LA SPIRITUALITÀ UMANA NELLA PREPARAZIONE ALLA MORTE E NELL’ELABORAZIONE DEL LUTTO.
INTRODUZIONE

di Francesco Campione

La giornata di studio a cui siete stati invitati oggi si propone innanzitutto di rispondere alla
seguente domanda:
l’assenza quasi totale, propria del nostro contesto (a parte pochi esempi abbastanza rituali di
tipo religioso o di ascendenza Zen), dell’assistenza spirituale ai morenti e alle loro famiglie
(nonché della formazione alla spiritualità􀀁degli operatori che li assistono), è da considerarsi
un indice di modernità o di arretratezza?
In altri termini, se l’assistenza ai morenti e le Cure Palliative, grazie ai costanti progressi
sanitari nel controllo dei sintomi, si identificano sempre più con le pratiche tecniche della
Medicina Palliativa ,è un guadagno o una perdita?
È un guadagno o una perdita medicalizzare quasi completamente l’assistenza per chi muore
tendendo a separarla sempre più da quella dei familiari per il lutto, e trascurare il ruolo che la
spiritualità potrebbe avere, rivitalizzando spiritualmente la vita, nel contrastare la sofferenza
insopportabile che fa desiderare la morte e provoca l’angoscia della morte e la pena del lutto?
Possiamo naturalmente rispondere a questa domanda solo mostrando in che modo le varie
forme della spiritualità possono contribuire a prepararci alla morte e al lutto, chiedendolo a
chi pensa che ciò sia possibile. Ecco perché abbiamo invitato i relatori di oggi
sottoponendovi le loro considerazioni per cominciare a riflettere tutti insieme, a partire da
quanto ci diremo , sul significato della spiritualità di fronte alla morte e al lutto.
Sulla base di questa risposta e col contributo di tutti potremo, a partire da oggi, mettere in
evidenza (se già esiste in nuce) o costruire (se non esiste affatto) una nuova dimensione
dell’assistenza ai morenti e alle famiglie, oppure abbandonarne senza rimpianti i propositi.
So naturalmente a quali difficoltà è esposto quanto ci proponiamo, dato che la storia della
cultura moderna ha portato ad un progressivo abbandono della nozione stessa di “spirito” che
prima è diventato “mente” (cioè attività cognitiva) e poi “cervello” (cioè funzionamento
dell’organo della attività cognitiva). E tuttavia, ci saranno delle ragioni se lo “spirito” è 
rimasto una nozione viva del nostro linguaggio e se si assiste ad una sua “rinascita” sia
attraverso il ritorno delle religioni, registrato da tutti gli studi sociologici, sebbene in forma
personalizzata (1), sia attraverso correnti tutt’altro che deboli della filosofia moderna e
contemporanea (citerò solo la vitalità dell’approccio fenomenologico e il progressivo
ricomporsi della frattura tra scienza della Natura e Scienze dello spirito che tende a ridare
dignità alla “spiritualità” senza farla necessariamente prevalere sulla “materialità” o
subordinarla ad essa). Mi limiterò ad accennare alcune forme soltanto di questa “vitalità” dello “spirito” nella
nostra contemporaneità.

Nel linguaggio quotidiano
C’è innanzitutto lo “spirito santo” che sembra in grado quantomeno di ispirare i vescovi
nell’eleggere il Papa . C’è lo “spirito dei tempi” senza il quale non so come potremmo
esprimere il senso dell’atmosfera nella quale viviamo. C’è lo “spirito di patate” per cui le
ragazze sposano quelli che li fanno ridere. Ci sono i “bollenti spiriti” degli adolescenti che
tutti vorremmo continuare ad avere a qualsiasi età. Ci sono gli “animal spirits” senza i quali
sembra che ci passerebbe la voglia di lavorare e competere con gli altri per affermarci. C’è 
l’amore che se non è un po’ “spirituale” è di seconda categoria. Ci sono gli “spiriti” che
visitano gli spiritati e lo “spiritismo” di chi pensa di poter comunicare con lo “spirito” dei
morti. E potrei continuare, ma mi limiterò ad aggiungere soltanto un’altra forma di “spirito”,
la più universale: lo “spirito” con cui facciamo le cose e viviamo la vita, nel bene della
felicità e della fortuna e nel male della sofferenza e della morte.

