LA DEATH EDUCATION COME STRUMENTO PER LA PREVENZIONE E LA RISOLUZIONE DEGLI EVENTI DI CYBERBULLISMO
Di Andrea Dainese
Premessa
Nella mia vita ho sempre vissuto una sorta di dualità: da una parte c’è il mondo
ipertecnologico che è stata la mia passione fin da bambino e che è diventato il mio lavoro,
dall’altra ho sempre perseguito una profonda ricerca di qualcosa che fosse oltre il mondo che
appariva quotidianamente ai miei occhi. Grazie alla prima passione sono venuto in contatto
con ambienti e strumenti tecnologici che sono strumenti quotidiani nella vita odierna,
permettendo agli essere umani di stabilire un contatto o di utilizzare servizi
indipendentemente dalla posizione fisica. Grazie alla ricerca spirituale, slegata da specifiche
religioni, ho potuto fare esperienze che mi hanno dimostrato che c’è davvero qualcosa di più
grande e che questo non può essere compreso basandosi semplicemente sulla ragione.
Solo recentemente, e in modo del tutto inaspettato, mi sono trovato a fronteggiare temi che
contemporaneamente legano tecnologia, etica, rispetto, sofferenza, morte. Questo scritto
vuole essere un tentativo di conciliare la dualità da me vissuta, proponendo delle possibili vie
per prevenire, ridurre e risolvere episodi di Cyberbullismo.
Nota dell’autore
I contenuti del presente scritto si riferiscono solamente alla mia esperienza e alla mia
interpretazione relativamente a quanto ho appreso dai miei Maestri. L’espressione di un mio
pensiero sarà rafforzato dall’uso della prima persona singolare, enfatizzando così la mia
esperienza diretta sui temi trattati.
Ho scelto due casi di Cyberbullismo che mi hanno toccato nel profondo; ho raccontato la
storia di Amanda e Carolina cercando di riassumere i fatti senza nulla togliere al loro vissuto.
Lo scopo dell’elaborato non vuole essere la discussione analitica dei fatti, ma è piuttosto
quello di comprendere il fenomeno del Cyberbullismo per proporre delle strategie, a vari
livelli, atte a prevenire e risolvere eventuali episodi.
A loro, e a tutte le ragazze e i ragazzi che combattono soli e nel silenzio, va il mio profondo
rispetto.
Introduzione
Nell’Agosto del 2018 mi trovato alla prima edizione dell’evento Italian Hacker Camp (IHC):
quattro giorni di eventi immersivi dedicati al mondo hacker in senso lato. Per una serie di
coincidenze mi sono trovato a sedere alla sessione di Zanshin Tech 1 , la prima arte marziale
digitale. Mi sono bastati pochi minuti per comprendere la potenza dell’approccio proposto
per gestire un fenomeno in netta crescita: il Cyberbullismo.
Dopo una presentazione del fenomeno di Cyberbullismo, descriverò due casi che
permetteranno di meglio comprendere il fenomeno. Con il supporto di tali casi, porterò delle
riflessioni evidenziando delle dinamiche che caratterizzano molti degli episodi di
Cyberbullismo.
Presenterò quindi due metodologie, delle quali ho avuto personale esperienza, che a mio
parere sono o possono essere strumento per il contenimento di questo fenomeno: Zanshin
Tech e Death Education. Se per il primo approccio esistono dei dati che ne confermano
direttamente l’efficacia, per la Death Education proporrò delle riflessioni sul perchè ritengo
utile tale metodologia e dove possa inserirsi.
Il fenomeno del Cyberbullismo
Il termine Cyberbullismo è stato coniato per primo dall’educatore Canadese Bell Belsey nel
2004:
Cyberbullying involves the use of information and communication technologies such as
e-mail, cell phone and pager text messages, instant messaging, defamatory personal Web
sites, and defamatory online personal polling Web sites, to support deliberate, repeated, and
hostile behaviour by an individual or group, that is intended to harm others. 2
Vediamo quindi che già dagli inizi, il fenomeno del Cyberbullismo si intendeva associato ad
azioni deliberate, ripetute e ostili con lo scopo di danneggiare altri, veicolate mediante
sistemi di comunicazione digitale.
