LA DIMENSIONE DEL TEMPO NELLE CURE PALLIATIVE

Francesco Campione

Sarebbe giusto impostare il mio intervento affrontando il tema del tempo
filosoficamente, prendendola cioè alla larga e dando sfoggio di erudizione. Ma non ho
tutto il tempo neanche per parlare del tempo. Ecco dunque la prima osservazione sul
tempo: il tempo a disposizione è limitato, non si può fare come se si avesse tutto il
tempo necessario, il tempo stringe (1,2).
Mi limiterò allora ad un paio di citazioni autorevoli che potrebbero tornarci utili e
cercherò di passare avanti. Aristotele, Kant, Levinas e Agostino.

Per Aristotele il tempo è “…il numerato del moto che s’incontra nell’orizzonte del
prima e del dopo” (3).

Per Kant il tempo è “…l’intuizione del senso interno” (4).

Per Levinas: “Il tempo e tutti i fenomeni temporali (ricerca, domanda, desiderio, etc.)
vengono sempre analizzati per difetto. Perchè non è possibile pensare il vuoto di tali
fenomeni, l’incompiutezza, come un al di là del contenuto, come un modo di entrare
in relazione con il non contenibile, con l’infinito che non si può dire termine?” (5)

Per Agostino: “Io so cos’è il tempo, ma quando me lo chiedono non so spiegarlo” (6)
D’altra parte, e per fortuna, il mio compito oggi è di parlare della dimensione del
tempo nelle Cure palliative e non del tempo in generale.

Passerò avanti collocando le Cure palliative nell’ambito della Medicina e andando
alle origini della Medicina occidentale, ad Ippocrate. Cosa dice Ippocrate del tempo?

C’è un famosissimo aforisma:
“La vita è breve, l’arte è lunga, l’occasione istantanea, l’esperimento malcerto, il
giudizio difficile, al medico tocca far sì che non solo egli stesso adempia quanto è
necessario, ma anche il malato, gli assistenti, le circostanze esterne”. (7)

Il tempo della vita è kronos, quello che divora gli anni come Saturno divora i suoi
figli. E’ il tempo che non basterebbe a nessun medico se, per diagnosticare e guarire
le malattie, ci si basasse solo sull’arte medica, essendo essa tanto “lunga” (implicando
cioè tanto tempo) da far continuamente constatare al medico che sono più le cose che
ancora non si sanno e non si sanno fare per guarire che quelle che si sanno e si sanno
fare. Per fortuna c’è un altro tempo, kairos, fugace ma decisivo, che è l’occasione da
cogliere al volo, l’opportunità fortunata, a fornire al medico la possibilità di
interrompere la fatalità che kronos porta con sé. Naturalmente se sarà corretta la
logica, si avrà fortuna e anche gli altri attori della scena, il malato e gli infermieri
faranno la loro parte.

La strategia indicata da Ippocrate nel suo aforisma si può applicare alla Medicina in
generale anche oggi, e si può estendere anche alle Cure palliative con le dovute
limitazioni, dopo aver mostrato ciò che esse condividono con la Medicina e ciò che le
differenzia da essa.

Nelle Cure palliative, la vita del medico, a cui Ippocrate si riferisce, può essere
altrettanto breve che in ogni altro momento della cura, ma la sua possibilità di
intervenire può sostanzialmente cambiare allorchè le Cure palliative, come più
frequentemente accade, siano erogate per un malato più vicino alla morte. In altri
termini, non c’è differenza tra la Medicina e la Medicina palliativa quando le Cure
palliative vengono somministrate contemporaneamente alle cure attive(per guarire e
allungare la vita), c’è differenza quando vengono somministrate allorchè non si può
più guarire e allungare la vita. In tal caso infatti, pur essendo breve come quella di
tutti i medici rispetto all’arte medica, la vita del medico può essere molto lunga
rispetto a quella del malato, ed è quest’ultima che nella sua bravità limita il tempo
della sua arte al punto che forse ora si dovrebbe dire:

-lunga è la vita del medico, breve è l’arte possibile quando è la vita del malato ad
essere certamente breve-.

