IL BIOTESTAMENTO: UN PERCORSO DI DEATH EDUCATION
di Nicola Martinelli
Questo contributo costituisce una proposta di Death education e di riposizionamento, ispirata all’etica dell’accompagnamento, dei professionisti dell’aiuto nell’ambito delle cure di fine vita, all’interno delle RSA, delle strutture per persone non autosufficienti, negli hospice, nelle equipe di cure palliative, negli enti locali.
Introduzione
Ci sono dei pensieri che naturalmente rimuoviamo dalla nostra mente. Chi di noi ha mai pensato o pensa di pensare ad una vita su di una carrozzina a causa di un incidente stradale o in una rianimazione, o in coma, o in uno stato vegetativo, o immobilizzato in un letto per una malattia neuro degenerativa quale la SLA? Le vicende che hanno visto coinvolti Fabiano Antoniani, Piergiorgio Welby, Giovanni Nuvoli, Eluana Englaro, Paolo Ravasin, hanno obbligato la coscienza di ogni cittadino, i professionisti dell’aiuto, la politica a interrogarsi sulle tematiche di fine vita.
I professionisti dell’aiuto: medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali, educatori, operatori socio sanitari, leader religiosi….. nel loro lavoro si trovano spesso ad occuparsi di vicende di tanti uomini e donne che a causa di incidenti, patologie infauste si trovano a vivere una vita che per molti si rivela non vita. Le professioni d’aiuto sono chiamate a offrire una risposta di liberazione da ogni condizione di bisogno e povertà estrema.
Questo contributo costituisce una proposta di Death education e di riposizionamento, ispirata all’etica dell’accompagnamento, dei professionisti dell’aiuto nell’ambito delle cure di fine vita, all’interno delle RSA, delle strutture per persone non autosufficienti, negli hospice, nelle equipe di cure palliative, negli enti locali.
Nei percorsi di accompagnamento alla MORTE della persona non più autosufficiente le professioni d’aiuto si trovano sovente davanti notevoli dilemmi etici. Rispetto delle proprie volontà, dignità, accanimento terapeutico, direttive anticipate di trattamento, diritti del malato, consenso informato, sono solo alcune delle questioni correlate alla tematica della non autosufficienza e del FINE VITA. Si propone altresì di approfondire questi aspetti, con focus prioritario al principio di autodeterminazione.
Approccio autorevole per affrontare la tematica è, dal mio punto di vista, quello sistemico – relazionale, modello particolarmente accreditato nella prassi odierna. Esso pone le sue basi nella Teoria Generale dei Sistemi elaborata dal biologo austriaco Ludwig von Bertalanffy. Egli presenta “una visione globale della realtà intesa come complessità organizzata, cioè come un insieme caratterizzato dalla interconnessione delle parti in un tutto organico e irriducibile.” È necessario partire dal presupposto che ogni sistema è interattivo, cioè è organizzato al suo interno in modo tale che gli individui che lo compongono “assumono gradualmente caratteristiche di interdipendenza.” Ritengo possa essere un valido strumento per consolidare i vari network in cui operano i professionisti dell’aiuto. In questa riflessione sul fine vita ci guiderà una metafora, quella del viaggio come esplicativa della vita di tutti noi.
1. La metafora del viaggio
Ogni popolo ha rappresentato la sua storia con la metafora del viaggio, a cui ha dedicato un poema. Il popolo greco ha sintetizzato la sua storia nell’Odissea: un viaggio difficile quello raccontato dall’Odissea, la storia del recupero della patria perduta, Itaca, da parte di Ulisse. Se leggiamo l’Eneide, il poema del popolo romano, ripercorriamo la conquista da parte di Enea del Lazio, la terra promessa dagli dei. Il popolo ebraico si rispecchia nell’Esodo, la narrazione dell’uscita del popolo dalla terra di schiavitù verso la terra promessa in cui scorre latte e miele. Infine il poema del popolo cristiano, la Divina Commedia, un viaggio allegorico verso Dio. Credenti o non credenti, scettici, indifferenti che siamo, la metafora del viaggio, può essere, esplicativa della vita di tutti noi.
Essa è una chiave interpretativa laica della nostra vita. Si nasce, si vive, si raggiunge il culmine dello sviluppo, si muore. Non c’è nulla di più ovvio, ma proprio perché ovvio, terribilmente complesso. Parlare della sofferenza, del dolore, della morte e del morire non piace a nessuno. Occuparci delle modalità in cui vorremmo farlo, ancora meno. L’atteggiamento oscilla tra la scaramanzia, il fatalismo e la negazione. La morte non è un momento separato dalla vita, anzi, ne è una parte costitutiva, essenziale, una logica conseguenza, biologicamente, siamo esseri finiti, per questo è necessario un progetto per la fase ultima della nostra esistenza.
