire qualsiasi obiettivo. Con campi crematori, foreste e crocicchi ha a che vedere un altro rituale, descritto nella Mahākālasaṃhitā (cap. 244): lo śivābali, il “tributo allo sciacallo”, consistente in un’offerta di cibo agli sciacalli come manifestazioni della Dea, fatta nei luoghi suddetti alla mezzanotte del quattordicesimo giorno della metà scura del mese lunare.
Non mancano degli interessanti riferimenti a queste pratiche, principalmente allo śavasādhana, neppure nella produzione poetica. Nel suo Harṣacarita, Bāṇa ci narra di un asceta di nome Bhairavācārya, il quale celebra in un cimitero un rito finalizzato a soggiogare un vetāla (uno spirito-vampiro che ha il potere di soggiogare i cadaveri e di animarli). In mezzo a un maṇḍala di ceneri, egli siede sul petto di un cadavere unto di sandalo e adorno di ghirlande e vesti rosse, nella cui bocca fa ardere un fuoco, offrendo come oblazione dei neri semi di sesamo. Un rito analogo è quello che compare nel Kathāsaritsāgara di Somadeva (XVIII, 2, 5 sgg.), mirante a forzare la volontà di un essere umano: ecco nuovamente un campo crematorio, un maṇḍala, un cadavere, delle oblazioni nel fuoco e una formula magica. Nel Mālatīmādhava di Bhavabhūti, Aghoraghaṇṭa e la sua discepola Kapālakuṇḍalā s’apprestano a sacrificare l’eroina, Mālatī, in un cimitero presso il tempio di Karālā, dove le pire diffondono un odore simile ad aglio fritto in olio di nimba. L’eroe, Mādhava, intende invece offrire agli spiriti del cimitero della carne umana in cambio di un favore. Nel campo crematorio della Vetālapañcaviṃśati (nella recensione contenuta nel Kathāsaritsāgara), l’asceta Kṣāntiśīla attende che il re Trivikramasena gli porti, nella quattordicesima notte di luna calante, un cadavere appeso a un albero, per la celebrazione di un sacrificio che, nelle sue malvagie intenzioni, prevede, insieme all’impiego rituale del cadavere, l’uccisione dello stesso sovrano[2]. Nella storia, l’asceta compare all’interno di un maṇḍala tracciato con polvere di ossa, cosparso di sangue e intensamente illuminato, con vasi di sangue posti in corrispondenza dei punti cardinali. Egli lava il cadavere, lo unge, lo inghirlanda e lo inserisce nel cerchio; poi si cosparge di cenere, indossa le vesti del morto e un cordone sacrificale fatto di capelli. Il vetāla viene da lui evocato nel cadavere e venerato con l’offerta di occhi, sangue e carne umani.
Sono le stesse fonti a informarci che tali pratiche cultuali possono mirare tanto all’attingimento dell’unione con la divinità d’elezione o all’acquisizione e\o al perfezionamento del distacco dalla sfera mondana, quanto all’ottenimento di siddhi, poteri soprannaturali, padronanze, esaudimenti. Lo scopo è di giungere a interiorizzare il cimitero come il luogo in cui ardere nel fuoco della conoscenza le passioni umane, così come, in un’ottica buddhistica, attingere la consapevolezza circa la mancanza assoluta di sostanzialità dei fenomeni. Il praticante ivi fronteggia la morte nella sua cruda fattualità; anziché temerla e aborrirla, l’assume totalmente in sé, predisponendosi infine a trascenderla.
Proprio l’identificazione ultima con Śiva spiega la frequentazione dei campi crematori da parte di quella ormai scomparsa corrente tantrica di asceti chiamati Kāpālika, “quelli del teschio”. Essi rispondevano a una precisa iconografia: il corpo cosparso delle ceneri di un cadavere, il bastone formato da una tibia umana e la calotta cranica usata come ciotola per le elemosine; un’iconografia avente, com’era facile attendersi, l’antecedente mitico di Śiva-Kapālin, “il Portatore del teschio”, divino archetipo degli appartenenti alla corrente. Alla stregua di Bhairava, dio della trasgressione per antonomasia, i Kāpālika erravano di luogo in luogo, dimorando nelle selve e celebrando, secondo la tradizione, riti quali il sacrificio umano, l’automutilazione, lo śavasādhana e il coito rituale. Loro diretti discendenti sono ritenuti gli Aghorapanthin, “coloro che seguono la via di Śiva-Aghora”, una corrente tuttora esistente. Essi dimorano nei cimiteri, si cospargono il corpo con le ceneri delle pire funebri, hanno come unico possesso la coppa per la questua rappresentata da una calotta cranica e sono noti per non disdegnare alcun tipo di cibo, neanche il più ripugnante.