Nelle Cure palliative l’arte non coincide con la “techne” dei greci, cioè con l’arte
medica (diagnosi , terapia e prognosi), dato che essa si dovrà estendere al compito di
alleviare e/o sopportare le sofferenze e favorire una buona morte (con speranza ,
dignità e un “buon lascito” a chi resta). Per la verità anche nel pensiero Ippocratico
c’è l’indicazione a “non nuocere” al paziente che potrebbe alludere alle cure
palliative. Di conseguenza la vita del medico diventa nuovamente breve di fronte al
compito “umano” dell’arte e della sapienza necessarie ad alleviare le sofferenze e
garantire una buona morte. Ora si dovrebbe dire:

-breve è la vita del medico, lunga è la Cura, cioè l’arte del ridurre e/o sopportare i
dolori che non passano e dell’aiutare a morire-

Nelle Cure palliative il kairos, l’occasione da cogliere al volo in un istante,
l’opportunità fortunata, continuerà a presentarsi ma non più solo come modo per
potenziare gli effetti benefici dell’arte medica (sarà ancora così, ad esempio, quando
si darà un analgesico al bisogno imbroccando il momento giusto), ma anche come
modo per cambiare il senso dell’esperienza della sofferenza e della morte (ad esempio
una parola di conforto o l’espressione di un affetto al momento giusto possono aiutare
a sopportare una sofferenza senza sbocchi o rasserenare una morte irreversibile). Ora
il kairos non sarà più qualcosa di solo casuale, ma anche il risultato di una profonda
empatia, un momento in cui il tempo si accelererà ma grazie ad un lento
approssimarsi delle sensibilità di chi cura e di chi è curato. Ora si dovrebbe dire:

-l’occasione è istantanea ma è il risultato della comunicazione empatica tra chi cura (il
medico, i suoi assistenti ) e chi è curato-

Applicato alle Cure palliative l’aforisma ippocratico diventa:
-Lunga è la vita del medico, breve è l’arte possibile quando è la vita del malato ad
essere certamente breve.
Breve è la vita del medico, lunga è la Cura, cioè l’arte del ridurre e/o sopportare i
dolori che non passano e dell’aiutare a morire.
L’occasione è istantanea ma è il risultato della comunicazione empatica tra chi cura(il
medico e tutti i suoi assistenti) e chi è curato-
Ne consegue che la responsabilità del medico è massima nel primo tratto, minima nel
secondo e pari a quella di tutti gli altri nel terzo. Il primo tratto è quello in cui le Cure
palliative coincidono con la Medicina palliativa, il secondo tratto è quello in cui la
Medicina Palliativa è un aspetto delle Cure palliative, il terzo tratto è quello in cui è
necessaria una collaborazione paritaria tra Medicina Palliativa e Cure palliative grazie
alla mediazione della saggezza umana.