Il morire, come dice il teologo Hans Kung, è quella dimensione che concorre a determinare tutte le fasi e le decisioni della vita. L’uomo che non rimuove la propria morte ma l’accoglie consapevolmente, vive in maniera diversa, ha una diversa disposizione nei confronti della vita.
La psichiatra Elisabeth Kűbler Ross, considerata la fondatrice della psicotanatologia, che per anni ha lavorato con i morenti, ci ha lasciato una preziosa testimonianza umana e scientifica della dimensione psicologica del morire. Nel suo libro “Sulla morte e sul morire” ha scritto:
“Credo che le due cose, la vita e la morte, non possano essere distinte. Le persone che hanno saputo vivere e che hanno veramente vissuto non temono la morte. Al contrario, le persone che non hanno mai vissuto hanno il terrore di morire.”
“Morire dev’essere come addormentarsi dopo l’amore, stanchi, tranquilli e con quel senso di stupore che pervade ogni cosa” ripeteva Piergiorgio Welby.
La morte è parte della vita aveva affermato Eluana Englaro prima dell’incidente che la condusse in stato vegetativo permanente, condannandola ad una vita che non riteneva degna di sé.
“Sono spinto da opposti desideri: da una parte desidero lasciare questa vita per essere con Cristo, e ciò sarebbe certamente per me la cosa migliore; dall’altra, è molto più utile per voi che io continui a vivere,” aveva confidato Paolo di Tarso alla comunità di Filippi (Fil. 1,23-24).
“Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo. C’è un tempo per nascere e un tempo per morire…, sostiene il libro dell’antico testamento, il Qoelet (Qoelet 3,1).
“Il bene non sta nel vivere, ma nel vivere bene,” ripeteva Seneca ai suoi allievi.
“Laudato si’ mi’ Signore per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò skappare” cantava Francesco d’Assisi nel Cantico delle creature.
Ci chiediamo: ci sono delle situazioni in cui non si può più parlare di vita? Ciò che distingue la vita umana è l’insieme delle esperienze, delle relazioni, delle gioie, dei dolori e delle sofferenze, delle speranze nel futuro, delle attese, degli sforzi per rendere più degna e umana la vita. In altri termini, è necessario distinguere la vita biologica dalla vita biografica; quando la vita biografica cessa, come nel caso di Eluana Englaro, oppure divenga intollerabile, come nelle malattie terminali, può essere presa in considerazione l’eventualità di porre termine alla vita biologica, se tale era la volontà della persona, espressa attraverso un documento (testamento biologico/DAT) o affidata al ricordo di familiari e amici? Con la legge 219 “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” approvata nel dicembre 2017 questo percorso prende corpo.
Per millenni l’uomo ha avuto paura di morire per le guerre, le malattie, le carestie, invece negli ultimi decenni ha iniziato a sviluppare una nuova paura: la paura di vivere oltre il limite naturale della biologia, di sopravvivere alla sua stessa morte. Voglio morire della mia morte, non della morte dei medici” scriveva Rainer Maria Rilke. 1 In queste parole di Rilke si cela un rischio: il rischio della espropriazione della propria morte – di rimanere ostaggio di trattamenti intensivi a oltranza, percepiti da molti come violazione del senso della propria dignità. Partiamo da un assunto di base: anche nella fase finale della vita si rimane persona, conservando integro il diritto alla decisione ultima su trattamenti che possono prolungare o accorciare la fase finale della vita. Il medico informa circa la diagnosi, la prognosi, la cura. Il paziente decide sulla base del senso che intende dare al compimento della sua vita. Questo al fine di prevenire il rischio di diventare ostaggio di trattamenti futili, percepiti da molti come non consoni con il proprio percorso di vita.
Le persone non perdono il diritto all’autodeterminazione quando non sono più in grado di esprimersi. Un testamento biologico, come qualsiasi altra disposizione testamentaria, va rispettato. Si consolida sempre di più nella società civile un consenso attorno alle DAT disposizioni anticipate di trattamento/ biotestamento. Assistiamo ad un mutamento di paradigma nella visione della vita umana. Si va delineando sempre più una nuova visione dell’inizio e della fine dell’esistenza all’insegna dell’autonomia. Dalla dignità dell’uomo scaturisce il diritto all’autodeterminazione per la vita nella sua interezza, e quindi anche per l’ultima tappa dell’esistenza, ossia la morte. Il diritto alla vita non sottintende in nessun caso il dovere di vivere e di continuare a vivere a tutti i costi. Indubbiamente l’autodeterminazione non va assolutizzata, deve connettersi alla responsabilità verso gli altri. Non deve d’altro canto prendere il sopravvento l’eteronomia.