Nella Filosofia
Il termine “spirito” e i suoi sinonimi mirano in tutte le filosofie ad esprimere un quid che ha a
che fare con la “vita”, qualcosa che “anima”, che vitalizza. Tanto che in alcuni contesti
linguistici “spirito” e anima sono sinonimi, al punto da contrapporvi la “materia”, come nel
racconto della Genesi dove si dice che Dio ha prima fatto con la terra un vaso di argilla (la
materia) e poi gli ha soffiato dentro la vita (lo spirito). Anche in Biologia non è così chiaro
come si passi dalla materia organica alla sua “animazione”, cioè dai composti chimici
dell’organismo, che si formano nella reazione tra la luce del sole e l’atmosfera terrestre, alla
sua unicità organica di vita.
E tuttavia subito le filosofie si dividono sul significato da dare al quid spirituale che dà la
vita.
Una delle tradizioni più stabili, come ha dimostrato Daniel Heller- Roazen nel suo bel libro
dal titolo “Il tatto interno” (2) è quella aristotelica secondo la quale lo “spirito” è qualcosa di
sensoriale, una specie si sensazione globale, che viene indicata come “percezione della
percezione” e da cui dipenderebbe la sensazione di essere vivi. La moderna neurologia ha
coniato il termine noto a tutti quelli che hanno studiato medicina per la sua difficilissima
interpretazione: la cenestesi, cioè il senso interno della posizione delle parti del corpo.
Sentirsi vivi, la propria spiritualità, in questa ottica, significherebbe percepire di percepire il
proprio corpo, e l’anima non sarebbe altro che l’insieme delle sensazioni cenestesiche che il
corpo trasmette, il cosiddetto senso comune o senso interno (sentio ergo sum). Se le cose
stanno così, a seconda delle condizioni del corpo ci si può sentire più o meno vivi, come
dimostrano le sensazioni di coloro che hanno subito delle amputazioni massicce di parti del
loro corpo, coloro che sono in coma, i morenti e anche i dormienti in certe fasi del sonno.
Lo stesso sentimento di sé (l’io) e la percezione della vita come qualcosa di intrinsecamente
“buono” e fonte di gioia, dipenderebbero in questa ottica dalle sensazioni di questa specie di
tatto interno che è la cenestesi, che quando è integra costruirebbe , attraverso la trasmissione
al cervello, un’immagine corporea che non è nient’altro che la coscienza di esistere in quanto
se stessi e la coscienza della “gioia di essere vivi”.
Peccato che i fenomeni dell’arto fantasma (sentire una parte del corpo che non c’è) e del
delirio di negazione (non sentire una parte del corpo che c’è) o della spersonalizzazione
(sentire di esistere ma come qualcosa che c’è in modo anonimo neutro e alienato e non come
qualcosa che mi appartiene), hanno messo in discussione questo modello apparentemente
così semplice.
Un’altra tradizione filosofica è quella Cartesiana secondo la quale è la mente che anima il
corpo attraverso le sue idee che non derivano dalle sensazioni del corpo ma sono innate
(cogito ergo sum e non sentio ergo sum).
Ora si instaura una frattura tra l’anima e il corpo, l’anima (res cogitans) viene sopraordinata al
corpo (res extensa) e la spiritualità cambia significato: ciò che vivifica il corpo è la mente e
non viceversa, e sono le idee che trasmettendosi al corpo lo vivificano: la spiritualità è il
pensiero.
Essere vivi significa ora pensare e governare il corpo con la mente, ed essere morenti, avere
un corpo che non obbedisce più allo spirito della vita che la mente gli infonde.
Ma da dove vengono le idee e come mai spesso il corpo non obbedisce?
Le idee (per i cartesiani) vengono da Dio e ci sono due possibilità: che Dio continui a vigilare
sulle nostre idee (come sostiene Malebranche, 3), e allora la spiritualità sarà un dialogo della
mente con Dio; oppure Dio creandoci ha determinato quella che Liebeniz (4) ha chiamato
“armonia prestabilita” tra mente e corpo, che sanno fin da sempre come comunicare
armonizzandosi.
L’esempio della concezione chomskiana della linguistica (la cosiddetta grammatica
generativa) secondo la quale il linguaggio umano nella sua struttura sintattica non si evolve
da quando è sorto nella storia evolutiva, è un esempio attuale di questa concezione.
Sono due posizioni filosofiche entrambe fondate tra le quali bisognerebbe poter non dover
scegliere, considerando che potrebbe trattarsi di due possibilità entrambe valide di
spiegazione della spiritualità, cioè della trasmissione di ciò che è vitale, entrambe al tempo
stesso “umane”.
Si potrebbe trattare, questa è la nostra ipotesi, di vie spirituali che l’uomo è in grado di
percorrere allo stesso modo e anche forse di superare integrandole in un tutto che le
trascenda.
E proprio l’assistenza spirituale ai morenti potrebbe fornirci qualche indicazione per
realizzare questo superamento se essa seguendo fino in fondo l’una e l’altra via ne scorgesse i
limiti e non li occultasse per trionfare sulla via concorrente.
Quando, ad esempio, un morente sentendo il desiderio di continuare a vivere a tutti i costi,
trova in sé l’idea di tempo infinito e di eternità, dovrà considerare queste idee come il
risultato nell’anima della sensazione corporea della vita che viene meno facendogli desiderare
di non morire, immaginandone la possibilità, e così rinunciare all’infinito e all’eternità?
Oppure dovrà cercare di vivere la sensazione corporea della vita che lo abbandona e del
conseguente desiderio di vivere per sempre alla luce di queste idee?
Sono d’altra parte i due sensi del nome stesso “desiderio” e del verbo corrispondente
“desiderare”