Emblema di una realtà ascetica che, nella sua concezione del divino, si è ormai del tutto svincolata dalla contrapposizione di purezza\impurità rituale, il campo crematorio finisce per qualificarsi dunque non più soltanto come spazio “abitato dalla morte” ma anche, si conceda il gioco verbale, come spazio “della morte abitata”.
[1] Nel capitolo XV del Nīlatantra ci si sofferma invece sulla kumārīpūjā, l’adorazione di una vergine, da effettuarsi sempre con l’ausilio di un cadavere. Sullo śavasādhana, in Kālītantra VI, ci viene detto che il seggio del praticante è costituito dal cadavere di un uomo morto di recente (ma non di un brahmano); il Phetkāriṇītantra descrive ampiamente il culto effettuato nei campi crematori con l’ausilio di carne umana e\o animale e altri raccapriccianti ingredienti rituali; il Kālītattva di Rāghavabhaṭṭa prescrive all’adepto di recarsi nel cimitero a notte fonda, nudo e coi capelli sciolti, e celebrare una cerimonia col fuoco avente per scopo la realizzazione di ogni desiderio materiale. In Guptasādhanatantra IX, il rito s’accompagna alla ripetizione, per 1008 volte al giorno, dello iṣṭamantra, il mantra trasmesso dal proprio guru (si proibisce inoltre di utilizzare cadaveri femminili o di brahmani, cap. XI); in Uḍḍīśatantra IX, si illustra un mṛtasaṃjīvinīmantra, una formula per far rivivere i morti; in Nāradapurāṇa III, 85, 21-23, si prescrive che il devoto di Kālikā sieda nudo sul petto di un cadavere, offra dei fiori e ripeta un mantra specifico (si ricorda che l’adepto seduto sopra un morto, nel culto di Kālī, evoca concretamente l’immagine della dea nella sua tipica iconografia, che la ritrae in un campo crematorio, ritta o danzante o intenta al coito, sul corpo di Śiva simile a un cadavere). Il Kālikāpurāṇa definisce i crematori come i luoghi migliori per la celebrazione dei sacrifici umani. In Nāradapurāṇa III, 85, 137-138, leggiamo della preparazione di un amuleto per l’eliminazione dei nemici mediante l’impiego di ossa umane. Il Brahmayāmala (cap. 3) ci presenta invece una descrizione degli aṣṭaśmaśāna, gli otto campi crematori (connessi con le otto direzioni spaziali), propri delle correnti ascetiche dell’India e del tantrismo buddhistico. Avalon (1978, 565) cita due altre pratiche: il muṇḍāsana e il citāsana, rispettivamente “posizione seduta sul teschio” e “posizione seduta sulla pira”.
[2] XII, 8, 35 sgg. e XII, 32, 1 sgg. Un rito del tutto simile viene descritto in XII, 6, 280 sgg., mentre in III, 4, 145 sgg., gli incantesimi recitati da un asceta servono a rianimare un cadavere, il quale emette sibili e fiamme dalla bocca e semi di senape dall’ombelico, e a farne una cavalcatura per l’asceta stesso. Sempre nel Kathāsaritsāgara (XII, 9, 20 sgg. e XVIII, 5, 5 sgg.), si narra di un incantesimo atto a risuscitare i morti dalle lori ceneri; in XII, 30, 20 sgg., di un asceta dimorante in una capanna all’interno di un cimitero; in V, 2, 185, della vendita di carne umana nel campo crematorio. In V, 2, 90 sgg., si racconta la storia di Govindasvāmin, il quale conduce nel cimitero suo figlio Vijayadatta, in preda a un accesso di febbre, per farlo scaldare al calore delle pire funebri. Lì il fanciullo colpisce un teschio ardente con un pezzo di legno, facendolo scoppiare. Il cervello, sprizzatone fuori, gli finisce in bocca, trasformandolo all’istante in un orribile mostro.
Avalon A. (1918). Shakti and Shakta, New York: Dover Publications (1978).
Banerji S.C. (1988). A Brief History of Tantra Literature, Calcutta: Naya Prokash.
Goudriaan T., Gupta S. (1981). Hindu Tantric and Śākta Literature, Wiesbaden: Otto Harrassowitz.
Piano S. (a cura di), (2005). Luoghi dei morti (fisici, rituali e metafisici) nelle tradizioni religiose dell’India, Alessandria: Edizioni dell’Orso.
L’autrice
Laura Liberale, laureata in Filosofia (Università di Torino), è dottore di Ricerca in Studi Indologici (Università La Sapienza di Roma) e ha conseguito il Master in Death Studies & the End of Life (Università di Padova).