Molti si stanno rendendo conto della progressiva invasione della tecnologia nella vita umana fino a spostarne i confini all’infinito. Proprio perché la persona umana è infinitamente preziosa e deve essere assolutamente protetta, e questo sino alla fine, occorre riflettere con attenzione sul significato di queste parole nell’epoca della medicina tecnologicamente avanzata, che è in grado di protrarre la morte in misura considerevole.
Persino il grande poeta Dante Alighieri nel primo canto del Purgatorio così canta:
“Libertà va cercando, ch’è si cara, come sa chi per lei la vita rifiuta.”
Con questa espressione Dante afferma che la vita non è il bene assoluto, il valore supremo.
Nel film del 2004, “Mare dentro” diretto dal regista Alejandro Amenabar, incentrato sul tema dell’eutanasia, il protagonista del film Javier Bardem, interpretando Ramon Sampedro, un uomo diventato tetraplegico a causa di un grave incidente, sostiene una discussione con un ecclesiastico, un gesuita, anch’egli tetraplegico venuto in casa sua per convincerlo a desistere dai suoi propositi eutanasici. Fra i dialoghi scambiati fra i due, vi è il botta e risposta per cui l’uno sostiene che “una libertà che elimina la vita non è una libertà”, e a cui Ramon risponde che “una vita che elimina la libertà non è vita”. Come connettere vita e libertà in una sintesi armoniosa?
2. Biotestamento e death education
La realtà non può essere ridotta al semplice nesso causa-effetto, nessuno di noi è neutrale ed asettico, tutti abbiamo delle precomprensioni, non tutto è spiegabile attraverso leggi assolute. Niccolò Cusano, filosofo vissuto nel 1400 parlando di Dio lo concepisce come coincidentia oppositorum, coincidenza degli opposti, unione dei contrari, sintesi di diversi punti di vista. Per Cusano Dio è il punto in cui tutti i contrari coincidono. In Lui, luce e tenebre, bianco e nero, donna e uomo, sostanza e non sostanza, sono identici. Credo sia una valida chiave di lettura della
1Viafora C., Gaiani A., A lezione di bioetica. Temi e strumenti, FrancoAngeli, Milano, 2015, p. 273.
complessità nella quale viviamo. Il biotestamento può essere interpretato come punto d’incontro tra visioni diverse. Vediamo come.
È un tema di scottante attualità e di sensibilità etica, da parecchi anni al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica. Indicato con l’espressione inglese living will, è tradotto con molteplici forme: testamento biologico, testamento di vita, direttive anticipate, volontà previe di trattamento, carta dell’autodeterminazione, biotestamento. Il tutto per indicare come una persona possa autodeterminarsi, prima che particolari situazioni mettano a rischio la propria vita.
In Italia dopo anni di accesso dibattito parlamentare si è finalmente giunti all’approvazione di una legge, quella sul biotestamento e sulle DAT che restituisce ad ognuno il governo sulla propria esistenza.
Il biotestamento è un contratto, un’alleanza in cui gli attori coinvolti sono: la persona, il medico, il fiduciario. Quale ruolo hanno i professionisti dell’aiuto in questo percorso esistenziale? L’assistente sociale in particolare è un professionista abilitato per conoscenze e competenze etiche e relazionali a supportare una persona ad autodeterminarsi alle frontiere della vita.
In Canada, in cui le leggi sul biotestamento variano da provincia a provincia, l’assistente sociale ha un ruolo cardine: informa, supporta, fornisce consulenza, sostegno psico-sociale, orienta. In Germania si sta realizzando su tutto il territorio una rete di cure palliative specializzate domiciliari. Si tratta di gruppi di otto persone – tre medici, quattro infermieri e un assistente sociale – che assistono a casa il malato e i suoi familiari. Avviene anche nei nostri servizi, pensiamo all’iter attivato per la nomina dell’amministratore di sostegno. Va comunque ulteriormente implementato questo ruolo di advocacy. In molti Comuni è stato istituito il registro per la raccolta delle DAT. L’incaricato è l’ufficiale di stato civile. La consegna delle DAT non può ridursi ad una mera procedura di carattere meramente ammnistrativo. Si depositano i propri desideri, le proprie volontà, la propria vita. È necessaria una elaborazione. Sul territorio ritengo che medico di medicina generale e assistente sociale dell’ente locale siano figure chiave.