Sebbene spesso si tenda ad usare il termine Cyberbullismo in senso lato, includendo qualsiasi
aggressione digitale, esso è tuttavia caratterizzato da aggressioni veicolate nel mondo digitale
e caratterizzate dall’essere
● ripetute: le aggressioni sono più di una;
● continuate: non ci sono lunghe pause tra un’aggressione e l’altra;
● sistematiche: le aggressioni hanno sempre lo stesso oggetto.
Le modalità con le quali un’aggressione di Cyberbullismo può essere portata avanti, ha
innumerevoli varianti, ma tutte hanno lo scopo di distruggere la persona che l’aggressore ha
scelto come bersaglio. La distruzione può avvenire, mediante l’uso di tecniche , ad esempio:
● inviando messaggi diretti alla persona bersaglio (On-line harassment), e questo può
avvenire in un contesto privato (come le chat private) o pubblico (come le chat di
gruppo o le bacheche dei social network);
● perseguitando il bersaglio tramite ricatto o minaccia (Cyberstalking);
● demolendo la reputazione del bersaglio, pubblicando pettegolezzi o dicerie
(Denigration);
● fingendosi un’altra persona per ottenere la fiducia del bersaglio (Masquerade);
● rivelando informazioni personali sul bersaglio (Outing);
● escludendo intenzionalmente il bersaglio (Exclusion).
L’elenco non vuole essere esaustivo, ma solo portare alcuni esempi concreti con le quali il
fenomeno si manifesta.
I “luoghi” digitali nei quali il Cyberbullismo si può manifestare includono tutti i sistemi che
possano permettere un confronto tra almeno due persone. Abbiamo quindi, sempre a titolo di
esempio:
● sistemi di messaggistica privata o pubblica, come WhatsApp, Telegram, Signal;
● social network, come Youtube, Facebook, Instagram, Twitter, LinkedIn, TikTok;
● pagine pubbliche, come blog o pagine personali;
● giochi, come Clash of Clans, Minecraft, Fortnite.
In ciascuno di questi “luoghi” possono instaurarsi dinamiche che daranno luogo a fenomeni
di Cyberbullismo. È tuttavia un errore ritenere che sia il luogo a creare il fenomeno: il
Cyberbullismo è la manifestazione di un profondo disagio. In questo senso possiamo
affermare che la tecnologia è un accelerante : le possibilità di essere connessi
continuamente, di nascondersi dietro al proprio profilo, di nascondere le emozioni dell’altro,
di ridurre l’efficacia di una comunicazione, amplificano enormemente il disagio sia
dell’aggressore che del bersaglio.
Un’indagine del 2019 effettuata da SFIT su alcune scuole elementari del Lazio ci mostra che
il fenomeno è ampiamente diffuso già in giovane età:
Il processo di distruzione che l’aggressore mette in atto contro il suo bersaglio è costituito da
diverse fasi; se tale processo non viene fermato, l’ultima fase porta al suicidio del bersaglio.
Il caso di Amanda Todd
Amanda è una ragazza canadese di 13 anni. Frequenta la settima classe (seconda media),
quando i suoi genitori si separano: Amanda viene separata dalla sorella e va a vivere con il
padre. Nello stesso periodo, con amici, inizia a videochattare per conoscere nuove persone e,
tramite questa chat, conosce un ragazzo, con il quale passa del tempo online. Un anno dopo,
Amanda cede alla sua insistente richiesta: si fa ritrarre a seno nudo.
Poco tempo dopo, Amanda viene ricattata su Facebook: l’aggressore vuole uno “show”,
altrimenti diffonderà la foto a seno nudo agli amici di Amanda. L’aggressore ha molte
informazioni su Amanda: nome, indirizzo, familiari, amici, compagni di scuola… Amanda
non risponde.
Il giorno di Natale, la polizia bussa alla casa di Amanda alle 4:00 di mattina, informando il
padre che una foto di Amanda a seno nudo stava circolando online. La stessa foto comincia a
circolare all’interno della scuola e Amanda viene additata dai compagni che cominciano ad
insultarla pesantemente. Amanda comincia a soffrire di ansia, depressione, crisi di panico.
