PERCHE’ LA MORTE TORNI AD ESSERE VINTA

Di Francesco Campione

Alcune riflessioni su un articolo di Massimo Recalcati (La Repubblica, 2 novembre 2019)

Vi si sostiene che la cura (medica) deve tornare ad essere “materna” anche di fronte alla morte, in modo da impedire che prosegua l’andazzo attuale secondo cui “viviamo schiavi di un ideale igienico sanitario che sembra un regime totalitario.Siamo trattati come numeri in nome dei numeri”. E fin qui possiamo essere tutti d’accordo. Recalcati però ne trae una conseguenza che fa riflettere  quando afferma che di fronte alla morte: “L’umanizzazione della cura significa non sostenere la vita come principio astratto e impersonale, ma ricordare che ogni vita è una,singolare e insostituibile;che ogni vita ha diritto a vivere e a morire a suo modo”.

Sarebbe più corretto in questi termini dire che all’oggettivazione statistica della cura biologica Recalcati oppone la -personalizzazione- di essa e non l’ -umanizzazione-. Se è vero, infatti che “la vita è una,singolare e insostituibile”(cioè qualcosa di personale) ,non basta per definire l’umano fare la somma delle vite individuali,dato che posti gli uni di fronte agli altri i singoli scoprono di poter andare al di là di ciò che è unico e insostituibile verso qualcosa che si stabilisce solo  quando sono “tra” loro,qualcosa che creano stando insieme(le domande che si pongono l’un l’altro, i desideri che si comunicano,la ricerca di un bene comune,etc.).In quest’ultimo senso, l’umanità è qualcosa di più dell’unicità e insostituibilità individuale ma quanto la riconosce e la fonda:non sarebbe ridicolo chi si ritenesse unico e insostituibile da sè, senza aspettare che fossero gli altri a ritenerlo tale?

Potremmo quindi dire che ognuno ha il diritto di vivere e morire a suo modo,ma non può realizzare questo diritto senza l’aiuto degli altri per vivere o per morire.

Recalcati ne è consapevole quando evoca la responsabilità degli altri di fronte alla sofferenza e alla morte altrui:”Ovunque vi sia responsabilità di fronte al grido di chi soffre è in atto un’esperienza di umanizzazione della cura.Rispondere al grido è saper restare vicini a chi è ferito e vulnerabile…Una cura che sa essere umana è una cura che non lascia solo chi soffre senza però nutrirlo con l’onnipotenza illusoria di una terapia priva di limiti che lo sviluppo prodigioso della tecnologia rischia di alimentare”.

Se ci limitiamo alla morte( ma si potrebbero fare considerazioni analoghe sulla vita),si può dire che Recalcati sembra seguire alla lettera la lezione Freudiana(“Al di là del principio del piacere”) per cui ogni vivente tende a tornare allo stato inorganico da cui proviene(che è buona cosa perchè cessano le tensioni senza fine del vivere,il frastuono dell’eros), e l’uomo è il vivente che più di tutti gli altri viventi può farlo( grazie alla coscienza) a suo modo.Come molti psicoanalisti però anche Recalcati calca un pò troppo la mano sull’aspetto della libertà di scegliere il modo di morire sottovalutando un pò l’aspetto dell’inevitabile necessità di morire. Ed è per questo che poi gli diventa inevitabile limitare il diritto di morire come ognuno vuole quando afferma che una cura è umana quando non si limita a promuovere la libertà individuale ma nel non lasciare solo chi soffre non incoraggia “l’onnipotenza illusoria di una terapia priva di limiti”.

Per quanti di noi ,ci chiediamo, scegliere il proprio modo di morire non significa proprio illudersi di poter vincere la morte? In questi casi il diritto di essere unici e insostituibili è forse sospeso per l’irragionevole impossibilità del desiderio che lo caratterizza?

Non è forse specifico dell’umano cercare di rendere possibile l’impossibile rischiando continuamente la follia della fuga dalla realtà per scoprire talvolta proprio “sognando” l’impossibile che ci sono modi per ottenerlo in modo indiretto?

Il diritto di morire a proprio modo si può realizzare quando il proprio modo di morire è  di “non morire?”

Volgendo la questione in termini  leggermente più “filosofici”,si può dire che Recalcati sembra seguire una delle tradizioni del pensiero tanatologico: quella per la quale la morte è una necessità a cui bisogna arrendersi ,salvo poi riuscire a “personalizzarla”.

Tutti coloro che pensano alla morte come ad una necessità la pensano come tragica in quanto annulla vita,mette fine a qualcosa di buono sostituendovi il nulla.

