La vita, la paura e la fortuna ai tempi del coronavirus

di Francesco Campione

 

 Il tempo del coronavirus  che stiamo vivendo in questi giorni è  il tempo di un’epidemia che può diventare pandemia,contagio globale  che potrebbe mettere a rischio la vita di ogni  singolo abitante della Terra alimentando  al contempo in tutti, insieme ad altri fattori,  la paura della fine del mondo.

Partiamo da qui: le epidemie accompagnano da sempre la Storia umana con delle costanti che le accomunano e delle peculiarità che le distinguono l’una dall’altra.

Batteri e virus,sono sempre stati, come ha detto qualcuno,i veri padroni del mondo e hanno sempre cercato di diffondersi il più possibile invadendo tutto il globo,ma finora,per fortuna, non ci sono riusciti.

La peste che ha attraversato il Medioevo giungendo alle soglie dell’Età moderna è stata una pandemia ma è riuscita ad invadere il mondo lentamente, nel corso di alcuni secoli,mentre quella del coronavirus( e quelle che l’hanno preceduta e la seguiranno in questo millennio) potrebbe riuscirci,se le precauzioni messe in atto non funzioneranno,in pochi mesi.

La Peste più famosa e più globale ha avuto il suo esordio ,come il coronavirus, nella città cinese di Wuhan nel XIII secolo, ma veniva trasmessa dai topi mentre il coronavirus sembra sia stato trasmesso dai pipistrelli(topi con le ali) passando per i serpenti(nei quali sembra sia mutato ma ci sono altre ipotesi) ma nell’anno del topo.

Le epidemie si somigliano tutte nel modificare la vita dei singoli e il corso delle relazioni umane,ma è vero anche che sono tutte diverse ,dato che possono essere la vita dei singoli e le relazioni umane di un dato tempo storico a modificare il corso delle epidemie!

Il primo cambiamento che un’epidemia virale determina nella vita dei singoli  deriva dall’esigenza di separare coloro che non sono stati contagiati da coloro che sono stati infettati dal virus, per evitare che il contagio si estenda. Ciò mette a rischio o fa saltare del tutto l’appartenenza di ciascuno ad una famiglia o ad un clan istituendo criteri di appartenenza  più anonimi che prescindono dai legami interpersonali.

I cittadini di Wuhan vengono ora classificati in contagiati e non contagiati, a prescindere dalle loro identità personali e sociali , dai loro legami interpersonali e dai loro ruoli sociali. Ciò discende dal fatto che chiunque sia stato contagiato rappresenta una minaccia per chiunque altro sia ancora immune fosse pure sua madre, suo figlio,il suo amato, il suo medico,il suo paziente, il suo capo, il suo dipendente,etc.

 Con la separazione(1,pag.36) di tutti nelle due categorie anonime dei contagiati e degli immuni passano in secondo piano le peculiarità personali e umane. Rispettivamente: nessuno è più “unico” perché può solo appartenere a due categorie dentro le quali basta sapere di essere stati contagiati o di non essere stati infettati e non importa chi si è come persone come non importano le peculiarità irripetibili di ogni storia personale;non importa neanche essere umani,cioè  buoni od egoisti ,essere preoccupati per gli altri o solo per sé ,perchè si appartiene esclusivamente  ad una sola categoria dentro la quale tutti gli altri hanno lo stesso interesse,interesse determinato dagli scopi della separazione operata tra loro(cioè interesse a non essere contagiati o a non essere contagiosi).

Ecco la ragione del secondo importante cambiamento che un’epidemia determina nella vita dei singoli: ciascuno viene “ridotto” a caso clinico e di conseguenza viene inserito in una statistica ,la cui più eclatante conseguenza nel caso dell’epidemia in corso è questa: nel bollettino sull’andamento dell’epidemia che ogni giorno viene pubblicato è superfluo specificare “chi” è stato infettato e chi è morto,ma basta dire quanti sono i contagiati e quanti sono i morti. L’effetto perverso di questa apparente banalità è che l’epidemia sta andando bene o sta andando male  a seconda della rapidità con cui cresce il numero degli infettati e dei morti a prescindere da “chi” è stato infettato ed è morto. Se riflettiamo, ad esempio, sui numeri riguardanti la città di Wuhan che è l’epicentro dell’epidemia,essi ci dicono che ci sono molte migliaia di infettati , qualche migliaio di morti e molti più guariti che morti.

Significa che l’epidemia del coronavirus è a bassa mortalità(2-2,5% rispetto allo o virgola dell’influenza per ora) e ad alto tasso di guarigione,cioè che le cose stanno andando bene. Ma si potrebbe dire lo stesso dal punto di vista di chi  non è guarito ed è morto o da quello dei loro cari?

Ad ogni singola persona importa riuscire a salvarsi ,e non è consolante sapere che ne moriranno pochi per chi rischia di non farcela.

In sostanza, l’effetto principale che l’epidemia ha sulle singole persone è che, venendo tutti necessariamente  ridotti  a “casi”, moriranno o guariranno “a caso”,con maggiore o minore probabilità a seconda della virulenza del virus e della rapidità del contagio così come si determinerà anche in base alle sacrosante  misure sanitarie per bloccarlo.