Il codice deontologico dell’assistente sociale pone tra i principi della professione l’autodeterminazione delle persone. Così recita l’articolo 11 del codice deontologico: “L’assistente sociale deve impegnare la propria competenza professionale per promuovere l’autodeterminazione degli utenti e dei clienti, la loro potenzialità ed autonomia, in quanto soggetti attivi del progetto di aiuto, favorendo l’instaurarsi del rapporto fiduciario, in un costante processo di valutazione.”
Il codice di deontologia medica all’art. 16: Procedure diagnostiche e interventi terapeutici non proporzionati recita: “Il medico, tenendo conto delle volontà espresse dal paziente o dal suo rappresentante legale e dei principi di efficacia e di appropriatezza delle cure, non intraprende né insiste in procedure diagnostiche e interventi terapeutici clinicamente inappropriati ed eticamente non proporzionati, dai quali non ci si possa fondatamente attendere un effettivo beneficio per la salute e/o un miglioramento della qualità della vita. Il controllo efficace del dolore si configura, in ogni condizione clinica, come trattamento appropriato e proporzionato. Il medico che si astiene da trattamenti non proporzionati non pone in essere in alcun caso un comportamento finalizzato a provocare la morte”.
Come possono i professionisti dell’aiuto supportare una persona ad autodeterminarsi alle frontiere della vita? È possibile scegliere in modo consapevole e libero come affrontare le incognite del futuro?
La legge italiana sancisce il diritto per ogni persona di conoscere la verità sulla propria malattia, il diritto ad acconsentire o non acconsentire alle cure proposte, riconosce altresì il diritto a non sapere, se una persona non vuole per motivi personali, conoscere la verità sul proprio stato di salute. In condizioni molto gravi però la persona potrebbe non essere in grado di esprimere la propria volontà. È nato quindi in molti Paesi il principio delle direttive anticipate o testamento biologico, con cui la persona dichiara in piena lucidità mentale, quali terapie accettare o non accettare nel caso si trovasse in condizioni di incapacità.
Credo che le professioni d’aiuto, con quella competenza e professionalità che le caratterizzano da sempre, debbano collocarsi in quel percorso iniziato con il consenso informato alle cure e che ha come tappa naturale il principio delle volontà anticipate da applicare quando, per motivi gravi di salute, non sia possibile farle valere di persona. Un principio che non è in discussione perché si basa sul diritto, come ho già detto, alla libertà personale riconosciuto dalla nostra Costituzione. Del resto andiamo con grande naturalezza dal notaio quando vogliamo decidere come destinare i nostri beni. Perché non dovremmo poterlo fare anche per il futuro della nostra salute?
Il biotestamento, proposta progettuale per la non autosufficienza, vuole essere un documento scritto per garantire il rispetto della propria volontà in materia di trattamento medico: somministrazione di farmaci, sostentamento vitale, rianimazione, anche quando non si è in grado di comunicare le proprie intenzioni. Nel 2017 la legge ha sancito la validità di questo documento, grazie anche alla pressione esercita da un fervoroso movimento culturale, politico, antropologico, filosofico, sociale, religioso, psicologico, medico per la ratifica del principio di autodeterminazione sancito dalla Costituzione e dai vari codici deontologici. Nessuno può e deve scegliere per noi.
La L. 219 “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” approvata nel dicembre 2017 prevede che la persona maggiorenne e capace di intendere e di volere in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi possa esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, designare un fiduciario che la rappresenti. Il fiduciario deve essere una persona maggiorenne e capace di intendere e di volere.
Se non è presente in caso di necessità, il giudice tutelare provvede alla nomina di un amministratore di sostegno. Le DAT devono essere redatte per atto pubblico o per scrittura privata autenticata ovvero per scrittura privata consegnata personalmente dal disponente presso l’ufficio dello stato civile del comune di residenza del disponente medesimo, che provvede all’annotazione in apposito registro, ove istituito, oppure presso le strutture sanitarie se sussistenti i presupposti di cui all’articolo 4 comma 7 della legge.
Il medico è tenuto al rispetto delle DAT, le quali possono essere disattese, in tutto o in parte, dal medico stesso, in accordo con il fiduciario, qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita. Ai documenti atti ad esprimere le volontà del disponente in merito ai trattamenti sanitari, depositati presso il comune di residenza o presso un notaio prima della data di entrata in vigore della legge, si applicano le disposizioni della medesima legge. Ai fini della costruzione dell’alleanza terapeutica è necessario che il professionista dell’aiuto dedichi “tempo” al paziente.
