Quando il commiato viene negato
di Erika Zerbini
L’archeologia ci informa del fatto che l’essere umano seppellisce i suoi morti fin dall’epoca dell’uomo di Neanderthal, ovvero da circa 120.000 anni. I Neanderthaliani non si limitavano a scavare una fossa, deporre il corpo e ricoprirlo, piuttosto avevano cura di accomodare il corpo in posizione fetale e circondarlo da utensili, fiori e cibo. Si interpreta tale pratica come la prova che essi avessero già maturato un’idea della morte come passaggio verso un’altra vita. Quale che sia la reale ragione, resta un fatto evidente: già 120.000 anni fa esisteva il bisogno di occuparsi dei propri morti.
Nel corso del tempo e nelle diverse culture, le pratiche funerarie hanno assunto modalità, espressioni e significati differenti, tuttavia non è andato perduto il bisogno per i vivi di ritualizzare il termine della vita.
Il rapporto con la morte nella società moderna è assai difficoltoso: Francesco Campione (tanatologo) definisce il nostro tempo come l’epoca della distrazione. Siamo soliti spostare il pensiero ovunque, purché sia distratto dal tema della morte e del morire. Stiamo diventando analfabeti quando si tratta di affrontare la morte: ci mancano le parole, considerando quelle più appropriate vere e proprie volgarità. Dobbiamo ripiegare su definizioni edulcorate, errate, fraintendibili, tanto da non sapere più chiamare le cose col loro nome e non sapere più come trovare dentro di noi le risorse per affrontare la realtà palesata.
Se affrontare la morte di un nostro caro è un fatto ormai divenuto complicato, ancora più complesso è affrontare la morte di un bambino avvenuta durante la gravidanza. Tale frangente si presenta come un intricato groviglio di contraddizioni. Non è chiaro se sia da considerarsi realmente morta una creatura non ancora nata. Non è chiaro se il legame affettivo con una creatura non ancora nata, ma già morta, sia da considerarsi un legame reale o un puro volo di fantasia. Non è chiaro come sia possibile approcciare con la morte in un punto della vita in cui non ci si aspetta la morte.
Spesso viene da sé restare fedeli all’intendimento del nostro tempo distraendosi. Così semplicemente non ci si occupa di questa morte, non si cerca di chiarire le contraddizioni e a questi morti è negato il commiato.
Eppure, se ascoltassimo le testimonianze e le storie delle numerose famiglie che ogni anno attraversano questa esperienza, sapremmo che per molti genitori il proprio figlio è parte della loro vita spesso già da quando era solo un pensiero: ossia il pensiero di concepirlo, poi il desiderio di vederlo giungere, quindi la brama di sentirlo crescere nella pancia della mamma.
Sapremmo che vita è anche la vita intrauterina, poiché già in essa una creatura esiste, comunica, si relaziona e produce effetti sull’esistenza di chi le sta intorno. Sapremmo che durante la vita intrauterina non è poi così raro morire, infatti è il momento per noi più rischioso (circa il 30% delle gravidanze esita con la morte del bambino). Sapremmo che un legame si può stringere fin da subito e può crescere, saldandosi sempre di più. Sapremmo che durante la gravidanza la fantasia si intreccia col quotidiano, tra aspettative e novità, tra cambiamenti e progetti, rendendo l’esperienza di quella famiglia estremamente reale e concreta. Sapremmo dunque che la brusca e inaspettata interruzione della gravidanza non può risolversi cercando distrazione. C’è invece grande bisogno di occuparsi di quella vita conclusa, affinché chi le è sopravvissuto, trovi il modo di fare senza, la forza di proseguire e la volontà di ristrutturare la sua esistenza verso un nuovo benessere.
Negare il commiato alle famiglie a cui muore un figlio durante la gravidanza, significa negare l’esistenza di quel figlio, la sua dignità di vita e di morte. Significa negare l’esistenza e la dignità di quella famiglia. Significa impedire ai genitori di fare per quel figlio le uniche poche cose che è per loro ancora possibile fare; significa impedire loro di dare al loro bambino un posto su questa terra, in cui poterlo pensare e in cui eventualmente tornare per poterlo ritrovare; significa negare loro di dirgli addio, come da migliaia di anni siamo abituati a fare.