Ne consegue necessariamente che avremo tanta più paura del contagio quanto più saremo consapevoli della possibilità meramente statistica, cioè probabilistica e casuale, di ammalarci e di guarire o morire.

Ecco perché le rassicurazioni della Scienza possono non bastare e la paura può diventare panico( ma ci torneremo), cioè perché sono necessariamente probabilistiche e suonano pressappoco così:

Non c’è nessuna certezza che il virus non ti raggiungerà ma il rischio può essere reso meno probabile statisticamente per tutti in generale e per nessuno in particolare(cioè senza poter indicare chi si salverà  o chi morirà ma potendo assicurare che se ne salveranno tantissimi,senz’altro molti di più di quelli che moriranno).

Ed ecco la ragione per seguirel’antropologo  B. Latour(2 ) quando dice che neanche noi moderni siamo moderni e forse non lo siamo mai stati.

 E’,ovviamente, vero,infatti, che contiamo sulla Scienza per combattere le epidemie e in questo siamo moderni, ma ,al tempo stesso, sappiamo che  quando l’epidemia cesserà ci troveremo dalla parte positiva della statistica, ci saremo salvati,se il caso ci avrà favoriti, cioè se saremo stati fortunati. Donde l’aumento esponenziale in tempi di epidemia delle pratiche propiziatorie della fortuna. Quando capiamo che la “prudenza non è mai troppa” e potrebbe non bastare cominciamo a pensare che ci salveremo personalmente  non solo se la Scienza farà il suo corso( questo riguarda l’epidemia in generale) ma soprattutto se saremo fortunati, e allora cominciamo a fare scongiuri, praticare rituali  propiziatori della fortuna di cui esiste un vasto repertorio  nei sotterranei e nell’inconscio collettivo di ogni cultura. Quella cinese e una delle culture più ricche in tal senso e si può immaginare che i cittadini di Wuhan chiusi nelle loro case oltre che sperare nella Scienza stanno ricorrendo al Feng shui, ai gatti della fortuna,alle candele propiziatorie e quant’altro  possa alimentare il loro desiderio che vada bene a ciascuno di loro in particolare e ai loro cari grazie ai favori della fortuna. E in Italia, credete che non ci sia nessuno che ,per sapere se si salverà consulta oroscopi o fa gli scongiuri e i  rituali propri della propria cultura per seguire la filosofia diffusa per cui, come diceva Eduardo De Filippo,napoletano verace,”essere superstiziosi è da ignoranti , ma non esserlo porta male”?

 Noterò en passant che talvolta sono proprio le usanze propiziatorie della fortuna e della prosperità che hanno effetti paradossali invece che solo rassicuranti come di solito hanno. Così come nell’essere impegnati ad evitare il male affidandoci alla Scienza possiamo dimenticare di continuare a desiderare il bene,nel propiziare la fortuna la pratica che usiamo per riuscirci può farci desiderare il bene a tal punto da nascondercene i rischi.

Sembra, ad esempio, che siano state proprio le zuppe di pipistrello che i cinesi mangiano durante il capodanno per garantire “prosperità e fortuna” all’anno  nuovo ,ad aver provocato, a causa della macellazione manuale dei pipistrelli al mercato di Wuhan,il passaggio del coronavirus dall’animale all’uomo( forse con l’intermediazione del serpente, cosa che,nel nostro contesto culturale,  potrebbe far pensare che il diavolo  c’ha messo la coda).

L’ironia della cosa raggiungerebbe il suo massimo se fosse vero, come si vocifera,che in effetti la zuppa di pipistrello funziona, dato che uno di quelli che l’ha consumata a Wuhan era un imprenditore che produceva mascherine ed è diventato ricco con l’epidemia.

Quanto ai cambiamenti che l’epidemia in atto determina sulle relazioni umane,mi limiterò per il momento( promettendo di tornarci più avanti ) ad indicare il più importante e decisivo: incontrando gli altri in tempi di  epidemia  anche noi cercheremo di classificarli,come fanno i medici,in infetti e non infetti, in modo da distinguere coloro che ci fanno rischiare un contagio e sono “pericolosi” da coloro che sono “sicuri”.Ne deriverà una sorta di “superficializzazione” delle relazioni umane con la conseguenza di far sembrare ingenui tutti i suggerimenti di “non discriminare” proprio quando siamo impegnati a “discriminare”.Ancora più ingenui appariranno i suggerimenti “buonisti” come quello del teologo Vito Mancuso che ha invitato gli italiani, per contrastarne la discriminazione pregiudiziale, a fare  un sorriso ai cinesi che incontrano per strada.  Se mentre lo incrociamo il cinese tossisce e siamo troppo vicini( a meno di due metri) aprire la bocca per sorridergli potrebbe rendere più probabile un contagio qualora  fosse uno di quei turisti partiti dalla Cina per le vacanze di capodanno senza sapere di essere malato e infetto. Sarebbe allora sicuramente preferibile reagire come ha fatto, a detta di qualcuno, l’avvocato napoletano Francesco Bile,il quale, trovandosi in fila nel traffico bloccato della sua città ha mandato in giro  un Whatsapp col quale offriva in affitto per una modica cifra un “cinese con la tosse” per liberare Napoli una volta per tutte dalle code insopportabili che  opprimono i napoletani.