Il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura. Nella relazione tra paziente e medico, rispetto all’evolversi delle conseguenze di una patologia cronica e invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta, può essere realizzata una pianificazione delle cure condivisa tra il paziente e il medico, alla quale il medico e l’équipe sanitaria sono tenuti ad attenersi qualora il paziente venga a trovarsi nella condizione di non poter esprimere il proprio consenso o in una condizione di incapacità.
Sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici. La relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico che si basa sul consenso informato nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico.
Nella relazione di cura sono coinvolti, se il paziente lo desidera, anche i suoi familiari (matrimonio, unione civile, convivenza di fatto) o una persona di fiducia del paziente medesimo. Ogni persona ha il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefìci e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi. Può rifiutare in tutto o in parte di ricevere le informazioni ovvero indicare i familiari o una persona di sua fiducia incaricati di riceverle e di esprimere il consenso in sua vece se il paziente lo vuole.
È utile ribadire che oggi il prolungamento o accorciamento della vita non sono valori in sé, ma lo sono in quanto in sintonia con il progetto di vita di ciascuna persona. La maggior parte dei malati, e una percentuale sempre più alta di popolazione sana, è favorevole al principio dell’autodeterminazione e della parità, in termini di diritti/doveri, con il mondo medico sanitario. Il paternalismo è superato in quasi tutti i modelli sociali e negli ultimi anni lo stesso è avvenuto nel rapporto medico-paziente.
3. Significato del biotestamento
Ogni essere umano è unico e irripetibile. Ognuno di noi nasce con la capacità di vincere la vita.2 Questo intendeva Martin Buber, filosofo, teologo, pedagogista con l’esempio del rabbino a cui sul letto di morte venne chiesto se era pronto ad andare all’altro mondo. “Sono pronto disse il rabbino, perché dopo tutto non mi verrà chiesto: perché non sei stato Mosè? ma solo: perché non sei stato te stesso?3 È arrivato il momento quindi che ognuno di noi si prenda la vita nelle proprie mani elaborando un progetto di vita globale e coerente per quando non sarà più in grado di poterlo fare, il biotestamento per l’appunto. Si deduce che i tempi siano maturi perché si inizi a rispettare il diritto di ogni cittadino a decidere in autonomia e libertà il proprio futuro, soprattutto nel caso si realizzasse la malaugurata condizione di impossibilità e incapacità di esprimere la propria volontà. È questo il senso e il significato del testamento biologico.
Si tratta quindi non solo di salvaguardare il principio dell’autodeterminazione, ma di attuare un vero e proprio percorso di death education, di sensibilizzare i giovani al tema difficile, ma fondamentale, del termine e del senso della vita. Infatti buona parte dei casi in cui non è possibile esprimere la propria volontà riguarda proprio persone giovani, in condizione di danno cerebrale da trauma per incidenti automobilistici o motociclistici. Il testamento biologico assume quindi un valore profondamente educativo, costituisce un percorso di death education perché sollecita ciascuno di noi: adulto, giovane, adolescente, anziano ad affrontare i temi esistenziali, a dibatterli e a interrogare se stessi su come ciascuno vorrebbe concludere il proprio ciclo biologico, nel caso ci trovassimo nell’impossibilità di decidere autonomamente. Questo dibattito non può che essere utile alla formazione di una personalità consapevole e cosciente non solo sul grande tema dell’autonoma
2 James M.,- Jongeward D., Nati per vincere, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi), 1987.
3 Buber M., Il Cammino dell’Uomo, Qiqajon, Torino, 1990.
decisione sul proprio progetto di vita, ma anche sul problema del consenso informato alle terapie mediche, di cui il testamento biologico è una logica estensione.4
In questo percorso, tutti i professionisti dell’aiuto possono dare, ciascuno nella propria specificità, un contributo essenziale. Il loro è un ruolo educativo e promozionale, a sostegno dell’affermazione del principio dell’autodeterminazione e del consenso informato.
Il consenso informato è una grande conquista etica dei nostri tempi perché permette al cittadino che necessita di terapia di riappropriarsi del governo sulla propria vita e della decisione se e a quali cure sottoporsi. Va ribadito che il grande movimento popolare olandese che ha condotto alla legge sull’eutanasia è nato, ormai vent’anni fa, quando la popolazione ha potuto constatare che i moderni mezzi della medicina possono prolungare artificialmente la vita, opponendosi alla sua conclusione naturale per giorni, per mesi o per anni.