Il padre decide di cambiarla di scuola, ma un anno dopo qualcuno apre un falso profilo
Facebook con il nome di Amanda e come foto di profilo, c’è la foto di Amanda in topless.
Amanda perde nuovamente gli amici e si ritrova sola, esclusa e additata dai compagni di
scuola.
Amanda cambia nuovamente scuola, ma in breve le persecuzioni ritornano: dopo un episodio
particolarmente violento accaduto a scuola, Amanda tenta ancora il suicidio, ma viene
salvata. L’episodio scatena nuovi commenti sprezzanti su di lei, mentre continuano le
persecuzioni online da parte di uno sconosciuto che continua a creare profili falsi.
Amanda tenta il suicidio una seconda volta, ma viene nuovamente salvata. Le aggressioni
continuano fino a che il 7 settembre 2012 Amanda posta un video su YouTube 3 , nel quale
racconta tutta la sua storia.
Un mese dopo, il 10 ottobre 2012, Amanda si toglie la vita.
Il caso di Carolina Picchio
Carolina ha 14 anni e vive in provincia di Novara. I suoi genitori sono separati e, al termine
delle scuole medie, Carolina si trasferisce dal padre, che vive in un quartiere popolare nella
periferia di Novara.
Carolina conosce un ragazzo, ma, anche se la relazione finisce molto presto, la gelosia delle
altre ragazze si trasforma in aggressione sfociando poi in fenomeni di bullismo e
Cyberbullismo.
Un giorno Carolina viene invitata ad una festa privata, a casa di un ragazzo: Carolina beve
molto, si sente male e si rifugia in bagno dove perde i sensi. I ragazzi la seguono, e, mentre
Carolina versa in uno stato di incoscienza, mimano atti sessuali con lei riprendendoli con il
cellulare.
Poiché Carolina non si riprende, i ragazzi si decidono a chiamare il padre che, dopo averla
rianimata, la riporta a casa.
Il video comincia a circolare tra i ragazzi, e Carolina diventa bersaglio di continui insulti, che
si amplificano sempre più. Il 5 Gennaio 2013, Carolina si fa accompagnare dal padre ai
giardini dove si ritrova la compagnia, ma dopo poco richiama il padre chiedendogli di
riaccompagnarla a casa. Si reca in camera sua, e qualche ora dopo apre la finestra e si lancia
nel vuoto.
Carolina lascia alcuni messaggi:
● alla sorella Talita: “Mi dispiace, non è colpa di papà ma non ce la faccio più a
sopportare”;
● all’ex fidanzato: “Non ti basta quello che mi hai fatto? Me l’hai già fatto pagare troppe
volte”;
● a tutti, tramite il suo stato su Facebook: “Con la gente ho già avuto troppa pazienza,
non voglio più perdere tempo”;
Carolina lascia anche un’ultima lettera:
Volevo solo dare un ultimo saluto. Perché questo? Beh, il bullismo, tutto qui. Le parole fanno
più male delle botte, cavolo se fanno male. A voi cosa viene in tasca oltre a farmi soffrire?
Grazie per il vostro bullismo ragazzi, ottimo lavoro. Spero che ora sarete più sensibili sulle
parole.
Riflessioni
Non è possibile riportare in modo esauriente fatti, sentimenti, emozioni, rendendo giustizia a
quanto vissuto da Amanda e Carolina. Se Amanda ci ha consegnato una importante
testimonianza diretta del suo vissuto, Carolina ce lo consegna tramite le parole del padre 4 ,
della sorella 5 , e dei giornalisti 6 che se ne sono occupati.
Rileggendo le loro storie, appare chiaro che non è sufficiente agire per salvaguardare i
possibili bersagli del Cyberbullismo: quello che mi lascia senza parole è l’atteggiamento
aggressivo di gruppi di ragazzi che si sono aggregati, anche inconsapevolmente, con l’unico
scopo di distruggere il bersaglio, che diventa capro espiatorio di tutti i mali della società. È
molto comune, ed è successo anche ad Amanda e a Carolina, essere oggetto di affermazioni
offensive fatte a titolo gratuito (“puttana”), quasi a voler “bruciare la strega”, fonte di tutti i
mali. Il bersaglio si trasforma in vittima quando comincia a credere al suo aggressore,
quando smette di combattere perché non vede più via d’uscita: in questo momento il suicidio
comincia a sembrare l’unica possibile alternativa all’inferno in cui si trova.
