Fine e trionfo del tabù della morte di fronte al suo mistero
Francesco Campione
Sintetizzando lo schema storico di P.Aries( 1 ),la morte che era “addomesticata” nel Medioevo(grazie ai rituali religiosi che trasformavano il suo “non essere” nel “passaggio” ad un’altra vita)diventa, prima( dal Rinascimento all’epoca Barocca) il tramite dell’angoscia del nulla che attende la vita di ciascuno( la morte di sé), e poi il “passaggio all’altro”(la morte dell’altro) nel tentativo di difendersi dalla fine tramite la trascendenza familiare. Per essere fatta oggetto, nella Modernità, di una pesante repressione (morte proibita)per non lasciare la vita senza difese di fronte al suo limite temporale ormai senza rimedi(a causa della crisi apparentemente irreversibile della fede nell’aldilà e nella sopravvivenza familiare).
Si sarebbe così arrivati al fenomeno che è stato indicato come tabù o rimozione della morte, fenomeno che si è espresso primieramente nell’indicazione educativa di non pensare alla morte e di non parlarne, oltre che attraverso l’occultamento del moribondo e del cadavere ,diventando per un certo periodo del novecento una specie di “senso comune negativo” sulla morte stessa.
E’ sembrato infatti tra gli anni 50 e gli anni 80 del Novecento che “parlare della morte” fosse una reazione in Occidente , da parte dei “coraggiosi”,al silenzio “codardo” del suo tabù ,quando invece potrebbe essersi trattato della conquista ,da parte della riflessione sul tema della morte ,che ha continuato a dominare la Filosofia anche durante i secoli della crisi dei discorsi religiosi(2 ),dei territori delle Scienze emergenti(Biologia in primo luogo e poi Sociologia e Psicologia).
In altri termini, la Biologia( seguita ,a distanza di due secoli, dalla Storia ,dalla Sociologia e dalla Psicologia) potrebbe aver “messo a tacere” le risposte(la fede dell’aldilà) religiose alla morte trasformandole in “superstizioni”, senza avere risposte accettabili per consolare l’uomo di fronte al pensiero della “propria morte”. Ma ha subito cominciato a cercarle,queste risposte, e le ha trovate solo dopo che si sono sviluppate, sul ceppo della Scienza Biologica, le Scienze della Società e quelle dell’Anima. E’stato a questo punto che non è apparso più necessario reprimere il pensiero della morte e abbandonare i morenti al loro destino, potendo cosi’ non occultare più i morenti e i morti ,tornare ad assistere i morenti e parlare della morte.
Non era più possibile,in altri termini, assistere morenti religiosamente,cioè,
aiutandoli a salvarsi l’anima, ma ora poteva pensarci la Medicina aiutandoli a morire senza una lunga agonia:se non si poteva più parlare della morte come il “passaggio” ad un’altra vita, cioè dell’aldilà come un luogo in continuità con l’aldiquà, la Storia, la Sociologia e la Psicologia potevano aiutare a parlarne per padroneggiarla attraverso la “scelta” (storica,sociale e psicologica) dei modi di parlarne. L’emergere delle Scienze Biologiche e la progressiva biologizzazione della scienze umane(ormai diventate “scienze cognitive”) hanno quindi dapprima messo a tacere le risposte religiose alla morte e per un po’ è sembrato che potessero anche smettere di tener conto delle riflessioni filosofiche su di essa contribuendo così al suo “tabù”.
Ma è evidente che non si trattava della rimozione della morte tout court, bensì della rimozione della morte come passaggio ad un’altra vita ,che lasciava l’uomo senza risorse di fronte all’angoscia della morte concepita come annullamento definitivo di sé.
I filosofi contemporanei hanno continuato a provare a sostituire con altri “valori” la speranza di eternità che la Religione prometteva : M.Heidegger(3) ha predicato l’essere per la morte e la sua consapevolezza( vivere come se fosse sempre l’ultimo istante) come veicolo del valore umano di un’autenticità quasi eroica; E.Bloch(4) ha cercato di riscattare la morte tramite il compimento della vita che senza di essa non potrebbe appunto compiersi;V.Jankelewitch(5),ha trasformato la morte stessa in “valore”, facendo scorgere dietro il mistero della morte il suo essere, oltre che un “ostacolo” alla vita, anche il suo principale “organo”,in quanto senza di essa nessuno sarebbe unico e insostituibile;E.Levinas(6) ha sostenuto che,considerando la morte a partire dal tempo,essa è il mistero che ,attraverso un’emozione nell’ignoto, apre a qualcosa di meglio dell’essere e del non essere,l’altrimenti che essere del tempo infinito senza il quale non sarebbe concepibile il Bene che tutti desideriamo.