Poiché la decisione di come e quando prolungare con le nuove tecnologie l’assistenza è completamente nelle mani dei medici, le persone più illuminate della cultura olandese (il movimento era iniziato negli anni Settanta dopo la pubblicazione del libro di Van der Berg Medical Power and Medical Ethics) chiesero a gran voce che le singole persone potessero riappropriarsi della decisione se e quando tralasciare o sospendere la cura. Il movimento europeo a favore del testamento biologico è figlio di questo movimento civile, che vuole, in una società culturalmente evoluta, riaffermare il principio dell’autodeterminazione e del consenso informato, da redigere anticipatamente prima che un danno cerebrale impedisca la sua consapevole espressione.
4. Metodologie e strumenti per attuare il biotestamento
Quali strumenti posseggono, e di quali metodologie e approcci i professionisti dell’aiuto possono avvalersi, per supportare una persona ad autodeterminarsi alla frontiere della vita?
Un approccio accreditato nella prassi odierna è sicuramente quello sistemico – relazionale, che pone le sue basi nella Teoria Generale dei Sistemi elaborata dal biologo austriaco Ludwig von Bertalanffy. Egli presenta “una visione globale della realtà intesa come complessità organizzata, cioè come un insieme caratterizzato dalla interconnessione delle parti in un tutto organico e irriducibile.”5
Tale approccio fu applicato alle scienze sociali per la prima volta negli anni sessanta, soprattutto in riferimento alla terapia familiare: la famiglia veniva considerata un sistema all’interno del quale si sviluppavano delle relazioni, che influenzavano anche i rapporti del sistema famiglia con gli altri sistemi.
Nelle scienze sociali, il modello sistemico – relazionale richiama alcuni concetti chiave. Innanzitutto bisogna partire dal presupposto che ogni sistema è interattivo, cioè è organizzato al suo interno in modo tale che gli individui che lo compongono “assumono gradualmente (…) caratteristiche di interdipendenza.”6
Inoltre, ogni relazione interna o esterna al sistema è circolare: questo significa che le relazioni non possono essere considerate lineari, di causa – effetto. Ad ogni informazione ricevuta, infatti, i soggetti coinvolti risponderanno in modo diverso, secondo la loro storia ed il loro stato d’animo: questi feedback potranno sia stabilizzare, sia sconvolgere il sistema di relazioni.7
4 Una sintesi autorevole è presentata nel testo: U. Veronesi – M. De Tilla, “Nessuno deve scegliere per noi” – La Proposta del Testamento Biologico, a cura di Lucio Militerni, Sperling & Kupfer Editori, Roma, 2007.
5 Lerma M., Metodi e tecniche del processo di aiuto, Astrolabio, Roma 1992, p. 54.
6 Ibidem, p. 78
7 Ibidem, p. 79.
Un altro concetto fondamentale dell’approccio sistemico è quello di contesto, definito come “situazione sociale in cui ha luogo una relazione e che influenza il comportamento delle persone coinvolte in essa.”8 Il contesto può essere sia fisico che sociale. Nel caso specifico del processo di aiuto alla persona che si trova alle frontiere della vita e alla sua famiglia il modello sistemico – relazionale permette di ottenere una visione globale della situazione, prendendo in carico non solo il diretto interessato, ma anche la sua famiglia, che si occupa della sua assistenza e che vive con lui.
Con queste persone il professionista deve collaborare, anche attivando ulteriori servizi. I congiunti devono essere sostenuti sia prima, quando il parente è ancora vivo e ha bisogno di cure, sia in seguito alla morte di questo, quando bisognerà riorganizzare i ruoli familiari ed elaborare il lutto.
L’approccio sistemico relazionale ritengo possa essere un valido strumento per consolidare i vari network in cui operano i professionisti dell’aiuto, costruire logiche ampie di rete per un’efficace presa in carico.
La valutazione dei bisogni di chi si trova alle frontiere della vita, della tappa ultima del viaggio non può prescindere dalla multidimensionalità. Se si trascurano gli aspetti sociali nella valutazione tutto il percorso di cura risulta inficiato. Gli assistenti sociali sono figure cardine nella presa in carico.
Per attuare l’intervento sociale nella cura del fine vita gli assistenti sociali in sinergia con gli altri professionisti dell’aiuto si avvalgono dei seguenti strumenti. Il colloquio, il contratto, la visita domiciliare, strumenti professionali ad hoc per elaborare un progetto in tutte le fasi della vita, compresa quella finale.