Scherzi a parte(che servono tra l’altro,per sdrammatizzare quando non si sa cosa fare di fronte al male), bisogna imparare a discriminare ,in tempo di epidemie, tra le discriminazioni basate sui pregiudizi (per cui,ad esempio, un cinese è un”pericolo giallo” giallo anche se non è mai stato contagiato dal coronavirus) e le discriminazioni basate su  dati oggettivi (per cui di qualunque razza siano coloro che incontriamo bisogna discernere se la loro tosse è infettiva oppure no:potenza assoluta delle epidemie nel renderci tutti uguali!). Vedremo più avanti che le discriminazioni basate sui pregiudizi sono quelle operate senza dati oggettivi e sono alla base delle paranoie che ogni epidemia provoca quando nel giudicare qualcuno come pericoloso non ci basiamo su una conoscenza dell’altro ma solo sul nostro terrore di ammalarci che può sorgere anche ipocondriacamente cioè  per le ragioni psicologiche più varie e più irrazionali.

Oltre agli effetti delle epidemie sulla vita dei singoli e sulle relazioni sociali,bisognerebbe analizzare,come abbiamo già notato, gli effetti opposti, cioè quelli che la vita dei singoli e il corso delle relazioni sociali hanno sulle epidemie nel momento storico in cui si manifestano.

Anche questi effetti sono sotto gli occhi di tutti. Ecco i principali:

1.Il rischio che l’epidemia di coronavirus si diffonda rapidamente interessando un gran numero di persone  o addirittura diventando una pandemia ,è un effetto del fatto che oramai si vive( in Cina ovviamente più che altrove) in grandi agglomerati urbani  e del fatto che continuamente ci si sposta per turismo ,per studio o per affari.

Tanto è vero che  frenare il diffondersi del coronavirus sta avendo in Cina il significato di “abolire” la città di Wuhan con i suoi 11 milioni di abitanti,dividendoli  in due parti separate : da una parte, rendendo ogni abitazione di coloro che sono ancora  immuni dal virus una specie di rifugio quasi isolato,  e,dall’altra, ammassando i contagiati,man mano che si ammalano, negli ospedali o   in altre strutture dedicate alla cura. Con la conseguenza che  Wuhan ora non è più una città ma un insieme di abitazioni singole per gli immuni  che i medici  e i militari separano dalle strutture dedicate alla cura in cui confluiscono i malati man mano che si ammalano ,per poi tornare a casa man mano che guariscono. La vita degli abitanti di Wuhan continuerà a permanere in questa situazione finchè  i malati non diminuiranno e i guariti non ridurranno a zero i morti. I medici  studieranno i farmaci antivirali(provando quelli esistenti o mettendone a punto di nuovi)   e cercheranno di mettere a punto un vaccino efficace, e finchè non ci riusciranno sarà l’esercito a tenere separate le due Wuhan e a regolare il transito dall’una all’altra. Tutto questo sarebbe inutile se contemporaneamente non si fosse isolata tutta  Wuhan  dal resto della Cina e la Cina  dal resto del  mondo.

2.Gli effetti delle epidemie cambiano  a seconda della vita reale che si sta svolgendo nel posto in cui insorgono. Altra cosa è se l’epidemia si verifica in tempo di pace o in tempo di guerra,se interessa individui o popoli  felici o infelici,poveri o ricchi,o che sia semplicemente una vita business as usual.

Le reazioni ,individuali e collettive, alle epidemie dipendono dall’esistenza concreta nella quale si viene sorpresi. E in questo tutte le epidemie si somigliano. Manzoni  descrive riassuntivamente  così nel XXXI capitolo dei  “Promessi sposi” (3)le caratteristiche e  le fasi della peste di Milano del XVII:

“In principio dunque,non peste, assolutamente no,per nessun conto:proibito anche di proferire il vocabolo. Poi febbri pestilenziali:l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo .Poi non vera peste;vale a dire peste sì ma in un certo senso;non peste proprio,ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome .Finalmente peste senza dubbio e senza contrasto:ma già ci s’è attaccata un’altra idea,l’idea del venefizio e del malefizio,la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro.

Non è certo necessario esser molto versato nella storia delle idee e delle parole,per vedere che molte hanno fatto un simil corso. Per grazie del cielo che non sono molte quelle d’una tal sorte, e d’una tale importanza,e che conquistino la loro evidenza a un tal prezzo,e alle quali si possano attaccare accessori d’un tal genere. Si potrebbe,però, tanto nelle cose piccole come nelle grandi, evitare,in gran parte,quel corso così lungo e così storto,prendendo il metodo proposto da tanto tempo,d’osservare, ascoltare, paragonare,pensare, prima di parlare”.

Al tempo della peste di Milano a cui si riferisce  Manzoni non si ammette subito che c’è la peste e i medici (Alessandro Tadino e Lodovico Settala) che parlavano   del contagio vengono fatti oggetto di una certa ostilità,perché le autorità hanno altre preoccupazioni:c’è una guerra in corso!