Anche costoro sono costretti però a trovare “qualcosa di buono” nel morire per non soccombere all’angoscia del nulla:

Freud vi vede la cessazione delle tensioni(Nirvana)che rendono l’uomo infelice e per rafforzare il suo argomento di fronte a chi non vorrebbe morire gli promette il “beneficio” di un proprio modo di morire(realizzare se stessi nel morire);

Heidegger rafforza potentemente la “personalizzazione” della morte concependola come un annullamento che angoscia ma fornendo una via per superare l’angoscia:la morte è la possibilità più propria dell’uomo(che è essere-per -la- morte,essere proiettati verso questa possibilità di non essere più al mondo) e pensandola solo come mera possibilità attraverso l’anticipazione( vivere come se ogni istante fosse l’ultimo ) si fondano tutte le altre possibilità e si vive,ciascuno, in ogni istante la totalità dell’essere.

Ma c’è anche un’altra tradizione filosofica secondo la quale la morte può essere vinta pensandola come sempre come tragica ma non perchè  ha il potere di annullare la vita. Di questa tradizione si nutrono molte religioni e c’è una versione “atea”contemporanea di questa alternativa i cui rappresentanti più noti sono: Karl Kraus, Elias Canetti e Emmanuel Levinas.

Dirò brevemente di quest’ultimo che è il più “filosofo” dei tre.

Per Levinas(Dio ,la morte e il tempo) la morte non è essenzialmente qualcosa di proprio del singolo e di isolante dagli altri perchè va sempre considerata “in presenza d’altri”.Allora la morte non è più la fine del tempo, ma solo la fine del “mio” tempo e io morendo posso pensare la mia morte come la tragedia dell’altro a cui vengo a mancare,così come la morte dell’altro posso pensarla come l’ingiustizia di morire prima di me o come la mia impotenza del non essere riuscito a salvarlo. Ora la morte non è più qualcosa di individuale che deve necessariamente portare all’angoscia poichè ora possiamo considerarla una fine del tempo che non mette fine al tempo infinito. Con la conseguenza che chi muore può morire per chi resta e chi resta può vivere per chi non c’è più.Non posso salvarmi, ma non è segno di onnipotenza cercare  di morire “per” chi resta, in modo da “fecondare” la vita di chi resta;non posso salvare il mio caro ma non è segno di onnipotenza cercare di “sostituirsi” a chi è morto vivendo anche per lui o lei,mostrando che, “umanamente”,solo chi è vivo è insostituibile mentre chi è morto muore  del tutto proprio quando nessuno si sostituisce a lui in vita vivendo anche per lui o lei.

Nel morire ora ci si potrà prendere cura l’un l’altro insieme:chi muore cercando di morire per l’altro rendendo più feconda la sua vita;chi resta cercando di dire amandolo a chi muore che vivrà anche per lui o lei. Prendersi cura di chi muore,in altri termini, ora non consisterà in primo luogo nel  garantirgli il rispetto del suo diritto di morire a suo modo, sia che significhi accettarne (realisticamente )o rifiutarne(onnipotentemente) la necessità.Ma questo obiettivo sarà subordinato a ciò che lo rende possibile:la presenza dell’altro che consente a chi muore di morire per chi resta e a chi resta di vivere per chi è morto.

Ora sarà più facilmente possibile evitare il rischio che paventa chi,come Recalcati,teme che “…ogni volta  che l’altro si prodiga per fare il nostro bene c’è sempre in agguato il rischio di perdere la nostra libertà”.

Ora,infatti, la responsabilità di chi cura non si concepisce come una risposta sicura di sapere qual’è il modo di salvaguardare da dignità di chi soffre perchè pensa di condividere con lui o lei il valore dell’unicità e insostituibilità.Ora  la responsabilità di chi muore verso chi resta e di chi resta verso chi muore sarà un’espressione di non-indifferenza(non-indifferenza per chi muore da parte di chi resta e di  chi resta da parte di chi muore) che è disinteressata, cioè che non ha bisogno di condividere le ragioni che rendono degna la loro vita di essere vissuta:un dono gratuito di sè nel morire perchè chi resta ne faccia ciò che ne vuole nella sua vita ,e nel sopravvivere un dono di sè a chi muore perchè intenda che qualcuno vivrà anche per chi muore senza voler niente in cambio.

Questa a mio modo di vedere è la vera “umanizzazione” delle cure, oltre i numeri che riducono a quantità anonima l’unicità e insostituibilità della persona,e anche oltre la personalizzazione che tende a ridurre la cura ad una  complicità tra persone con una stessa concezione della dignità o ad un conflitto tra persone con una concezione diversa.

(Già pubblicato sul blog Finito e Infinito, visitalo qua)

L’autore

Francesco Campione 

Tanatologo, Presidente Associazione Rivivere e Docente di Psicologia clinica e Psicologia della perdita e del lutto all’Università di Bologna