Ma la Biologia vuole convincerci di sapere cos’è la morte, qual è il suo perché e che un giorno dominerà il suo quando e la vincerà(7,8 ).Vuole convincerci che la morte non è né passaggio ad altra vita né annullamento né mistero, bensì che essa è “trasformazione” della materia,la trasformazione in materia inorganica della materia organica del cadavere ,che viene “riciclato” e rientra nel ciclo della vita. Come facciamo a sottrarci al discorso sulla morte formulato dalla Biologia contemporanea? Essa ci dice ,con l’autorevolezza attuale della Scienza, che “conosce” la morte e può quindi dominarla. Ci dice che la morte non è un annullamento totale ma una trasformazione necessaria al riprodursi delle condizioni della vita sulla Terra,ci libera dalle illusioni della religione e dal terrore dell’ignoto.
Perchè non dovremmo convincerci che è così? Perchè c’è sempre un prezzo altissimo da pagare: l’accettazione della perdita della nostra vita personale!
La biologia vince la morte sacrificando la biografia! Ecco allora che,per venirle in soccorso, si mettono al lavoro la Storia, la Sociologia e la Psicologia.
La Storia ci insegna che le mentalità cambiano e che ci angoscia tanto la nostra morte personale perché abbiamo una mentalità individualistica:basterebbe prendere coscienza ,con l’aiuto della Sociologia,che la nostra vita è un intreccio inestricabile di interdipendenze, per cominciare a cambiare mentalità e considerare che può essere”giusto” morire quando non si è più utili a se stessi e agli altri o quando ci si è assicurati un “buon ricordo”.E se proprio non ci riusciamo allora possiamo contare sulla Psicologia per prendere coscienza che:o,come diceS. Freud(9 ),se vogliamo vivere bene dobbiamo prepararci a morire ,dato che senza questa preparazione(a desiderare di riposarsi per sempre dalla tensioni della vita)il pensiero della morte ci impedirebbe ogni attimo di godimento; o che, come insegna la psicologia cognitivista,se impariamo a conoscerci e a volere ciò che vuole la nostra biologia cioè la parte“oggettiva” di noi stessi,non ci opporremo alla morte quando le forze della vita non possono più impedirla e potremo morire con l’aiuto della Medicina Palliativa in modo “naturale” e dolce.
Stando così le cose, forse non si dovrebbe più dire che c’è un tabù della morte e che sarebbe auspicabile vincerlo per migliorare il nostro rapporto con la morte stessa. Il punto non è che bisognerebbe superare la rimozione del pensiero e del parlare della morte,il punto è affrontare “criticamente” ciò che di volta i volta si dice o non si dice, si pensa o non si pensa, si fa o non si fa sulla morte. Non bisognerebbe quindi chiedersi se è più giusto pensare o non pensare alla morte,parlarne o non parlarne, affrontarla o non affrontarla, bensì cosa è più giusto pensare o non pensare sulla morte, come è più giusto parlarne o non parlarne e come è più giusto affrontarla o non affrontarla.
Infatti,quando alla morte ci si pensava ,se ne parlava e si affrontava perché era “addomesticata”,si pensava, si parlava e si affrontava una certa morte(la morte come “passaggio” ad un’altra vita).Al tempo stesso la morte come annullamento e come mistero erano tabù e non perché nessuno pensasse alla morte come
annullamento e come mistero, ma perché un’intera cultura aveva deciso di parlarne,pensarci e affrontarla, la morte, religiosamente. Andata in crisi quella cultura e il suo rimedio alla morte( la fede nell’aldilà) ,è diventata dominante l’idea della morte come annullamento ed inevitabilmente si doveva non pensarci, non parlarne e non farci niente. Che c’è da pensare, da dire e da fare di fronte al nulla?