E perché credete che le autorità cinesi hanno messo in galera il medico che per primo aveva dato la notizia del contagio da coronavirus? Non c’era, e c’è,la guerra dei dazi tra Cina e USA?  

E non è così anche ora anche su l’altro aspetto sollevato da Manzoni?

Non si tende a parlare del coronavirus prima di pensare,al di là dei fatti, e non è stato da subito “inquinato” in concetto di epidemia virale con i sospetti che il coronavirus sia un sottoprodotto non controllato della guerra batteriologica, ritardando così la presa d’atto  dell’epidemia  col mascheramento della probabile causa  intenzionale?

Cosa cambia per coloro che si infettano e muoiono se la causa è voluta o non voluta?  Quello che conta non è innanzi tutto prendere atto dell’epidemia  e fare qualcosa subito e non invece tentare di minimizzarla per coprire una colpa?

Facciamo un passo avanti a partire dalle ultime considerazioni: se pensiamo alle epidemie dopo aver ponderato e non parliamo di esse solo per parlarne o per coprire colpe di altro genere(come accade quando sene parla per colpire gli avversari politici),apparirà evidente che esse, le epidemie ,come abbiamo già notato,scoppiano in continuazione e accompagnano da sempre la storia umana.

 Si tratta quindi di emergenze alle quali possiamo prepararci per non farci trovare impreparati se ci si può fare qualcosa a partire dall’esperienza, oppure dobbiamo prepararci ad essere impreparati, dato che potrebbe trattarsi di emergenze portatrici di qualcosa di nuovo(un nuovo virus risultato di una mutazione ) che ancora non conosciamo.

Qualche risposta la diamo già sulla paura che durante le epidemie si diffonde in modo più virale di qualsiasi virus, facendo dire ad alcuni che  se vogliamo gestire bene un’epidemia dobbiamo innanzitutto gestire bene la paura che essa determina. La paura,ad esempio, può farci sembrare l’epidemia un pericolo globale probabile e  imminente, qualcosa che in realtà non sappiamo ,più o meno, se lo è oppure no. Nel caso del coronavirus, non sappiamo se diventerà o meno una pandemia ma solo che potrebbe diventarlo nelle condizioni date se non riusciamo a fermarla;così come non sappiamo se saremo tra quelli che si ammaleranno,che si ammaleranno o guariranno o si ammaleranno e moriranno. Allora sarà meglio non pensarci per eliminare la paura o cercare rassicurazioni “certe” per non farsi prendere dal panico? Oppure prendere tutte le precauzioni possibili di fronte al destino incerto che ci attende e,contemporaneamente,alimentare mitologie,fare tutti gli scongiuri,  tutti i gesti rituali e scaramantici per evitare il peggio o per propiziare la fortuna?

Ecco che appare evidente come anche di fronte alle epidemie abbiamo le stesse alternative che abbiamo visto esserci di fronte alla paura della fine del mondo(d’altra parte, è logico,dato che le epidemie passibili di trasformarsi in pandemie sono una delle fonti da cui origina la paura della fine del mondo):

I.Seguire i dettami della Scienza e valorizzare i segnali che fanno pensare ad una risoluzione positiva dell’epidemia da coronavirus simile a quelle delle passate epidemie ;

II.Distrarsi dedicandosi ai “giochi” , alle preoccupazioni e agli affari che ci stanno impegnando nella quotidianità;

III. Seguire la Scienza e avere fiducia in essa , al tempo stesso  coltivando le “mitologie” culturali in grado di farci dare un senso “metafisico” all’epidemia,e potendo,di conseguenza,propiziare la fortuna con i mezzi di sempre(i rituali) senza avere problemi nello scoprire che noi moderni,come abbiamo visto citando Latour(4) , non siamo mai stati moderni.( o non siamo mai stati solo moderni).

Per comprendere  cosa sta accadendo e cosa bisognerebbe fare accadere,rispetto a queste alternative,bisogna innanzitutto distinguere due dimensioni della paura:

la scienza della paura e la politica della paura.

 Entrambe le dimensioni sono cruciali allorchè un rischio grave suscita paura tra gli umani e “dentro” ciascuno di loro.

Per quanto concerne la Scienza della paura, essa è duplice: per le scienze naturali la paura è la reazione fisiologica della biologia di fronte ad un rischio;per le Scienze umane(Psicologia, sociologia, antropologia) la paura è sempre una reazione al rischio  che non è  solo biologica, in quanto influenzata anche dalle identità personali,dalle strategie sociali e dalle concezioni del mondo.

Riferendoci ora più specificamente al rischio dell’epidemia che è quello del contagio,esso suscita paure diffuse ma differenziabili in tre categorie precise:

1.Paure che “possono” diventare panico  determinando gli effetti “illogici” del panico, ma che si considerano “gestibili” sia prevenendo il panico, sia riducendolo o spegnendolo quando si verifica;

2.paure che traumatizzano e sfociano necessariamente nel panico provocando effetti destrutturanti nella logica dei comportamenti umani(con perdita del controllo)e che si considerano “ingestibili”;

3.paure che non si  ignora se sfoceranno o meno nel panico o se resteranno contenute limitandosi a determinare effetti inquietanti sul piano esistenziale ,ma considerate paure con cui si può convivere con conseguenze esistenziali disturbanti ma altrettanto vivibili.