Il tempo ha quindi nelle Cure palliative una triplice dimensione (8) :
1. Può prevalere il tempo finito dominato dalla polarità tra due tempi finiti: il
tempo più lungo ma finito della vita del medico (o di chi cura in generale) di
fronte al tempo più breve ma altrettanto finito della vita del malato;
2. Può prevalere il tempo indefinito della Cura che non si sa quanto tempo
implicherebbe, dato che di fronte alla Cura la vita breve (finita) del medico si
polarizza subordinandovisi, e dato che il medico si rammarica della brevità
della sua vita rispetto all’arte ma non rinuncia ad avanzare verso di essa.
3. Può prevalere il tempo infinito dell’empatia che si polarizza il rapporto
medico-paziente attraverso una comunicazione che punta ad istanti eterni di
comprensione pur sapendo che potrebbero non arrivare mai e anche se
arrivassero durerebbero un istante e bisognerebbe riprendere a comunicare.
Nel breve tempo della loro storia le Cure palliative si sono evolute passando dalla
prima alla seconda dimensione temporale. All’inizio, infatti, le Cure palliative sono
state concepite come ciò che c’è ancora da fare per curare quando non c’è più niente
da fare per guarire, o più precisamente dal punto di vista della dimensione
temporale:quando non c’è più tempo per guarire e allungare la vita perché il malato
sta per morire, il medico ha ancora tempo per alleviare le sofferenze e aiutare a morire
il meglio possibile. Ma la polarizzazione tra il medico che può ancora fare qualcosa e
il malato che non può più guarire, sarebbe stata pacificata se si fosse riusciti a
convincere i malati a volere ciò che per il medico è possibile garantire( cioè alleviare
le sofferenze e morire con dignità).Finora si è riusciti a indirizzare la polarizzazione
in questa direzione solo in una minoranza di pazienti. Questi in maggioranza infatti
continuano a non voler prendere atto dell’imminenza della morte e
desiderano accrescere la quantità della vita più che migliorarne la qualità come le
cure palliative propongono. Di fronte allo scacco quotidiano di erogare cure palliative
a chi vorrebbe cure guaritive, i medici palliativisti hanno rilanciato recuperando la
loro vocazione medica, cioè appoggiandosi al potere della Scienza e tornando ad
Ippocrate: se la vita è breve e l’arte è lunga, si può allungare la vita identificandosi
con l’arte:nel tempo indefinito del progresso tecnico-scientifico i problemi che oggi
non si sanno risolvere ,certamente si risolveranno attraverso le verità parziali e
probabilistiche acquisibili già oggi e accumulandole. Le Cure palliative diventano
sempre più Medicina palliativa, si tecnicizzano, diventano “protocollari” e
standardizzate come tutte le altre terapie mediche ponendosi di fronte al desiderio di
quantità di vita che prevale nei pazienti con l’autorevolezza della scienza e riducendo
la personalizzazione delle cure alla loro individualizzazione, nei due modi propri delle
Cure Palliative attualmente prevalenti: facendo dipendere la particolarità delle
persone da un fattore non negoziabile, la genetica, e da un fattore negoziabile da parte
dei pazienti ma fonte al tempo stesso della loro debole capacità contrattuale, le
preferenze soggettive. Ne deriva nelle Cure palliative una polarizzazione del rapporto
curanti-curati apparentemente democratica ma in realtà alquanto autoritaria(come fa
infatti a resistere la preferenza individuale, se non diventa assolutamente arbitraria,
alla genetica e all’autorità della scienza?)

Ci sarebbe l’alternativa del tempo infinito dell’empatia che implicherebbe il mettere
alla base dell’intervento assistenziale, come fattore personalizzante e umanizzante di
esso, il desiderio che accomuna chi cura e chi è curato mettendoli sullo stesso piano e
consentendo una reale empatia tra loro: il desiderio del Bene. Oggi si mettono alla
base i bisogni, come se dietro e “prima” (ecco ancora il tempo) non ci fosse niente.
Prima di avere bisogno una migliore qualità di vita e di morire bene, ci sono il
desiderio di vivere e quello di morire. Ma si sa cosa si desidera quando si desidera
vivere? Non si desidera qualcosa che, come il tempo, si sa cosa è ma non si può
spiegare, cioè la felicità, tutto il bene ? E cosa si desidera quando si desidera morire
bene? Non si desidera qualcosa di altrettanto misterioso in grado di farci sentire
un’emozione di “non si sa cosa” che Levinas (9) chiama, non a caso, “un’emozione
nell’ignoto?”

Senza il tempo infinito dell’empatia (che smette di subordinare tutti i curanti ai medici
facendo delle Cure palliative solo una Medicina palliativa) le cure palliative sono
destinate a trovarsi di fronte ad un dilemma senza soluzione. Da una parte, infatti,
hanno bisogno che il paziente e la famiglia desiderino la morte per non cadere
nell’accanimento terapeutico, dall’altra che desiderino la vita per collaborare al
tentativo di migliorarne la qualità. Spieghiamolo.