Occorre però comprendere che non è una questione tra “bullo”, inteso come individuo e il suo
“bersaglio”: la loro relazione è possibile solo perché il contesto sociale in cui si trovano
accetta, ignora o sceglie di non gestire il problema. Le persone che dovrebbero fungere da
protezione spesso non sono in grado di comprendere la gravità degli episodi, non sanno
gestirli, bloccano la comunicazione con i ragazzi, che si sentono sempre più soli e
incompresi. Alla fine, soli, sfiduciati e senza apparente via d’uscita, decidono di togliersi la
vita, per disperazione o come vendetta.
Il Cyberbullismo è un fenomeno che avviene nel mondo digitale , che ha conseguenze reali
e che impattano sul mondo fisico. Ci sono tanti, troppi casi di ragazze e ragazzi che, vittime
di Cyberbullismo, hanno scelto di togliersi la vita. Ho scelto il caso di Amanda perché ci ha
lasciato un’importante testimonianza; ho scelto il caso di Carolina perché è quello che ci
tocca più da vicino. Entrambi i casi, assieme a molti altri, mi hanno lasciato incredulo: è
davvero possibile che la società sia a tal punto malata da consentire e favorire la distruzione
di ragazze e ragazzi senza che nessuno riesca a bloccare l’evolversi delle situazioni? Cosa
possiamo fare per rinforzare i ragazzi scelti come bersaglio? Cosa possiamo fare per “curare”
le ferite inflitte all’anima dei ragazzi sopravvissuti ad aggressioni di Cyberbullismo?
Possiamo fare qualcosa per prevenire tali fenomeni? Possiamo diffondere la consapevolezza
nei ragazzi in modo che siano loro stessi ad accorgersi e a disinnescare eventuali aggressioni
invece di prenderne parte amplificandole?
Queste riflessioni mi hanno profondamente portato a sospendere il giudizio per comprendere
le dinamiche delle persone, per poter capire il fenomeno e la psicologia degli attori, in modo
da agire per prevenire e, in caso di necessità, risolvere i casi di Cyberbullismo.
Educazione marziale: Zanshin Tech
Ho incontrato Zanshin Tech 7 nel 2018, e ho subito
intuito che sarebbe stato un pezzo importante del
puzzle. Zanshin Tech fonde l’esperienza
millenaria che arriva dalle arti marziali
tradizionali giapponesi, con il mondo tecnologico
oggi a disposizione di tutti. Zanshin Tech si
definisce come la prima arte marziale digitale.
Se le arti marziali tradizionali si occupano di
conflitto nel mondo fisico, Zanshin Tech si occupa
di conflitto nel mondo digitale, includendo non
solo il fenomeno del Cyberbullismo, ma anche
stalking, truffe e aggressioni digitali in genere.
Zanshin è lo stato d’animo di vigile attenzione
controllata e serena, nel quale la mente è
concentrata nel qui e ora. Tale stato d’animo
caratterizza i Maestri di arti marziali: la gestione
efficace dell’aggressione prevede di accogliere
l’aggressore e lasciarlo andare, mantenendo un atteggiamento di “presenza”.
Quando ho conosciuto Zanshin Tech, le mie nozioni sulle arti marziali tradizionali giapponesi
erano molto limitate, e, come ho scoperto durante la formazione, sbagliate o incomplete. Nel
mio percorso come “Sensei” Zanshin Tech, ho potuto comprendere che l’arte marziale non è
solamente una sorta di addestramento al combattimento, è invece un percorso atto a costruire
una personalità forte in grado di andare con sicurezza per il mondo. Nelle lezioni spesso ci si
riferisce agli allievi come ad un seme che va seminato, protetto e guidato nelle fasi più
critiche della crescita, per ottenere un albero forte in grado di resistere alle intemperie.