Le politiche della paura adottate di fronte alle paura suscitate dal coronavirus  saranno più o meno adeguate a seconda di quale di queste concezioni della paura prevarrà.

Se prevale l’ approccio scientifico, la paura sarà stata considerata gestibile sia nel poterla prevenire per non far impazzire e rendere incontrollabili le situazioni,sia,in misura minore, nel poterne attenuare od eliminare il panico che potrebbe derivarne.

Il limite di questa politica scientifica della paura sta nel presupporre a priori di poter riuscire(tramite le rassicurazioni che la Scienza può dare basandosi sulle conoscenze acquisite e su quelle da acquisire attraverso la ricerca in corso) ad impedire che la paura si trasformi in panico o che il panico in atto possa far impazzire le situazioni. Il pregiudizio che limita l’approccio scientifico è più o meno fondato e si basa sulla “forza” degli Stati ,dato che, in assenza di una efficace rassicurazione scientifica ottenuta tramite l’informazione veritiera dei saperi che impedisca il panico o lo freni,ogni Stato sa di poter limitare l’informazione sull’epidemia o costringere con la forza gli “appestati” e i loro eventuali alleati a non mettere in atto comportamenti  “illogici” e pericolosi per sé e per gli altri. Ca va sans dire che in questi casi le dittature avrebbero una marcia in più rispetto alle democrazie,come sta dimostrando la Cina che certo non è una democrazia e come dimostrerebbero gli esiti di una politica che dovesse mettere in quarantena i cittadini di Londra o di Roma! Ne abbiamo avuto un assaggio nella cronaca dal Giappone, allorchè due cittadini giapponesi sfollati dalla Cina si sono rifiutati di sottoporsi al test del coronavirus, in base alla legge Giapponese secondo cui per essere sottoposti ad un esame bisogna avere il consenso dei soggetti( e non è così anche in Italia?).

Se invece prevale il secondo tipo di paura(la paura del panico incontrollabile,molto presente anche questa dappertutto con varia distribuzione),la politica della paura che appare più adeguata consiste nell’approntare di fronte al coronavirus mezzi di distrazione di massa il più possibile efficaci( Il Festival di S. Remo ne è un esempio italiano),per impedire che la paura si trasformi in panico con conseguenze  pensate come devastanti e senza rimedio. Si tratterebbe in fondo di una politica della paura del contagio che confida nel non farla sentire:

 -perché dominata da altre paure della vita corrente(ad esempio per le bollette da pagare o per l’infelicità della vita quotidiana o per le ingiustizie sociali) ;

 -perché dominata dall’effetto di gratificazioni vere o virtuali( il “gioco” nelle sue più ampie accezioni,compreso il turismo che è il “gioco” di spostarsi per vedere il mondo da prospettive distanti dalla propria e sempre diverse);

-perché dominata dagli effetti delle droghe che modificano gli stati di coscienza(abbassando, ad esempio, l’ansia fumando nicotina o erba e bevendo alcolici).

Anche queste politiche della paura possono incontrare il loro limite nel fatto che, determinando assuefazione, diventano  sempre meno efficaci e bisogna incrementarne l’uso  svelandone  così gli effetti collaterali distruttivi. Ma anche di fronte a questo limite gli Stati potranno intervenire per limitare forzosamente l’uso delle droghe e/o rilanciando con distrazioni più potenti  come “il gioco della guerra” che trasforma le paure incontrollate dell’epidemia  in paura del nemico che  inorgoglisce e permette di sfidare il rischio di morte senza cadere nel panico anche a coloro che vi cadrebbero di fronte all’impotenza umiliante del rischio virale. Senza trascurare l’alleanza con la psichiatria che può usare le droghe come farmaci quando neanche la guerra riesce a distrarre dalla paura impotente del contagio.

Le politiche della paura più coerenti col terzo tipo di paura del contagio come “incerto” nei suoi effetti(quelle di cui si ignora se sfoceranno o meno nel panico e con cui si dovrà imparare a convivere finchè non si vincerà l’epidemia e fino alla prossima) sono le più difficili da realizzare e sono suscettibili di mettere in crisi le società umane di fronte alle epidemie gravi.

Solo dopo che un’epidemia è stata debellata   si saprà se si tratta di un’epidemia debellabile. Sappiamo solo che finora nessuna epidemia è stata in grado di uccidere tutti viventi che ci interessano e gli altri viventi che ci sono indispensabili per vivere, senza considerare che potrebbero sopravvivere solo batteri e virus che sono microorganismi viventi  o al massimo replicanti. Non sappiamo ancora però se l’epidemia di coronavirus diventerà una pandemia in grado di ucciderci tutti o se sarà meno grave perché resterà sostanzialmente limitata alla Cina;come non sappiamo ancora se ci sarà nel futuro una pandemia incontrollabile attraverso cui i virus diventeranno  i padroni assoluti del mondo in grado di decidere quali viventi far vivere per parassitarli e quali far morire finendo per suicidarsi.