Aristotele (5) enumera cinque facoltà percettive: l’immaginazione (phantasia), la tendenza
(orexis), il piacere (hedone), il desiderio (epitymia) e sensazione (aisthesis).
Il termine desiderio, che si è cominciato ad usare nel XII secolo, e che deriva dal latino sider
(stella) e si riferisce all’interrogare gli astri per sapere se i desideri si avvereranno, può
tradurre sia il termine greco orexis che indica la percezione del “tendere verso qualcosa”, sia
il termine greco epithymia che indica “l’essere attratti da qualcosa”. Appare la moderna
distinzione tra bisogno (c’è qualcosa fuori di te e senti in te che ti attrae) e desiderio (senti
dentro di te di tendere verso qualcosa che puoi non sapere cosa sia o se esista). Si può
supporre che proprio perché nel medioevo dominano i desideri non materiali (ad esempio il
desiderio di Dio) si ha bisogno di interrogare le stelle, che sono nel cielo cioè nel luogo
dell’altissimo e delle idee, non soddisfa più la distinzione non chiara tra Orexis e epithymia e
si impone il termine desiderio (intorno a ciò che dicono le stelle). L’ambivalenza tuttavia
permane e si manifesta in punto di morte: la tendenza all’eternità e all’infinito che si sente
quando ci si sente morire è un bisogno (epithymia) che produce, attraverso un’altra facoltà
percettiva (l’immaginazione), la tendenza (orexis) e la sensazione (aisthesis) dell’infinito
come risvolto e compensazione del finito? Oppure la tendenza (orexis) all’eternità e
all’infinito derivano da un’idea da sempre presente dentro di noi e che non può derivare da
sensazioni (aisthesis) dell’Infinito non sperimentabile né da immagini (fanthasia) non
immaginabili?

Secondo la spiritualità che proponiamo non c’è ragione di non provare entrambe le vie fino in
fondo per arrivare a toccarne i limiti ed eventualmente integrarne le possibilità.
Per farlo l’uomo dovrà allora, ed questa la proposta che cercherò di illustrare nel pomeriggio,
scoprire una terza via della spiritualità che tende ad essere trascurata: quella della
trasmissione della vita attraverso il parlarsi e il parlare con gli altri.
Mi sento morire e rinuncio alla possibilità che il tempo sia infinito e mi trascini nell’eternità,
oppure a dispetto di ciò che mi dice il sentimento della vita che mi abbandona continuo a
desiderare l’eternità e l’infinito pur sapendo che non lo potrò raggiungere, cioè gratuitamente
solo per desiderarlo?
Me lo chiedo e lo chiedo agli altri, e cosa scopro?
Mi vitalizza maggiormente la spiritualità che deriva dalla decisione di rinunciare alla vita
quando la sento venir meno o da quella di continuare a desiderare la vita a prescindere dal
sentirla?
Mi sentirò più vivo cercando di distrarmi dal sentimento della morte e rinunciando a
prepararmi alla mia morte e a quella dei miei cari, oppure sarà il desiderio di non morire mai
a farmi sentire più vivo e potrò prepararmi alla morte e al lutto proprio perché nessun
sentimento della morte (paura, angoscia o desiderio) potrà inaridire il mio desiderio di
vivere?
Qual è lo spirito con cui devo prendere la mia morte e quella dei cari?
Devo pensare ad altro, altrimenti inevitabilmente il pensiero della morte la farà prevalere
sulla vita?
Oppure, il desiderio di vivere è più forte della morte e del suo pensiero e posso seguirlo
senza temere che produca un desiderio di morire in grado di sopraffarlo?
Non è questo dilemma dell’uomo moderno che incontriamo senza volerlo affrontare al letto
di morte dei pazienti e delle famiglie che assistiamo?
Non è arrivato il momento di affrontare questo dilemma spirituale nell’assistenza ai morenti e
ai dolenti e non limitarsi più a chiedersi cosa fare per modificare in senso benefico le
sensazioni fisiche di pazienti e famiglie, avallando così la convinzione che una vita si può
animare solo fisicamente?
Lo spirito con cui si vive la vita deriva solo dalle sensazioni del corpo o c’è una dimensione
intermedia tra anima e corpo, il desiderio che deriva dal corpo ma lo determina al tempo
stesso, in grado di “rianimare” la vita anche quando non è più fisicamente rianimabile?

(ATTI DELLA GIORNATA DI STUDIO DEL 19 SETTEMBRE 2015)

L’autore

Francesco Campione 

Tanatologo, Presidente Associazione Rivivere e Docente di Psicologia clinica e Psicologia della perdita e del lutto all’Università di Bologna

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