Le cinque regole
La crescita dell’allievo, che è comunque finalizzata a preparare il guerriero alla gestione del
conflitto, avrà una forte dualità: si parla quindi di doppia via del Samurai (o “bushi”), colui
che ha la capacità di mantenere la pace con la forza militare e letteraria. Molti Samurai erano
infatti anche letterati e poeti. Non si deve tuttavia pensare al guerriero facendosi influenzare
dal pensiero mainstream occidentale: il Samurai ha come scopo la cessazione del conflitto,
non la distruzione dell’avversario.
Al nemico accerchiato, lascia una via di fuga. – Sun Tzu
L’allievo dovrà quindi sviluppare un equilibrio: gli verrà insegnato a combattere sviluppando
l’amore per la pace e il rispetto.
Zanshin Tech si basa su cinque regole atte a costruire una forte base etica e morale degli
allievi:
1. non attaccare;
2. rispetto;
3. ciò che si dice nel dojo rimane nel dojo;
4. tre lati, una fortezza;
5. si lascia il dojo come lo si è trovato.
Queste regole stimolano negli allievi prima di tutto una attitudine alla pace e al rispetto
reciproco. Ogni lezione progettata dai Sensei viene costruita per stimolare la riflessione e il
rispetto di queste cinque regole. L’effetto, che ho personalmente sperimentato, è un profondo
cambiamento con cui ci poniamo nel nostro quotidiano.
I Kata
I Kata sono delle attività ripetitive atte ad instillare negli allievi la capacità di gestire
situazioni critiche. In questa particolare situazione globale dettata dal COVID19, ha preso
importanza l’esercizio di respirazione, presentato come Kata: con la pratica ho notato che i
ragazzi cominciano a sperimentare uno spazio tra le emozioni e le azioni. Tale spazio serve
per riportare la calma, creando un agire consapevole invece che una reazione dettata dalle
emozioni.
Tra lo stimolo e la risposta c’è uno spazio. In quello spazio risiede il potere di scegliere la
nostra risposta. Nella nostra risposta c’è la nostra crescita e libertà. – Viktor Frankl
Uno dei pilastri di Zanshin Tech è costituito dall’analisi dei casi, che viene effettuata come
Kata. L’analisi di un caso come quello di Amanda li fa rendere conto che azioni, fatte in
leggerezza o percepite come innocui scherzi, possono avere forti ripercussioni emotive sugli
altri: entrare in empatia con vittime di Cyberbullismo, significa comprendere profondamente
le conseguenze di determinate azioni.
Se da una parte gli allievi, opportunamente guidati dai Sensei, possono toccare con mano le
dinamiche negli episodi di Cyberbullismo focalizzandosi ora sul bersaglio, ora
sull’aggressore, ora sulle dinamiche di gruppo, permette agli allievi di comprendere come si
sviluppa una aggressione digitale, per poterla affrontare con un atteggiamento sereno
(Zanshin), attivando le tecniche di difesa corrette con l’unico scopo di fermarla, trattando
l’aggressore con rispetto.
Non incalzare un nemico disperato – Sun Tzu
Uno spazio protetto
In molti casi si tende a proteggere i ragazzi non esponendoli ad argomenti che, crediamo,
possano turbare la loro sensibilità. Questa tendenza alla protezione, come vedremo nel
capitolo seguente, si applica anche alla morte.
Ho potuto verificare che i ragazzi sono già a conoscenza dei casi famosi di Cyberbullismo,
perché vengono spesso citati in attività di sensibilizzazione a scuola, o perchè sono i ragazzi
stessi che si informano autonomamente su Internet. Quello che ho notato è che i ragazzi stessi
hanno bisogno di un luogo per capire, approfondire, parlare di questi casi. Tale spazio
dovrebbe naturalmente trovarsi nella famiglia e nella scuola, tuttavia i ragazzi sembrano non
trovare in questi luoghi l’accoglienza che cercano. Le motivazioni possono essere diverse: la
ricerca di un punto di riferimento alternativo alla famiglia, paura o incapacità di comprendere
bene le dinamiche da parte degli adulti, paura dei ragazzi ad esporsi di fronte ai “pari” (a
scuola), timore di creare preoccupazioni aggiuntive nei propri genitori.
