Buona e malamorte nelle fonti letterarie hindū
di Laura Liberale
Nella congerie di casistica frutto dell'”ossessione” classificatoria hindū, non poteva mancare, soprattutto a livello di letteratura purāṇica, la profusa descrizione dei durmaraṇa, le “malemorti”. Esse vengono variamente raffigurate: 1. nel senso della modalità (suicidio, morte per malattia, morte violenta, morte accidentale, ma anche morte sopraggiunta in condizioni spazio-temporali non favorevoli, di cattivo auspicio), ciò che si traduce principalmente nell’apūrṇakālatā, la prematurità, laddove l’ideale della buona morte si configura come trapasso per vecchiaia, in piena consapevolezza; 2. nel senso della causalità (malamorte “maturata” in dipendenza dalla legge del karman e, dunque, come conseguenza del peccato). Si tratta, ovviamente, di prospettive che si connettono e si rimandano a vicenda. L’elencazione di per sé stessa, o meglio, le varie elencazioni testuali sarebbero sufficientemente interessanti da giustificare una ricerca filologica basata sul raffronto, ma ancor più interessanti sono gli sviluppi rituali che vengono a delinearsi: la malamorte, potremmo dire ogni tipo di malamorte, presuppone il rigore di una specificità rituale, specificità parimenti descritta con dovizia di particolari nelle molteplici fonti.
Buona e malamorte, poi, implicano anche soggiorni dell’anima più o meno buoni e più o meno cattivi, da un lato, e rinascite più o meno positive e più o meno negative, dall’altro.
Vediamo brevemente, a titolo di esempio, alcune narrazioni in merito contenute nel Garuḍa-purāṇa (II, 2-4-13-22-23-40).
I peccatori incorreranno nella morte per mano di un fuoricasta, di un brahmano infuriato, a causa di un serpente, o di un animale dalle zanne ricurve, o in pozze d’acqua, o colpiti da un fulmine. Coloro che si sono suicidati impiccandosi a un albero, avvelenandosi o ferendosi a morte, quelli che sono morti di colera, gli arsi vivi, quelli colpiti da malattie ripugnanti o uccisi da ladri, quanti non sono stati cremati secondo la norma, coloro che non si sono dedicati ai riti sacri e alla condotta virtuosa, coloro che non hanno celebrato i riti in onore degli antenati, quanti sono precipitati da una montagna o travolti dal crollo di un muro, quelli contaminati da donne mestruate o da altre persone contaminanti, quelli uccisi dal morso di un cane o morti in modo infame, tutti costoro sono destinati a trasformarsi in spettri vaganti senza posa. Così come chi rifiuti la propria madre, sorella, moglie o figlia o nuora, senza che vi sia colpa in loro; o come chi inganni il proprio fratello o l’amico, uccida un brahmano o una vacca, beva alcolici, rubi, profani il talamo del maestro; o come chi seduca la donna altrui, sia crudele, distrugga l’altrui fede o rifiuti le tradizioni familiari.
A uno di questi fantasmi viene poi data voce diretta. Egli dice, di sé e dei suoi simili, che la loro dieta è a base di cibi disgustosi, disprezzati da chiunque (muco, secrezioni corporee, feci, urina, sporcizia, avanzi di cibo); la loro dimora si situa dove la gente non bada alla pulizia, alla purezza, alla veridicità, alle osservanze religiose; là dove si riuniscono ladri e fuoricasta, dove gli dèi non sono venerati, dove dilagano cupidigia, collera, indolenza, paura, litigiosità, inganno e tristezza.
Quando torna a parlare Garuḍa, viene affrontata l’evidenza delle morti premature: nessuno, nel Kali-yuga, l’età della decadenza e del trionfo del disordine e dell’empietà, arriva a vivere, come sostengono le fonti sacre, fino a cento anni. La morte prematura può abbattersi su chiunque: bambini, vecchi, giovani, ricchi, poveri, belli, brutti, sapienti, ignoranti, di nobile o infima nascita, asceti, yogin, brahmani e monarchi. La spiegazione che viene data a quest’evidenza è che la morte prematura avviene a causa del peccato, nelle sue varie forme. Quando è giunto il tempo della maturazione delle azioni relative a vite passate, gli uomini soccombono.
Nei casi di malamorte qui sopra elencati è vietato il rito della cremazione, così come le offerte post mortem; è però possibile celebrare il rito del nārāyaṇa-bali: esso va compiuto, entro i sei mesi successivi alla morte, nei fiumi Gange o Yamunā, oppure in un deposito di acqua pura, in una stalla, in una casa o in un tempio dinnanzi all’immagine del dio Kṛṣṇa. Le offerte d’acqua vanno accompagnate da mantra estratti dai Veda e dai Purāṇa. Seguono poi altre offerte, dettagliatamente descritte.
D’altro canto, colui che non abbia mai detto il falso, la cui fede sia stata salda, come anche la sua adesione al dharma, morirà in pace. Veniamo infine ammoniti con queste parole: finché il corpo è in salute, finché la vecchiaia è ancora lontana, finché i cinque sensi non sono ancora compromessi, finché non vi è il rischio di morire, l’uomo sapiente dovrebbe impegnarsi per il benessere della propria anima. È stupido cominciare a scavare un pozzo quando la casa ha preso fuoco.
L’autrice
Laura Liberale, laureata in Filosofia (Università di Torino), è dottore di Ricerca in Studi Indologici (Università La Sapienza di Roma) e ha conseguito il Master in Death Studies & the End of Life (Università di Padova).