La rimozione della morte come passaggio diventa tabù ed è razionale non parlare neanche della morte come annullamento( dato che sarebbe inutile).Di fronte alla morte non c’è nulla da dire o da fare,come ha dimostrato in maniera definitiva V.Jankelevich( 10).Con una limitazione che V.Jankelevich stesso evidenzia: per dimostrare che di fronte alla morte non c’è nulla da dire si devono dire tante parole. Ma forse vale solo per i filosofi e non per la gente comune.
Resta che forse si filosofa anche per consolare(come ha mostrato anche M. Blanchot mettendo in relazione il pensiero e la catastrofe,11) e quando la filosofia evidenzia di non aver più niente da dire sulla morte diventando anch’essa angosciante, sorge il dubbio che la riflessione deve continuare. Ecco come la concezione della morte come annullamento viene messa in discussione(perché è sconsolante), facendo vacillare anche il tabù della morte come passaggio. Tornano in auge i discorsi religiosi ma soprattutto emerge la terza possibilità del pensiero: la morte come mistero.
Se non possiamo non pensarci(perché non pensarci,non parlarne e non farci niente non ci toglie l’angoscia)e non possiamo pensarla come passaggio ad un’altra vita né come annullamento,possiamo ancora pensare la morte come mistero:non è ora,come sostiene V.Jankelevich(12), di ammettere che la morte è un “problema inaggirabile e inassimilabile per la ragione umana?”
Forse solo ora(facendolo trionfare in altro modo) il tabù della morte può essere veramente superato:solo ora che non sappiamo cosa pensiamo quando pensiamo alla morte, di cosa parliamo quando parliamo della morte e cosa facciamo quando la affrontiamo. Solo ora possiamo pensarci, parlarne e affrontarla liberamente.
Perchè possiamo parlarne come di un “passaggio” (ad un’altra vita o agli altri che restano) di un annullamento o di una trasformazione, ma senza essere certi che in una di queste possibilità ci sia tutta la verità.
Siamo ora palesemente di fronte ad un paradosso:è vero che possiamo parlare liberamente di qualcosa che non sappiamo cosa sia, ma stiamo ancora parlando di qualcosa?
La risposta più convincente(e con le migliori conseguenze) di fronte a questo paradosso insuperabile mi sembra poter essere “ispirata”dal pensiero di Levinas(13).
Egli ci invita, l’abbiamo già notato, a considerare la morte a partire dal tempo,confermando il suo carattere di mistero. Significa che in quanto mistero la morte non è la fine del tempo, dato che un mistero implica un tempo infinito per essere svelato. Ecco allora perché vale la pena di pensare la morte come mistero(e di parlarne e di affrontarla in questa ottica) nonostante il paradosso che produce:di fronte al mistero sorge il desiderio di svelarlo e di non poter rinunciare a svelarlo nonostante la consapevolezza della necessità,per riuscirci, di un tempo infinito che non abbiamo a disposizione dato che dobbiamo morire.
Un desiderio infinito irrinunciabile nonostante la sua irrealizzabilità(un desiderio disinteressato) sorge di fronte alla morte:un tale desiderio non è il desiderio di un Bene, qualunque cosa sia? E un desiderio siffatto non potrebbe essere il valore inestimabile che tutti gli uomini accomuna?
Diventa possibile concepire Il desiderio che all’infinito il Bene trionfi come frutto di un modo paradossale di vincere il tabù della morte: pensarla ,parlarne e affrontarla come un mistero infinito!
Le conseguenze positive di questo modo paradossale di vincere il tabù della morte(poterne parlare perché non si sa ciò di cui si parla, un mistero che si può svelare solo all’infinito) nell’educazione e nell’assistenza ai morenti e alle persone in lutto sono state analizzate approfonditamente altrove da chi scrive(14,15 ).
Solo si può osservare in questa sede che sarebbe ora di abbandonare la polemica che ha contrapposto e talvolta ancora contrappone( nel rapporto uomo-‐morte e conseguentemente nell’assistenza ai morenti) chi vuole vincere il tabù della morte e chi ritiene opportuno mantenerlo. Due esempi:
I. Bisognerebbe parlare della morte a chi ha un rimedio ( fede
nell’aldilà,sopravvivenza nel ricordo di chi resta,trasformazione in senso vitale del cadavere) e bisognerebbe smettere di parlargliene quando il
rimedio non “funziona” più o va in crisi. Ma si tratta di un’alternanza palesemente impossibile comunicativamente anche in senso inverso(non parlare della morte a chi non ha un rimedio e parlargliene quando lo acquisisce).Solo se la morte è un mistero, parlarne e non parlarne possono convivere e/o alternarsi nei due sensi:perché quando se ne parla non si sa di cosa si parla e quando non se ne parla non si sa di cosa non si sta parlando.