Il “Dojo” (il luogo dove si tengono le lezioni di arti marziali), grazie anche alla terza regola,
diventa quindi uno spazio protetto per parlare di morte, sesso, paura, depressione, disturbi, in
modo libero, esorcizzando così le proprie paure. I ragazzi imparano quindi a vedere fenomeni
pericolosi in loro e nei loro amici, costruendo così una prima rete di difesa atta a rilevare
eventi di Cyberbullismo, avvisando le persone che possano fermarli. Ma l’etica sviluppata
nelle lezioni permette ai ragazzi di agire sapendo che difendere il bersaglio è importante tanto
quanto è importante evitare all’aggressore di compiere azioni di cui potrebbe pentirsi per tutta
la vita. Il rispetto (seconda regola) è dovuto anche all’aggressore, comprendendo che, in
realtà, agisce da una posizione più debole rispetto al suo bersaglio, poiché è l’aggressore che
manifesta un bisogno.
Esiste solo un modo: “I shin den shin” (da cuore a cuore). 8
La recente vicenda di Antonella 9 , bambina di 10 anni morta in seguito ad una “challenge”, ha
riportato l’attenzione sull’uso dei social da parte dei minori. Il Dojo è stato lo spazio dove i
ragazzi potevano essere ascoltati mentre esprimevano le loro paure, ognuno con le proprie
modalità. L’interazione positiva, in questo caso all’interno del Dojo, rinforza l’autostima
riducendo la sofferenza nei ragazzi.
Un percorso spirituale
Il percorso Zanshin Tech mi ha portato a vedere in modo diverso gli altri e il mondo: se i
valori fondanti diventano una guida nel quotidiano, la mentalità da Samurai permette di
affrontare le dinamiche con maggiore forza, serenità e distacco, reagendo in base ad una
consapevolezza e non in base alla paura o al panico.
Personalmente Zanshin Tech ha profondamente influenzato anche il mio modo di pormi
nell’uso delle tecnologie, ora molto più critico e consapevole, portandomi a dare maggiore
valore alle esperienze, vivendole direttamente e non mediante dispositivi.
È in questo senso che reputo Zanshin Tech un percorso di “costruzione del Sè”.
8
Death Education
La piramide di Maslow è stato per me uno dei più importanti concetti che ha modificato il mio modo di pensare.
L’idea che non sia possibile procedere
nell’evoluzione personale se non sono
soddisfatti i bisogni più basilari mi ha
portato a cambiare modo di pormi verso
gli altri. Tuttavia ho riflettuto anche su
un’altra importante implicazione: cosa
accade se ad una persona, che sta
lavorando nei piani più alti della
piramide, vengono improvvisamente minati i bisogni fondamentali?
Nel capitolo precedente abbiamo visto come la saggezza delle arti marziali possa agire da
punto di controllo, addestrando dei Samurai che sappiano allo stesso tempo difendersi,
difendere gli altri e monitorare eventuali situazioni di rischio, prevenendo e limitando
conseguenze sia per bersagli che per aggressori.
In questo capitolo valutiamo come un percorso di Death Education effettuato su larga scala
possa riportare al centro i valori di rispetto reciproco e della vita in generale.
La morte occultata
Nella società occidentale, di cui facciamo parte, si tende a nascondere, ad occultare il
fenomeno della morte. Ai bambini prima di tutto viene impedito di sperimentare il fenomeno
della morte: si preferisce che non
assistano agli ultimi istanti di vita, che
non partecipino ai funerali, che non
siano testimoni del dolore causato
dalla separazione. Mi viene in mente
un ulteriore esempio legato alle
tecnologie: i videogiochi per bambini
trasformano la morte dei personaggi in
un evento “fumettoso” e reversibile.