Le cure palliative rispondono al desiderio di benessere di chi ha una pessima qualità
della vita. Ma come può desiderare il benessere chi sa che starà sempre peggio?
Piuttosto, chi soffre senza speranza di miglioramento desidererà morire per smettere
di soffrire, e le cure palliative non basteranno più. Allora uno dei bracci operativi
delle Cure Palliative, la Medicina Palliativa, si converte a procedure simil-eutanasiche
(interruzione delle terapie salva-vita o eutanasia passiva, sedazione palliativa o
eutanasia della coscienza). Ma chi desidera morire per smettere di soffrire, desidera la
morte o qualche forma di vita diversa da quella insopportabile che sta vivendo? E se
scoprissimo che in realtà chi desidera morire non sa cosa desidera, perché nessuno sa
cos’è la morte? Il desiderio di morire potrebbe essere quindi un desiderio puro,
irrealizzabile e quindi solo da desiderare all’infinito. Ecco l’alternativa ai due corni
del dilemma della Medicina Palliativa: quello che favorisce il benessere riuscendo al
massimo a ridurre il malessere e quello che non si oppone alla morte rendendola più
“facile” con l’interruzione delle terapie attive e con la sedazione. In altri termini, le
Cure Palliative, incontrando il desiderio di morire del paziente che non ha più
speranza di stare meglio, invece di contrastarlo, facendo risorgere in lui il desiderio di
vivere attraverso il miglioramento della qualità della sua vita, potrebbero valorizzarlo
come un desiderio di “bene” che ignora il suo “cosa” e il suo “come” e apre la
possibilità di un tempo infinito proprio di fronte alla imminenza della fine. Vuol dire
che il desiderio di vivere e il desiderio di morire, cosi spesso compresenti nelle fasi
finali della vita, non sono due opposti, il primo da sostenere migliorando la qualità
della vita e il secondo da affievolire distraendosi dall’impossibilità di trovare altre
ragioni per vivere, poiché condividono il “desiderio del bene”. Il desiderio di vivere e
il desiderio di morire, infatti, restano tali se vanno oltre i bisogni irrealizzabili verso
cui si dirigono: il desiderio di vivere resta il desiderio di qualcosa di buono anche
quando la qualità della vita è irrimediabilmente compromessa; il desiderio di morire
resta il desiderio di qualcosa di buono perché, non essendo possibile sapere che
significa morire, la morte rappresenta un’apertura del tempo verso un mistero che
potrebbe riservare sorprese positive. Nella pratica dell’assistenza ai morenti questa
alternativa appare nei rari casi in cui si riscontra una compresenza del desiderio di
vivere e del desiderio di morire nella loro purezza, cioè in assenza del tentativo
impossibile di migliorare la qualità della vita in modo soddisfacente o di controllare la
morte imminente anticipandola o addolcendola. Morendo con l’aiuto della Medicina
Palliativa ma non pretendendo che il benessere vinca il malessere, e con l’aiuto delle
Cure Palliative ma non pretendendo che accelerino o facilitino la morte, si può
accedere ad un modo nuovo di vivere e di morire: vivere desiderando morire e morire
desiderando vivere! Con ciò ci si avvicina alla verità della vita e della morte più di
quando il desiderio di vivere e il desiderio di morire vengono contrapposti. Infatti, la
prospettiva della morte è presente fin dalla nascita e c’è un che di falso in chi desidera
solo vivere perché è più vicino all’inizio e non tiene conto della fine; cosi come la
prospettiva della nascita continua ad essere presente fino all’ultimo istante di vita, e
c’è un che di falso in chi desidera solo morire perché è vicino alla fine e non tiene
conto dell’inizio. Se siamo morituri alla nascita c’è il dubbio che non nasceremo mai
del tutto, se siamo nascituri al momento di morire c’è il dubbio che non finiremo mai
di morire. E non è una migliore alternativa di quella di nascere una volta per tutte e di
morire definitivamente?