Sebbene ai genitori non sia offerta quasi mai (le eccezioni sono davvero scarse) l’informazione sulla possibilità di seppellire il loro bambino, qualora sopraggiungesse la morte fin dalle prime settimane di gravidanza, esiste una normativa a riguardo che ne regolamenta la pratica.
Oggi sono le regioni Lombardia, Campania, Marche e Veneto ad avere una normativa locale che preveda l’obbligo per il personale sanitario di mettere al corrente i genitori della loro possibilità di seppellire. Sebbene l’accoglimento del dolore delle famiglie a cui muore un figlio in epoca pre e perinatale non può risolversi in una informativa da offrire sulle opzioni legate alla sepoltura, ho la speranza che tale atto sia il preludio di un sostanziale cambiamento nell’approccio verso il lutto perinatale (ovvero il lutto), ossia auspico che siano le prime battute del progressivo smantellamento dell’epoca della distrazione.
Leggi sulla sepoltura dei feti
Disposizioni di legge in caso di bambino nato-morto
(ovvero bambini che abbiano superato la 28esima settimana di gestazione al momento del parto)
Art. 74 del Regio Decreto 09.07.1939 n. 1238:
“Quando al momento della dichiarazione di nascita il bambino non è vivo, il dichiarante deve far conoscere se il bambino è nato morto o è morto posteriormente alla nascita, indicando in questo secondo caso la causa di morte.
Tali circostanze devono essere comprovate dal dichiarante con il certificato di assistenza al parto di cui all’art. 70, comma quarto, ovvero con certificato medico. L’ufficiale dello stato civile forma il solo atto di nascita, se trattasi di bambino nato morto, e fa ciò risultare a margine dell’atto stesso; egli forma anche quello di morte, se trattasi di bambino morto posteriormente alla nascita”
- Disposizioni di legge in caso di Aborto
(ovvero bambini di qualunque età gestazionale antecedente la 28esima settimana)
D.P.R. 10/09/1990 n. 285 – Articolo 7:
“2. Per la sepoltura dei prodotti abortivi di presunta età di gestazione dalle 20 alle 28 settimane di età intrauterina e che all’ufficiale di stato civile non siano stati dichiarati come nati morti, i permessi di trasporto e di seppellimento sono rilasciati dall’unità sanitaria locale.
- A richiesta dei genitori, nel cimitero possono essere raccolti con la stessa procedura anche prodotti del concepimento di presunta età inferiore alle 20 settimane.
- Nei casi previsti dai commi 2 e 3, i parenti o chi per essi sono tenuti a presentare, entro 24 ore dall’espulsione od estrazione del feto, domanda di seppellimento alla unità sanitaria locale accompagnata da certificato medico che indichi la presunta età di gestazione ed il peso del feto.”
Bibliografia:
Guarire il lutto perinatale secondo la psicosintesi, Chantal Haussaire-Niquet (Ed. Amrita, 2010)
La perdita, Piera Maghella e Vittoria Pola (Macro Edizioni, 1999)
Le madri interrotte, Laura Bulleri e Antonella De Marco (FrancoAngeli, 2013)
Lutto e desiderio, Francesco Campione (Armando Editore, 2012)
Questione di biglie, Erika Zerbini (Eidon Edizioni, 2012)
Sitografia:
www.accompagnamentoperinatale.it
L’autrice
Erika Zerbini, autrice, blogger e facilitatrice di Gruppi di Auto Mutuo Aiuto. Ha pubblicato alcuni testi sull’esperienza del lutto perinatale e sulla maternità, ha fondato e cura i blog Professionemamma.net e Luttoperinatale.life, quest’ultimo in collaborazione con Novella C. Buiani (psicologa perinatale). E’ socia volontaria di A.M.A.Li. Onlus (Auto Mutuo Aiuto Liguria) e facilitatrice del Gruppo AMA Funamboli, dedicato ai genitori in lutto perinatale, che si riunisce settimanalmente presso l’E.O. Ospedali Galliera di Genova.