CHIESE EVANGELICHE
La morte, Signora di tutti
Scientificamente la morte è la cessazione di quelle funzioni biologiche che definiscono gli organismi viventi. Biologicamente la morte (dal latino mors) può essere definita in negativo, come la permanente cessazione di tutte le funzioni vitali dell’essere vivente, cioè dell’organismo vivente; la fine della vita. Ma determinare quando una permanente cessazione di tutte le funzioni vitali sia avvenuta, non è semplice. La definizione si è evoluta nel tempo insieme ai cambiamenti culturali, religiosi e scientifici. La morte viene sempre considerata come un processo: con la locuzione morte biologica ci si riferisce alla conclusione di tale processo in riferimento ad un organismo vivente, ovvero alla dissoluzione le epoche storiche filosofi artisti psicologi cantanti hanno affrontato ed analizzato il problema della morte. Esistono al riguardo poesie, canzoni, detti popolari, ci sono interviste e libri di persone che hanno provato la morte fisica per problemi di salute ma nessuno ha ancora dato spiegazione di quello che ci attende. Oggi però il limite dell’esistenza tende ad allungarsi e, con il progresso della scienza e della tecnologia, si ha la tendenza a sfuggire alla consapevolezza della morte. Si rimuove oppure si considera come un confine da allargare, rivendicando un fantasma di potere umano che la scienza contribuisce a I sostenere. Freud ha affermato: “In verità è impossibile per noi raffigurarci la nostra morte e ogni volta che cerchiamo di farlo possiamo constatare che in effetti continuiamo ad essere presenti come spettatori. Perciò… non c’è nessuno che crede alla propria morte, detto in altre parole, che nel suo inconscio ognuno di noi è convinto della propria immortalità”.
Uno dei più grandi filosofi della filosofia contemporanea, il filosofo tedesco Martin Heidegger (1889-1976) in una delle sue opere principali “Essere e tempo”, rimasto enigmaticamente incompiuto, alimenta la riflessione dichiarando che appena un essere umano viene alla vita è già abbastanza grande per morire. Ma afferma anche che l’esserci è determinato dall’incompiutezza dalla mancanza, fra ciò che manca c’è anche la sua fine, la morte. La morte non va concepita in modo epicureo come scomparsa dell’io, ma è una possibilità di esserci, è la possibilità più propria incondizionata, insormontabile e certa. Ma a quando il fatal incontro col tristo mietitore? Pensare alla morte, alla propria morte non è un esercizio ginnico di libera scelta. È un pensiero che almeno una volta ci sfiora, che sta dentro ciascuno di noi, una realtà che accomuna l’intero genere umano, senza distinzione di ceto sociale, di razza o di religione. Interrogarsi sulla morte, non è questione religiosa o laica; le risposte possono essere religiose o laiche, radicate nella fede o nell’incredulità, in un differente orizzonte di senso o nel nichilismo. Di fronte alla domanda della morte esiste un terreno comune, così come tutti noi abbiamo il comune destino della morte. Ognuno con le nostre domande e le nostre differenti risposte, le nostre speranze, i nostri dubbi, la nostra fede, le nostre certezze e insicurezze e le nostre considerazioni, a volte, conflittuali. Gli agnostici, i non-credenti, hanno spesso accusato i cristiani di aver inventato l’idea di risurrezione per proiettare nella dimensione futura la loro sete di immortalità, cioè di non essere in grado di accettare il limite reale dell’esistenza. La resurrezione è stata considerata un abile trucco della religione. Contemporaneamente i cristiani rimproverano i non-credenti di non essere in grado di trovare delle risposte portatrici di senso per la vita e di negare il problema. Anche Ludwig Andreas Feuerbach (Landshut, 28 luglio 1804 – Rechenberg, 13 settembre 1872) filosofo tedesco tra i più influenti critici della religione ha dichiarato che …”La morte non è in sostanza che un fantasma, una chimera… un nulla, nulla di positivo, nulla di assoluto, e la sua immaginaria realtà non sorge che dalle nostre idee… un mero nulla, uno zero…”. Nessuno ha risposte definitive, nessuno può vantare un sapere conclusivo né le scienze umane, né la teologia. La teologia però deve rendere ragione della speranza che è legata al nome di Gesù Cristo, può e deve dire la sua confessione di fede, il suo “credo la risurrezione dei morti”, nella consapevolezza di abbandonare il terreno della razionalità ed entrare in un non-sapere in cui crede e spera. A questo “esercizio” ci prepara la sapienza biblica dell’Antico e del Nuovo Testamento. Un esercizio iscritto in una lunga storia, per noi tutti situata nell’ambito dell’Occidente cristiano europeo.
Nel XVI secolo la Riforma protestante ha impresso, in questo processo, una svolta significativa: l’immagine di un Dio giudice vendicativo, che manda i buoni in paradiso ed i cattivi all’inferno dopo il giudizio universale, rappresentato in maniera inquietante nella Cappella Sistina dal nostro Michelangelo ha ceduto il posto al volto di un Dio misericordioso, che perdona ed accoglie l’essere umano penitente. Accanto la riproduzione del Figlio Prodigo del celebre maestro protestante, Rembrandt. La tradizione protestante però ha lasciato poco spazio alla riflessione sulla morte in sé e alla ritualità che l’accompagna, al rito del lutto, focalizzando tutta l’attenzione sulla dimensione della risurrezione e della promessa del Regno. Reagendo alla superstizione medievale, alla pratica delle messe per i defunti, alle processioni, ai molti aspetti di una spiritualità per molti versi ormai più pagana che cristiana, i Riformatori hanno cercato di recuperare la sobrietà dei testi evangelici di fronte alla realtà della morte. L’umanista e teologo francese. Giovanni Calvino (Noyon, 10 luglio 1509 – Ginevra, 27 maggio 1564) che con Lutero, massimo riformatore religioso e il fondatore del Calvinismo, che fa parte della famiglia delle chiese protestanti nei suoi Ordinamenti ecclesiastici del 1541, dedica poche righe alla sepoltura dei morti e si preoccupa di contrastare ogni forma di superstizione che offende la parola di Dio. Ma se la presa di distanza dalla superstizione medievale legata alla morte e ai morti era teologicamente e pastoralmente giustificata e corretta, è chiaro altresì che l’accompagnamento “onesto” dei morti che evitava ogni manifestazione esteriore e comprimeva la sua dimensione rituale avrebbe difficilmente potuto imporsi nelle generazioni future, nel senso che la severità nei confronti della superstizione portava con sé, inevitabilmente, anche la severità verso ogni forma di ritualità e di esteriorità. Ed è precisamente questo bisogno antropologico fondamentale che emergerà successivamente e troverà forme di espressione proprie di una spiritualità protestante.
La Riforma ha rifiutato la penitenza, viatico, estrema unzione, indulgenza plenaria, preghiere degli agonizzanti. Si rileva la mancanza dell’intercessione della Vergine e dei santi, l’assenza di aspersione d’acqua benedetta, del segno della croce, del bacio del crocifisso. Mancano, inoltre, il pastore e la confessione dei peccati.
Testo provvisorio,
tratto da:
“G. A. Carru, M. Chiaretti: Vivere la morte nelle varie religioni. Un momento di mediazione interculturale, Edizione Nuova Cultura, Roma 2009.”