Nella mia vita ho giocato con tantissimi videogiochi, da bambino fino all’età adulta,
utilizzando come valvola di sfogo videogiochi anche molto violenti. Sebbene mi abbiano
permesso, almeno in prima istanza, di sfogare la rabbia accumulata, mi rendo conto ora delle
implicazioni che hanno avuto sull’inconscio. La morte digitale è reversibile, c’è sempre la
possibilità di tornare indietro e rigiocare la partita. Ma è importante anche educare alla morte
fisica, in modo da comprendere che se nel primo caso si ha sempre una nuova possibilità, nel
secondo caso il processo è irreversibile. Sembrano parole ovvie, ma in molti casi non lo sono:
e la già citata notizia di Antonella ci dimostra quanto si cerchi di superare il limite, senza
rendersi conto delle possibili conseguenze.
Episodi come quello di Antonella, di Amanda, di Carolina, mettono la sofferenza prima, e la
morte poi, davanti ai nostri occhi, e in tal modo non è più possibile negare la fragilità che
caratterizza la vita umana. Ines Testoni ci riporta il pensiero di Emmanuel Lévinas 10 :
Il volto dell’Altro è ciò che più intimamente appartiene alla nostra soggettività, e quando
questi muore la sua morte ci riguarda profondamente in prima persona, quindi ci intacca, ci
travolge.
La morte dell’altro diventa quindi un mezzo sociale per prendere coscienza della propria
finitudine, ma prima ancora della propria vulnerabilità e della propria fragilità, facendo
cadere l’illusione di essere immortali, di poter ricominciare dall’inizio ogni volta che se ne
presenti la necessità.
Gli studi di Richard Cotter hanno mostrato come gli adolescenti che adottano maggiori
comportamenti a rischio per la propria e l’altrui salute siano quelli che non temono la morte 11 .
D’altra parte, nel capitolo precedente, abbiamo visto che episodi fatali legati al
Cyberbullismo e alle tecnologie in genere, destabilizzano i ragazzi (e gli adulti) in modo
molto profondo.
Tre livelli di prevenzione
Un percorso di Death Education può agire come prevenzione su tre livelli: primaria,
secondaria e terziaria. La prevenzione primaria può essere identificata con l’antico “memento
mori”, e si focalizza quindi sui temi relativi alla propria finitudine. La prevenzione secondaria
prende atto quando c’è una morte annunciata e affronta argomenti relativi all’assistenza e alla
preparazione della morte di una persona cara. La prevenzione terziaria ha lo scopo di gestire
un lutto affinché si concluda senza cadere in dinamiche patologiche.
Alcune esperienze di prevenzione primaria realizzate all’interno delle scuole che avevano
come tema la fragilità della vita, hanno portato alla riduzione di comportamenti violenti
all’interno della scuola. Diverse ricerche di Shane Shackford 12 hanno mostrato come
l’esperienza offerta dalla Death Education possa ridurre il ricorso a comportamenti violenti,
contenendo anche l’ansia e aumentando altresì’ la capacità di riconoscere come rispettare la
vita propria e quella altrui.
Contemplare la morte per trasformare la vita
Promuovere un percorso di Death Education nei ragazzi, significa insegnare loro, non solo a
gestire la propria morte, ma imparare ad affrontare con serenità la vita.
Attraverso l’espressione delle proprie emozioni, imparando ad esprimere le proprie paure e
dando loro un nome, potrebbe portare, a mio parere, un contatto con la parte più profonda del
Sé. In una fase critica della vita, come quella dell’adolescenza che vede la trasformazione del
bambino (e quindi in un certo senso la morte) in adulto, riscoprire la morte, e quindi la vita
potrebbe fornire ai ragazzi quella mappa per affrontare la vita. Se non è possibile evitare la
sofferenza che la vita presenta ai ragazzi (e non sarebbe nemmeno corretto, poiché la
saggezza deriva dall’esperienza diretta), è forse possibile consegnare loro gli strumenti per
comprenderla. In questo senso ipotizzo che un percorso di Death Education possa attivare nei
ragazzi delle nuove strategie di “coping”, di resilienza agli scossoni che la vita naturalmente
presenta.