Le politiche da opporre a questo tipo di paura “incerta” con cui convivere potranno essere “educative”,volte cioè a pensare che possiamo solo immaginare che un contagio sia incontrollabile e trasformi la paura in un panico irreversibile e folle. Sarebbe utile un’educazione al valore positivo dell’incertezza come fonte della speranza che le cose possano andare bene anche se non ne potremo essere mai certi. Educati in tal modo all’incertezza positiva  faremmo tutto ciò che dice la Scienza ma senza mitizzarla come una specie di onniscienza in grado di rassicurarci definitivamente e,al contempo, potremmo seguire ,senza farcene dominare come accade col panico,la “follia” di pensare che se facciamo qualche scongiuro ci salveremo.

Il limite di questa strategia consistente nell’essere al tempo stesso moderni(  seguendo  la Scienza) e non moderni(  cercando di propiziare la fortuna) è dato nella nostra cultura da ciò che gli psicoanalisti chiamano “pulsione securitaria” ma che più correttamente dovrebbe essere indicato come  “il mito della sicurezza”.Come dice Recalcati in un suo recente articolo(5) dedicato proprio alla “mente di fronte al virus”:

“In Massa e potere Elias Canetti esordisce riflettendo sull’atavico timore dell’uomo di esser toccato dall’ignoto. Dovunque l’essere umano evita di essere toccato da ciò che gli appare estraneo. Questo timore del contatto può raggiungere il vertice del panico quando si avverte l’impossibilità della presa di distanza e della fuga….L’epidemia è una figura…della paura umana del contatto…. ”.

La difesa umana di fronte a questa paura sarebbe per Freud  aggiunge Recalcati:” ..una pulsione primaria dell’essere umano:erigere barriere di fronte al carattere ostile del mondo…è un moto fondamentale della vita che si difende dal carattere ingovernabile della vita stessa”

Si tratterebbe di una pulsione securitaria,cioè di una specie di   istinto alla sicurezza che difende la vita contro la minaccia della morte respingendo tutto ciò che è ignoto od estraneo e spiegando così perché si assimili l’ignoto al male e non si scorga il carattere positivo dell’incertezza come unica fonte di speranza allorchè si ignora come andranno le cose nel futuro.

In realtà ipotizzando l’esistenza di un istinto a rifiutare l’ignoto come fonte di ogni insicurezza,non si rischia di fare altro che “tradurre” in termini psicologici qualcosa che è biologico(la reazione di difesa ,“immunitaria”, verso ciò che è estraneo rispetto a sé) come se si trattasse di qualcosa che passando dalla natura alla cultura(dal biologico, al personale, all’umano)non subisse alcuna trasformazione qualitativa, ma restasse una “pulsione”,un istinto a difendersi dal contatto con ciò che è ignoto. In realtà  ci si può difendere immunitariamente solo da ciò che è noto altrimenti si rischierebbe di rifiutare qualcosa di buono (come accade  per gli anticorpi verso se stessi che portano alle malattie cosiddette autoimmuni). E biologicamente è così: l’estraneo non è ignoto ma è reso noto paragonandolo a sé,è noto perché non è sé(non-io, lo chiamano gli immunologi). Se nell’ignoto non ci fosse la possibilità di incontrare il bene, l’uomo sarebbe schiavo per sempre dei suoi bisogni biologici e non potrebbe culturalmente elevare la vita biologica verso i cieli della vita personale e sociale, come fa creando continuamente mondi che travalicano la sua bisognosità biologica e spesso la tradiscono.

Continuare a pensare ,come suggeriscono la biologia e le psicologie “biologiche” compresa la psicoanalisi,l’obbiettivo universale della sicurezza come la “meta” di un istinto(una pulsione),significa dimenticare,come si fa per altri istinti,che, oltre a sentire il bisogno di colmare le insicurezze,da quando ne siamo consapevoli,possiamo solo passare da un grado di insicurezza ad un grado di insicurezza  minore,senza mai poter raggiungere un grado di sicurezza piena.

Ci illudiamo, ovviamente, ma poi la disillusione puntualmente arriva:ci illudiamo di essere completamente al sicuro nell’utero in compagnia della placenta,ma poi nasciamo e dobbiamo respirare autonomamente con tutti i rischi che ciò comporta; nasciamo e la mamma ci protegge e ci illudiamo che ci tenga sempre attaccati al suo seno o che il seno sia sempre pieno di latte,ma poi dobbiamo svezzarci,etc

Dal momento in cui acquistiamo questa consapevolezza,la sicurezza si trasforma da meta di un bisogno da soddisfare istintivamente  in  desiderio di un non ben definito desiderio infinito.

Ma donde scaturisce l’insicurezza?

Non siamo autosufficienti:per sopravvivere,per vivere bene e riprodurci(gli scopi biologici universali) abbiamo bisogno di altri esseri viventi come noi o diversi(microorganismi, piante, animali e uomini). E quando va bene gli altri esseri viventi ci ospitano nei loro ambienti per i loro scopi( le foreste nell’atmosfera ossigenata,gli animali nella zoosfera,le società nella vita regolata) o li ospitiamo per i nostri scopi(come  facciamo ,ad esempio,con la flora batterica intestinale).