Traduciamo ora quanto detto fin qui sulla dimensione del tempo nelle Cure palliative
intermini assistenziali concreti.
1. Il malato ha poco tempo da vivere e ne è consapevole: di fronte al tempo
scarso e alla fine che incombe, di fronte a kronos, qual è l’opportunità, il
kairos, da afferrare al volo nel poco tempo che resta? Il medico palliativista
deve trovare il tempo di esercitare l’arte della Cura adattandosi alle
circostanze, anche se vorrebbe avere più tempo a disposizione, come si
esprime nel rammarico del dover curare malati che arrivano quasi in agonia.
Si incontra qui uno dei limiti delle Cure palliative: prevale il tempo finito e
potrebbe non bastare per la lunghezza delle Cure.
2. Il malato ha poco tempo da vivere e non ne è consapevole: anche qui kronos
ha divorato se stesso e c’è un kairos da afferrare al volo. Il medico deve
cogliere le opportunità fornite dalle crisi del paziente per renderlo
consapevole della sua condizione, deve fare solo ciò che la scarsa
consapevolezza del paziente gli consente, oppure deve prima mettersi in
empatia con lui perché l’occasione propizia si produca nel tempo pur breve a
disposizione svelando cosa è giusto fare? Anche ora domina il tempo finito,
ma l’empatia può rallentarlo aprendolo ad istanti significativi o di svolta.
III. Il malato sa che l’orizzonte temporale della sua vita si restringe ma non si
preoccupa di prevedere la durata del tempo che gli resta, perché è più preoccupato del
suo benessere: cerca di prevedere se avrà ancora il tempo di stare bene (prognosi
quoad valetudinem) piuttosto che per quanto ancora ci sarà (prognosi quoad
vitam).Proprio quello che il medico di oggi preferisce: l’arte della Cura si può
esplicare in un orizzonte di tempo indefinito, quello consentito dall’efficacia dei
mezzi per migliorare la qualità della vita. Sarà per questo che in Hospice la
preoccupazione fondamentale è controllare i sintomi e c’è sempre una certa sorpresa
quando il paziente, qualche giorno dopo averlo stabilizzato nella sua qualità di vita,
muore. Il limite di questa modalità si incontra allorchè i sintomi non si riesce a
controllarli e la qualità della vita non migliora. Le cure palliative precoci, e erogate a
prescindere dal fatto che per il paziente siano un fine o un mezzo (cioè se per il
paziente il fine sia la qualità della vita a prescindere da quando arriverà la morte,
oppure che esse siano un mezzo per stare meglio e poter continuare a curarsi per
allungare la vita), rappresentano una modalità per ridurre questo limite proprio delle
Cure palliative nella loro attualità. Infatti l’orizzonte temporale diventa tanto più
indefinito, garantendo l’arte della Cura, quanto più si allunga obiettivamente e quanto
meno si prende in considerazione la prognosi quoad vitam. La prevalenza del tempo
indefinito che caratterizza l’arte delle Cure palliative quando privilegia la qualità della
vita ,non ci si preoccupa della quantità della vita e resta incerto il momento della
morte, corrisponde psicologicamente al tentativo di alimentare il desiderio di vivere
togliendo terreno al desiderio di morire.