Come ci testimonia Herman Feifel, promuovere un percorso di Death Education non significa
aumentare, nei ragazzi, l’angoscia per la morte, significa invece aiutarli a gestire tale paura,
con equilibrio, promuovendo la serenità e la capacità di affrontare le difficoltà della vita 13 .
Possiamo quindi ben sperare che un percorso strutturato e diffuso possa da una parte
contrastare pratiche autolesionistiche e tendenze al suicidio di alcuni giovani, dall’altra possa
prevenire comportamenti aggressivi verso gli altri, riducendo quindi anche i fenomeni di
bullismo e Cyberbullismo.
In un certo senso per educare alla vita, occorre educare alla morte.
Conclusioni
L’attuale diffusione di tecnologie che permettono la comunicazione a distanza, sta
amplificando incomprensioni tra persone, portandole, a volte, all’estremo. Quello che non ci
rendiamo conto è che, oggi più che mai, l’altro è lo specchio di noi stessi: nei messaggi che
riceviamo, leggiamo prima di tutto le nostre paure, scambiandole per le intenzioni dell’altro.
In questo senso le tecnologie stanno portando all’estremo comportamenti e percezioni errate
che abbiamo sempre avuto.
Un percorso Zanshin Tech può portare uno strato di consapevolezza nei ragazzi (e negli
adulti), creando dei punti di controllo: è stato verificato che i ragazzi addestrati sono in grado
di reagire efficacemente per fermare le aggressioni verso loro stessi, ma anche verso gli altri,
bloccando sul nascere comportamenti a rischio salvaguardando bersagli e aggressori. Inoltre
ho potuto notare come Zanshin Tech possa rafforzare le personalità di ragazzi, anche e
sopratutti nei casi dove ci siano stati episodi traumatici di aggressioni digitali (e questo vale,
nuovamente, anche per gli adulti).
La Death Education può invece lavorare ad un livello diverso: riflettere sulla morte e
comprendere la propria finitudine influenza il comportamento che mettiamo in atto nella
relazione verso l’altro. La mia esperienza mi ha portato a comprendere i valori verso i quali
voglio tendere, spostando le mie energie da progetti meno importanti e concentrandomi su
quelli che nutrono maggiormente la mia anima. In questo senso ho ragione di credere che
introducendo in modo esteso la Death Education nelle scuole, sia possibile dare ai ragazzi
strumenti per comprendere sé stessi, gli altri, e la sacralità della vita.
Senza nulla togliere alle tecnologie che tutti noi usiamo quotidianamente, credo sia necessaria
una riflessione su come le stiamo usando: applichiamo modalità del mondo fisico al mondo
digitale senza renderci conto che questi due mondi sono allo stesso tempo enormemente
distanti ma anche in stretta relazione l’uno con l’altro: se un cellulare può connettermi a
chiunque, chiunque è connesso a me, nel bene e nel male.
1 https://www.youtube.com/watch?v=-iiqmG5KWnU
2 Sheri Bauman, “Cyberbullying: a Virtual Menace”, 2007, p. 3,
https://web.archive.org/web/20160228031211/http://ncab.org.au/Assets/Files/Bauman%2C%20S.%20Cyberbull
ying.pdf
3 https://www.youtube.com/watch?v=vOHXGNx-E7E
4 https://www.fondazionecarolina.org/carolina/
5 https://intreccio.eu/morire-di-cyberbullismo-parla-la-sorella-di-carolina-la-vergogna-e-piu-della-paura/
6 https://www.panorama.it/news/facebook-carolina-picchio-suicidio-gogna
7 https://www.zanshintech.it/
8 Una frase ripetuta spesso nel corso di formazione come consulente mediatore
( https://www.zanshintech.it/formazionesensei.php )
9 https://tinyurl.com/ys3fwjg8
10 Ines Testoni, “L’ultima nascita”, 2019, p.9
11 Ines Testoni, “L’ultima nascita”, 2019, p.65
12 Ines Testoni, “L’ultima nascita”, 2019, p.66
13 Ines Testoni, “L’ultima nascita”, 2019, p.43
L’autrore
Andrea Dainese si è diplomato nell’anno 2021 alla Scuola di Alta Formazione TuttoèVita in accompagnamento spirituale nella malattia e nel morire.