Finiamo per essere,tutti i viventi,ospiti, nel duplice senso di ospiti(hosts) e ospitati(gests).Ed è nella misura in cui queste “ospitalità” funzionano che ,sopravviviamo, viviamo bene e ci riproduciamo.

Ma purtroppo i ruoli di ospite(host) e  quello di ospitato(gest) sono ruoli mobili, e continuamente le cose cambiano: da ospitati diventiamo parassiti che strumentalizzano l’ospite per i loro fini trasformandolo in parassitato,da ospiti diventiamo persecutori degli ospitati  che si sono trasformati in parassiti.

Noi uomini siamo sfortunatamente gli unici viventi che possono acquistare consapevolezza piena di questo cambiamento di ruoli e tocca a noi ripristinare l’armonia tra ospiti  tutte le volte che qualche ospite-amico  si trasforma in parassita trasformando il suo ospite in  parassitato-nemico.

Le culture umane si potrebbero considerare in gran parte una conseguenza complessa di questo compito che deriva dalla coscienza di sé  e del mondo che  caratterizza l’uomo.

Non ci resta allora che studiare gli ospitati per evitare che diventino parassiti,cioè che  da amici si trasformino in nemici. E’ così che abbiamo scoperto che ospitiamo in tutte le superfici e in tutte le cavità del nostro corpo miliardi di microrganismi con cui viviamo anche per tempi lunghi in perfetta armonia e utilità reciproca.

Frequentemente però, come avviene a tutti gli ospitati, i microrganismi  mutano la loro composizione  cambiando il loro  comportamento verso l’ospite.

E’  dal momento che ,ad esempio, un virus muta che può aver bisogno per riprodursi di far cambiare anche l’ospite, cioè noi, trasformandosi in un parassita pericoloso.

E’ così che  si rischiano le epidemie:il virus mutato( ad esempio il  nuovo corona virus che è una mutazione di quello della Sars,anch’esso un coronavirus)comincia a riprodursi negli ospiti senza potersi curare,non essendone consapevole, dei danni che procura loro(fondamentalmente una polmonite) e senza che sia possibile per gli ospiti riconoscerlo e ricondurlo immunitariamente alla condizione precedente di ospite(guest) gradito. Per poterci riuscire bisogna metter a punto un vaccino, cioè poter usare il  virus  stesso per potersi far infettare senza ammalarsi dopo averne attenuato la pericolosità(mortalità ed effetti collaterali) ,e così renderlo riconoscibile e difendersene immunitariamente ogni volta che  vi si rientri in contatto.

Anche con i vaccini, purtroppo, non tutto funziona sempre alla perfezione perché in alcuni casi, per fortuna  rari,il grado di pericolosità del virus attenuato che si usa come vaccino non si riduce abbastanza, e qualche effetto collaterale del vaccino fa danni a qualche vaccinato(ad esempio,a causa dell’antipolio ci si ammala di polio).

Comunque,quando si riesce a mettere a punto un vaccino si stabilisce il principio per cui l’ospite e l’ospitato ,pur non potendo evitare di entrare in contatto, si  possono salvare entrambi  riuscendo  ad evitare che l’ospitato si trasformi in parassita e l’ospite in parassitato grazie al fatto che ora il virus attenuato può installarsi nell’ospite senza ucciderlo e quindi trasformandosi da nemico da combattere in amico e alleato,cosa   che consente da ora in poi di incontrare gli altri virus dello stesso ceppo riconoscendoli e opponendovi efficaci difese immunitarie. Bisogna ovviamente riconoscere che tramite i vaccini si riesce ad indurre I virus(attenuandoli) a non riprodursi troppo e ad evitare che  parassitino  e uccidano gli ospiti di cui si nutrono. Ma ciò va anche a loro vantaggio, dato che un virus che fosse talmente virulento da riprodursi senza limitazioni ucciderebbe tutti gli organismi parassitati e in tal modo alla fine si suiciderebbe. I virus ovviamente non sanno niente(non essendone consapevoli) di tutto questo e è solo responsabilità dell’ospite umano che solo ne ha coscienza di ricercare un equilibrio tra gli interessi del virus e quelli dell’ospite che sia abbastanza  “giusto” per entrambi,cioè perché restino ospiti che si rispettano vivendo in pace e in armonia e non parassiti e parassitati  in guerra per la sopravvivenza.

Prima di concludere non possiamo rinunciare ad una piccola riflessione sull’idea dottamente  sostenuta( 6 ) che ogni “peste”( e quindi anche il coronavirus) sia una metafora in grado di avvicinarci al  misterioso senso ultimo delle cose(viventi e non viventi) che da sempre ci affanniamo a cercare.

Se le epidemie attuali( sars,ebola, Aids, febbre suina, coronavirus, etc.) fossero solo la peste moderna,in ciò che schematicamente abbiamo messo in evidenza si scorgerebbe un senso nuovo rispetto a quello di cui si è ritenuto fin qui la peste essere la metafora. Per Givone( 7 ) e i suoi illustri sostenitori( Omero, i tragici greci,Lucrezio, Boccaccio,Manzoni,Camus, Artaud,Defoe,Dostewski, Allan Poe,Leopardi,etc.), in definitiva la peste sarebbe una metafora del Male che ne evidenzia due principali significati:o quello di una punizione per una grave colpa da espiare o quello di un destino a cui bisogna sottomettersi.