1. Se il paziente non ha paura di morire perché ha paura di soffrire e si
disinteressa di quando morirà, che succede quando i suoi dolori non possono
essere controllati? Il tempo non passa mai, perché ogni istante dura in eterno e
il desiderio di vivere si può convertire in desiderio di morire. Ora le Cure
palliative si trovano di fronte ai dilemmi dell’accanimento terapeutico, del
suicidio assistito o attenuato (9) e reagiscono proponendo la sedazione, cioè
rilanciando con una tecnica che attenua la percezione del dolore
diminuendone la coscienza o che di fronte all’impossibilità di controllare i
dolori refrattari ne toglie la coscienza. Il desiderio di morire che è normale e
quasi universale di fronte al dolore incedibile potrebbe aprire tramite
l’empatia la dimensione del tempo infinito(l’abbiamo visto sopra)
ricongiungendosi, in quanto desiderio del bene, con il desiderio di vivere. Qui
appare una dimensione umana purtroppo poco rappresentata nella nostra
cultura che, anche attraverso le scelte della Cure palliative sceglie di
privilegiare la sua caratterizzazione come angoscia del nulla (Heidegger)
piuttosto che come emozione nell’ignoto (Levinas). Bisognerebbe capire che
attraverso la sedazione si sceglie di combattere l’angoscia del nulla che
incombe (chiamato meccanicisticamente distress esistenziale) attraverso la
soppressione del senso del tempo: il tempo è irrimediabilmente finito e si
soffre al punto da desiderare la morte, ma cosa si desidera?
Se in presenza della morte, invece di desiderare la vita si desiderasse la morte stessa
nel suo bene e si aprisse così per il mortale la dimensione temporale dell’Infinito, dato
che resta misterioso cosa sia il bene che si desidera nella morte e si produce
l’emozione nell’ignoto, perché togliere proprio ora la coscienza, il senso del tempo, la
possibilità di intuire il senso interno (Kant)? La risposta è naturalmente immediata:
perché si soffre troppo! Si può essere d’accordo ma purchè si distingua bene tra i
sintomi cosiddetti refrattari quando prevalgono quelli prevalentemente
“fisici”(dispnea, vomito, dolore) e quando quelli psichici prevalentemente (angoscia
del nulla o distress esistenziale e delirium). In altri termini, si potrà stabilire solo
attraverso un profondo dialogo empatico col malato e la sua famiglia se e quando è il
caso di allearsi con kronos ed evocare per far finire il tempo il suo migliore alleato di
sempre, il sonno, fratello di Thanatos, che come brillantemente ha detto Harald
Weinrich (10 ) nasconde il tempo, cioè non lo fa percepire. Altrimenti il dialogo
empatico (possibile ovviamente prima di aver provocato o che abbia prevalso il
sonno) potrà consentire a qualcuno degli attori (il malato e chi lo assiste) di cogliere al
volo l’attimo fuggente, il kairos, colmo di infinito di chi è posto di fronte alla morte
quando essa resta l’unico possibile desiderio del bene.
Sono quegli atti attimi quasi mistici indimenticabili e insostituibili in cui prevale il
tempo infinito e che coloro che assistono i morenti con qualunque ruolo possono
vivere sperimentando le possibilità che si producono quando si segue il suggerimento
di Levinas (11), consistente nel considerare la morte dal punto di vista del tempo e
non il tempo dal punto di vista della morte. Significa che in questi istanti il tempo
infinito subordina il tempo finito e le Cure palliative evidenziano una potenzialità
inespressa subordinando la morte, cioè la fine del tempo, a ciò che è infinito perché
trascende il finito, cioè perché non solo non finisce ma è “nel” finito.