Della morte in sostanza si può parlare o non parlare,con una semplice differenza:quando se ne parla si ha l’intenzione( e il desiderio) di chiarirne il mistero e quando non se ne parla si dispera di poterlo chiarire. Chi ha ragione se il mistero è infinito?
Entrambi,dato che il mistero infinito della morte si può vivere(vivendo così l’Infinito) ma solo per un tempo finito(vivendo così l’infinito nel finito,in-‐ finito,appunto).Lo sa chi prova a parlare con gli altri della propria morte quando sta morendo o quando sta morendo un altro:ne parla, non sa cosa dire e tace,poi non sa cosa tace e ne parla.
II.Il tabù della morte che talvolta vige nella nostra quotidianità( non se ne parla esplicitamente sui giornali o in televisione a meno che non si tratti di morte violenta:è la morte naturale che tocca prima o poi a tutti che è ,secondo l’espressione di G.Gorer(16 ) “pornografica”) ,o che presiede all’assistenza dei morenti(la cui morte è sempre un “morire” cioè vita allo stadio terminale ma sempre vita),può essere vinto solo se si riesce a farlo convivere col parlare esplicitamente della morte naturale e con l’invito ai morenti a dare uno sguardo all’oltre. E la convivenza degli opposti( del tabù della morte e del guardarla in faccia)è possibile se si stabilisce tra essi un “polarità” che li veda distinti ma non separati. Si tratta in altre parole della “spiritualità” che il mistero della morte produce nella polarità tra il non poterne parlare perché è un mistero e il parlarne per non poter rinunciare a svelarne il mistero. In questa polarità i due opposti convivono e il tabù viene vinto perché il mistero permane anche di fronte a ciò che lo svela. Spiritualità della morte che chi scrive ha cercato di approfondire in altra sede( 17 ) e che si esprime con le parole necessarie e le parole impossibili di quei momenti irripetibili(del morire proprio e altrui) in cui si permane, senza sapere come, di fronte al mistero della morte che è forse anche il mistero della vita.
Nota bibliografica
1. P. Aries, L’uomo e la morte dal medioevo ad oggi, Trad. it., Laterza, Bari, 1985.
2. M. Vovelle, La morte in Occidente, Trad. It., Laterza, Bari, 2000.
3. M. Heidegger, Essere e Tempo, Trad. It., Mondadori, Milano, 2011.
4. E. Bloch, Il principio speranza, Trad. It., Garzanti, Milano, 1994.
5. V. Jankelewitch, La morte, Trad. It., Einaudi, Bologna, 2009.
6. E. Levinas, Dio, la morte e il tempo, Trad. It., Jaca Book, Milano, 1996.
7. M. Foucault, La nascita della clinica, Trad. It., Einaudi, Torino, 1998.
8. R. Kurzweil, T. Grossman, Fantastic voyage: live long enough to live forever,
Rodale Inc., 2004.
9. S. Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte, Opere Vol. 8,
Boringhieri, Torino, 2002.
10. V. Jankelewitch, La morte, op. cit.
11. M. Blanchot, La scrittura del disastro, Trad. It., SE, Milano , 2012.
12. V. Jankelewitch, La morte, op. cit.
13. E. Levinas, Dio, la morte e il tempo, op. cit.
14. F. Campione, Contro la morte, Clueb, Bologna, 2003.
15. F. Campione, La domanda che vola, EDB, Bologna, 2012.
16. G. Gorer, Death, grief, and mourning, Arno Press, New York, 1977.
17. F. Campione, Spiritualità e preparazione alla morte e al lutto, ZETA online
(Rivista di documentazione di ricerca sulla morte e il morire), Numero 43, 2015.
(In corso di pubblicazione).
L’autore
Francesco Campione
Tanatologo, Presidente Associazione Rivivere e Docente di Psicologia clinica e Psicologia della perdita e del lutto all’Università di Bologna