Il colloquio ritengo sia lo strumento più efficace per esternare le proprie direttive di fine vita. Data la delicatezza della situazione richiede al professionista particolari competenze ed abilità etiche e relazionali. Può avvenire in ospedale o al domicilio; il professionista deve essere capace di saper ascoltare la persona, prestando attenzione anche al non verbale. Molte volte il non detto aiuta a capire più a fondo la personalità del malato. I professionisti coinvolti: infermieri, medici, assistenti sociali, psicologi, educatori, operatori socio sanitari, ministri del culto, dovrebbero avere la capacità di lasciar parlare liberamente la persona, dimostrando di non essere spaventati dalla particolare situazione o dall’argomento di cui si parla, ma di conoscerlo e di saperlo affrontare.9
Se la persona sente di poter parlare della propria morte, chi lo ascolta deve essere in grado di porsi in maniera equilibrata di fronte a questo argomento. E’ necessario che i professionisti dell’aiuto si confrontino con la propria morte. L’atteggiamento più costruttivo in chi assiste chi si trova alle frontiere della vita è la serenità nei confronti della morte. La morte va integrata nella propria vita.
Il colloquio deve avvenire nella verità, arginando la congiura del silenzio e stimolando la resilienza.
Questo tipo di setting non facilmente governabile richiede la compresenza e l’alleanza tra professionisti, una finezza comunicativa nel presentare il contenuto del biotestamento, ossia l’atto di volontà che dispone in merito ai trattamenti terapeutici, al prelievo di organi, all’assistenza religiosa ed ai riti funebri.
Altro strumento è la visita a domicilio, un modo per toccare con mano il contesto nel quale il malato vive o è ricoverato: propria abitazione, ospedale, hospice, RSA. Recarsi dalla persona assume un rilievo particolare: è il professionista che si reca dalla persona, la valorizza nella sua dignità, progetta un ritorno a casa, se possibile, attiva i servizi territoriali, tiene i contatti con il medico di
8 Settembrini F., Glossario, in Toscano Mario Aldo ( a cura di ), Introduzione al servizio sociale, Laterza, Bari, 1996, p. 246.
9 Smith Carole R, Vicino alla morte. Guida al lavoro sociale con i morenti e i familiari in lutto, Erickson, Trento, 1990, p. 77.
medicina generale, inoltra le pratiche per l’invalidità civile o il prestito di ausili, sostiene la famiglia nel suo difficile compito di accudimento.
Fine ultimo di questo colloquio e visita alla persona nel contesto in cui si trova a vivere è la riappropriazione della vita attraverso l’esternalizzazione della propria volontà ratificata attraverso uno scritto: un contratto.
Il biotestamento è una forma di contratto. Il contratto è strumento principe, particolarmente del servizio sociale finalizzato alla costruzione di un progetto d’intervento, del piano concreto di lavoro attuato assieme alla persona. Il contratto, quale accordo tra l’operatore e l’utente, è strumento di definizione e strutturazione dell’intervento,10 risponde all’istanza, propria del servizio sociale, di garantire l’autonomia e l’assunzione di responsabilità delle persone. Esso è la reificazione degli intenti dei due soggetti coinvolti nella relazione d’aiuto. Nella redazione del biotestamento la persona è l’attore principale, esercita pienamente il principio dell’autodeterminazione, presumibilmente in un momento della vita in cui non potrebbe più far valere le sue decisioni; esercita il diritto di abitare le frontiere della vita.
5. Il ruolo delle professioni d’aiuto
Le professioni d’aiuto hanno il compito di predisporre programmi e progetti di intervento per fronteggiare criticità e per promuovere la qualità della vita. Nell’azione di presa in carico si trovano sovente di fronte al decadimento psicofisico, alla sofferenza fisica, psichica, alla terminalità, a scelte che chiamano in causa valori e principi. Le competenze professionali dei professionisti dell’aiuto si collocano tra l’essere e l’agire. L’etica di Tommaso d’Aquino era fondata sul principio: “Agere sequitur esse,” ossia l’agire è la manifestazione e sviluppo dell’essere. Si agisce in base a ciò che si è. L’essere chiama in causa i valori, i principi che nel lavoro di cura non possono essere un optional. Il prodotto della relazione d’aiuto non è solo agire, ma anche essere. Essere e agire si fondono nello stare in relazione. Per questo è fondamentale una formazione etica dei professionisti del sociale e del sanitario.
La connessione tra fare materiale e saper stare in relazione è peculiarità della cura, è indicatore di qualità percepita, è particolarmente necessaria nei percorsi di fine vita.11 Questa impostazione innovatrice si scontra con una visione dualistica che scinde la mente, la psiche, dal corpo. Il benessere non è solo quello corporeo. Secondo la definizione dell’OMS il benessere è multidimensionale, abbraccia la sfera, corporea, relazionale, psichica, emotiva, affettiva, sociale, spirituale. La relazione è lo strumento di lavoro del professionista dell’aiuto; essa chiama in causa i propri vissuti, il proprio senso delle cose, della vita, della morte, sui quali soggetto fragile e professionista si confrontano.