Esempi
1. Nello smettere di sperare nella guarigione per l’aggravarsi delle sue condizioni
il malato ha cominciato a desiderare di morire e quando i suoi sintomi sono
diventati refrattari gli è stata proposta la sedazione. E’ cominciata allora una
lunga fase di indecisione durante la quale è stato chiaro che era proprio il
desiderio di morire per smettere di soffrire il desiderio al quale il malato
avrebbe dovuto rinunciare con la sedazione determinando la sua indecisione.
Non avrebbe probabilmente mai deciso se un medico, non resistendo
all’apertura del tempo sull’infinito di un dialogo empatico senza fine, non
avesse fatto la sedazione in un momento in cui la lucidità del paziente si è
abbassata per l’aggravarsi delle condizioni cliniche.
2.Tutti i pazienti (pochissimi nel nostro contesto culturale) che nel momento in cui le
condizioni si aggravano e nasce in loro il desiderio che la morte arrivi presto per non
soffrire insopportabilmente, cercano qualcuno (sacerdoti, psicologi, medici o amici)
che sappia rispondere alle domande che il mistero della morte pone.
Sulla base delle riflessioni fatte fin qui, si intravvede una evoluzione auspicabile
delle Cure Palliative: se riescono tramite l’empatia ad essere “prima” di tutto un porsi
di chi cura di fronte al malato assumendosi la responsabilità di aiutarlo prima e a
prescindere dal contenuto delle sue volontà, intenzioni, aspettative o preferenze, cioè
cominciando col far prevalere il tempo infinito sul tempo finito e sul tempo indefinito.
Significa, in altri termini , cominciare ad affrontare la cura del malato in termini di
domande, ricerca e desideri, invece che il termini di bisogni oggettivi (in cui il tempo
è definito dall’efficienza della tecnica) o soggettivi (in cui il tempo resta indefinito in
base ai futuri progressi scientifici). In tal modo tutte le potenzialità della Cure
palliative saranno esplicate senza doversi affidare soltanto alle conoscenze tecniche
attuali o future ma senza affatto escluderle, poiché ora l’occasione istantanea da
cogliere al volo, il kairos, sarà pur sempre un’occasione opportuna a soddisfare i
bisogni oggettivi e soggettivi del malato, ma potrà guardare oltre i limiti della
casualità e fortuna della scoperta scientifica o dell’arbitrarietà delle scelte soggettive
(preferenze), avendo sempre da esplorare il mistero del desiderio di vivere e del
desiderio di morire e quello dell’altro che, soffrendo per il malato lo può condurre
oltre la propria bisognosità tenendo aperta la dimensione infinita del desiderio.

Nei due casi citati sopra avrebbe significato:
1. Invece di aspettare che la decisione del paziente facesse prevalere il desiderio
di vivere o quello di morire, il medico starebbe di fronte a lui assumendosi la
responsabilità di parlargli perché la decisione “giusta” si produca da sola, e se
anche non si riuscirà a produrla perché la morte arriverà, la fine del tempo
sarà piena del mistero di quanto si sarebbe potuto escogitare, cioè del tempo
(oramai) infinito necessario a farlo e del desiderio infinito di quanto sarebbe
stato bello riuscirci;
2. Nessuno sa o può rispondere alle domande che il mistero della morte pone,
eppure quanto è bello morire cercando di svelarlo insieme a qualcuno che è
ispirato dalla saggezza dell’amore?!

 

Bibliografia
1. Weinrich, Il tempo stringe, trad. it, Il Mulino, Bologna, 2006.
2. Aristotele, Fisica, Iv, trad. it, a cura di Marcello Zanatta, Utet, 1999.
3. Kant, Critica della ragion pura, trad. it, Laterza, Bari, 1965.
4. Levinas, Dio, la morte e il tempo, trad.it, Jaca Book, Milano, 1996.
5. Agostino, Le confessioni, a cura di Antonio Marzullo (traduzione) e di V. Foà
Guazzoni, Zanichelli editore, Bologna, 1968.
6. Ippocrate, in H. Weinrich, op. cit.
7. Campione, La domanda che vola (Educare i bambini alla morte e al lutto),
EDB, Bologna, 2012.
8. Levinas, Dio, la morte e il tempo, op. cit.
9. Weinrich, Il tempo stringe, op. cit.
10. Levinas, Dio, la morte e il tempo, op. cit.
(Blog Finito e Infinito di Francesco Campione, 10 Maggio, 2017,
https://francescocampione.wordpress.com/2017/05/10/la-dimensione-del-temponelle-
cure-palliative/).

L’autore

Francesco Campione 

Tanatologo, Presidente Associazione Rivivere e Docente di Psicologia clinica e Psicologia della perdita e del lutto all’Università di Bologna