E se, invece, l’epidemia, in quanto male che può rappresentare il Male in senso metafisico,l’idea del Male,avesse ,come abbiamo detto,il significato di un fallimento dell’ospitalità nell’universale interdipendenza degli esseri(viventi e non viventi) gli uni dagli altri?

Se così fosse, al posto della colpa dovremmo evocare l’impotenza e al posto del destino la pazienza responsabile.

Non siamo forse impotenti di fronte alla mutazione di un virus che dà luogo alla nascita di un virus sconosciuto da cui non possiamo difenderci immunitariamente e dobbiamo necessariamente ospitarlo facendoci parassitare e/o uccidere?

E cos ‘altro possiamo fare di fronte ad un’impotenza assoluta se non assumendoci la responsabilità di superarla prendendoci il tempo necessario per riuscirci,cadendo nel frattempo in un’insicurezza insuperabile di fronte alla quale non possiamo avere alcuna meta istintiva come se fosse una”pulsione securitaria” ma possiamo ancora nutrire un desiderio infinito di sicurezza che solo ci può rendere pazienti anche di fronte alla morte?

Dovremmo approfondire questo punto oltre le possibilità di questa occasione di riflessione,ma possiamo dare spazio al desiderio infinito di sicurezza chiedendoci cosa direbbe a questo punto un redivivo Karl Kraus.

Forse, Karl Kraus la butterebbe sul sociale e, pensando al film più premiato di questi giorni che s’intitola “Parasite” e mostra le  conseguenze nefaste dell’assenza di ospitalità che fa trionfare il parassitismo ,parlerebbe così:

“Chiunque siate e dovunque vi troviate, fate in modo di non diventare parassiti se siete ospiti  e di diventare ospiti se siete parassitati”

Se,poi, qualcuno obbiettasse che si tratta di qualcosa di impossibile,Karl Kraus risponderebbe così:

“L’uomo è l’essere che cerca di rendere possibile l’impossibile, e quando non ci riesce rinuncia a volerlo ma non rinuncia a desiderarlo all’infinito solo per desiderarlo”

Ecco tre semplici esempi di qualcosa di buono che possiamo solo desiderare per desiderare  a partire dalle riflessioni fatte sull’epidemia del nuovo coronavirus.

In fondo potrebbe essere un  virus, che tutto sommato è un pezzetto di Rna,cioè di materiale genetico,che un giorno installandosi nelle cellule umane, invece che limitarsi ad uccidere  tutti ,potrebbe determinare in alcuni  quella mutazione genetica che l’evoluzione sta aspettando per superare i limiti della specie homo sapiens. Se ne salverebbero pochi ma  si regalerebbe  al cosmo un vivente più meritevole di sopravvivere a lungo ,perché più buono , più intelligente,più forte  e più bello  di tutti noi , divinità e grandi  geni compresi.

Anche sul piano storico il virus potrebbe avere risvolti positivi: se il regime comunista per  frenare l’epidemia dovesse inasprire il suo totalitarismo e il popolo cinese ritenesse troppo gravoso l’isolamento forzoso della quarantena nazionale,la dittatura cadrebbe prima che l’epidemia raggiunga il picco e si spenga spontaneamente. In tal caso il virus equivarrebbe ad una rivoluzione sociale e i suoi morti potrebbero anche essere di meno di quelli(alcuni milioni) che sono stati necessari al maoismo per prevalere al memento della rivoluzione cinese e per consolidarsi al momento(la rivoluzione culturale) del suo forzoso consolidamento.

Per non parlare del piano cosmico ,nella cui scala l’espansione continua dell’Universo potrebbe essere letteralmente l’espressione di ciò che dicono le stelle( de-sidera) cioè il desiderio di tutto il cosmo di andare oltre sé, e spostandosi ogni pianeta,ogni stella o pulviscolo di stella e persino la materia e l’energia oscura,potrebbero essere attratti in un’orbita che li ospita e li rispetta nella loro unicità o in una che li parassita , li distrugge e li disperde nell’infinito. Chissà che non valga anche per il cosmo la metafora della peste come espressione del fallimento dell’ospitalità che si verifica ,come per ora sta accadendo  per il coronavirus, ogni volta che l’ospitato si trasforma in parassita e l’ospite in parassitato?   

 

Bibliografia

1.Sergio Givone,Metafisica della Peste(colpa e destino), Einaudi, Torino

2.Bruno Latour,Non siamo mai stati moderni,Eleuthera, Milano

  1. Alessandro Manzoni,I promessi sposi,Mondadori, Milano

4.Bruno Latour,op.cit

5.Masimo Recalcati,La Repubblica,Mercoledì 5 Febbraio 2020

6.Sergio Givone,op.cit.

7.Sergio Givone ,op.cit.

L’autore

Francesco Campione 

Tanatologo, Presidente Associazione Rivivere e Docente di Psicologia clinica e Psicologia della perdita e del lutto all’Università di Bologna