La relazione è la sostanza umana e professionale del lavoro di cura che non può essere altro che responsabilità dell’altro, in quanto è generata dall’attività di due persone reciprocamente collegate. In questo spazio- tempo del curare e del morire vi è un bisogno straordinario di riconoscimento e riconoscenza umana. Scrive Marie de Hennezel: “Raccontare la propria vita, prima di morire. Il racconto è un atto e per chi ha un’autonomia spesso molto ridotta, quell’atto assume tutta la sua importanza. C’è un bisogno di dare forma alla vita, e di comunicare a qualcun altro questo
10 Fargion S., I linguaggi del servizio sociale, Carocci, Roma, 2002, pp. 105 – 134.
11 Albano U., Floridia R., Lisi P., Martinelli N., La dignità nel morire. Intervento sociale, bioetica, cura del fine vita, La Merdiana, Molfetta, 2010, p.83.
processo che le conferisce un senso. Una volta concluso il racconto, la persona sembra in grado di mollare la presa e di morire.” 12
Diventa utile quindi aiutare chi si trova alle frontiere della vita a narrarsi. Attraverso la narrazione di sé il soggetto fragile diventa quindi consapevole di sé, protagonista della propria storia, persona inserita in una rete di relazioni e dinamiche psicologiche.
Per essere all’altezza del compito è opportuno che i professionisti dell’aiuto acquisiscano competenze etiche e relazionali nel lavoro di cura. Strumento fondamentale per i professionisti che operano nell’ambito delle cure palliative per esempio è il Core Curriculum. Esso contiene l’insieme minimo delle competenze-conoscenze. Compito delle cure palliative è di supportare le persone ad esprimere nella malattia le proprie priorità, il proprio concetto di dignità, sospendendo ogni giudizio morale, ed evitando di proiettare sul malato le proprie priorità.
La specificità delle Cure Palliative è quella di dar voce al bisogno del paziente rispettando i valori e le volontà nell’ambito della relazione d’aiuto. E’ necessario pertanto saper individuare e discutere le questioni inerenti le scelte di fine vita del malato.
Le competenze etiche e relazionali le possiamo cosi declinare:
– rispetto dei valori e dei convincimenti etici del soggetto fragile. Questo principio è spesso disatteso nel lavoro di cura. Bisogna ben guardarsi dal rischio sempre reale di imporre la propria gerarchia di valori;
– sostenere la persona nell’esercizio del suo diritto ad autodeterminarsi;
– ascolto empatico;
– vicinanza e lucidità affettiva;
– lavoro d’equipe e di rete;
– lettura multidimensionale dei bisogni.
L’acquisizione di queste competenze non si improvvisa. Non ci si improvvisa curanti, lo si diventa attraverso l’apprendimento di tecniche e strumenti. Strumento principe è a mio avviso il colloquio che si declina, accanto a chi si trova alle frontiere della vita, nell’alleanza terapeutica professionista-paziente, nel consenso informato alle terapie. È questa la condizione necessaria per la liceità dell’intervento di cura, affinché la relazionalità asimmetrica tra professionista dell’aiuto e soggetto fragile si trasformi in un’alleanza terapeutica.
12 De Hennezel M., La morte amica, Rizzoli, Milano, 1996, pp.162-163.
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L’autore
Nicola Martinelli è social worker e formatore. Laureato in programmazione e gestione dei servizi
sociali e scienze del servizio sociale, ha alle spalle un percorso di studi umanistici. Si è perfezionato
in Bioetica presso l’Università degli studi di Padova con un corso di Alta formazione post laurea ed
una ricerca sul ruolo dell’assistente sociale nella pianificazione delle cure di fine vita.
Ha maturato la sua esperienza professionale in enti locali, hospice, nell’area anziani. Attualmente
lavora in un ente locale in provincia di Treviso. I suoi ambiti di ricerca sono le politiche sociali, la
bioetica, la religione, la tanatologia. Insegna nei percorsi formativi rivolti al personale di cura e nei
corsi di formazione per operatori socio sanitari.
È autore di un testo intitolato: “Alla fine decido io” – Il testamento biologico visto da cittadini –
professionisti – politici – leader religiosi, Il mio libro – Gruppo editoriale l’Espresso, Roma 2009.
Coautore di un testo della Collana “Premesse per il cambiamento sociale” delle edizioni la Meridiana
intitolato: “La dignità nel morire” Intervento sociale, bioetica, cura del fine vita, Edizioni La
Meridiana, Molfetta 2010.
È collaboratore del Master in Death Studies & The End of Life dell’Università degli studi di Padova,
diretto dalla Prof.ssa Ines Testoni.